«Dimissioni record? Anche le aziende
cambino mentalità»

IL FENOMENO. L’anno scorso sono state oltre 42mila. Boom tra gli under 30 e nel settore manifatturiero. Rota (Confindustria): è un’evoluzione che c’è ovunque.

«Se stiamo insieme ci sarà un perché», ma quando il collante viene a mancare, essenzialmente per motivi economici o personali (l’ordine è a propria discrezione), ecco che scattano le dimissioni volontarie dal posto di lavoro. Un fenomeno tutt’altro che raro, se si considera che nel solo 2022 nella nostra provincia si sono dimesse ben 42.244 persone. È il dato più alto degli ultimi cinque anni, a cui si arriva dopo un’escalation: dalle 30.702 del 2018, alle oltre 32 mila del 2019 e, dopo la parentesi del 2020 - quando le dimissioni, nonostante la pandemìa, hanno comunque superato quota 26mila - nel 2021 sono risalite, attestandosi a circa 39mila. Fatto sta che, mettendo a confronto i numeri del 2018 con quelli del 2022, risultano 11mila e 500 persone in più che hanno stracciato il proprio contratto: un aumento che sfiora il 40%.

Sono gli under 30 a mostrare una propensione maggiore alle dimissioni, con picchi tra i giovani di un’età compresa tra i 20 e i 24 anni, in maggioranza maschi (3.943), per quanto sia elevato anche il numero di femmine (2.652). Il «boom» si registra nelle attività manifatturiere, con oltre 11mila dimissioni, a cui seguono il comparto delle costruzioni con più di 6mila e le attività legate al turismo (alloggio e ristorazione) con quasi 5.300. Commercio, trasporto e magazzinaggio, sanità e assistenza sociale sono gli altri settori in cui gli addii dei lavoratori sono più frequenti.

Questa tendenza, non nuova per la verità, si ripercuote sulle aziende, alle prese con «uno squilibrio tra la domanda di profili, che è in aumento, e l’offerta di lavoro, che è scarsa sia nei numeri, sia nella tipologia di competenze», come spiega Paolo Rota, vicepresidente di Confindustria Bergamo con delega alle relazioni industriali. E si ritorna sempre lì, a quel terribile 2020: «La fase pandemica ha messo in discussione un modello: ora si cerca un equilibrio diverso nella propria vita e il lavoro non è più visto come un sacrificio assoluto», sottolinea Rota. Ma - e a dirlo è un imprenditore - «io non voglio darne una connotazione negativa: è un’evoluzione che non c’è solo in Italia e che si concentra maggiormente nelle giovani generazioni». E «come imprese dobbiamo adeguarci: è inutile lottare contro i mulini a vento, la soddisfazione delle persone conta di più e l’organizzazione aziendale si adatterà a questa connotazione».

Certo, «le aziende più evolute e che se lo possono permettere cominciano a riorganizzare gli spazi, offrono welfare, ma dobbiamo tenere conto che la tipica struttura italiana è la piccola e media impresa». Non da ultimo, su questo fenomeno incide (anche) una questione di genere: «È necessario che lo Stato sostenga le lavoratrici donne, aiutandole attraverso strumenti ad hoc nell’accudimento dei familiari (bambini, anziani). Se gli altri Paesi europei lo fanno, non vedo perché non possa succedere anche da noi». Il punto è, afferma Rota, che «a forza di non incentivare le famiglie, abbiamo un problema demografico».

Se ora come ora «il sistema di monitoraggio non è ancora in grado di dirci cosa va a fare chi rassegna le dimissioni, sembra abbastanza certo che non si mette in proprio, perché i lavoratori autonomi sono in calo - sottolinea Orazio Amboni della Cgil di Bergamo -. È più plausibile che cambi posto di lavoro». Non solo i millennials sono più sensibili a ciò che offrono le aziende: «Se un trentenne o un quarantenne con esperienza vuole cambiare lavoro, neanche per sogno accetta un posto a tempo determinato».

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