Zero contagi, la prima volta in 6 mesi
«Bergamo non dimentica, siate prudenti»

Nelle ultime 24 ore nessun caso positivo in Bergamasca: ci vogliono però 40 giorni con nessun tampone positivo per mettere la parola fine alla pandemia da coronavirus. Il coordinatore degli infermieri della Terapia intensiva dell’ospedale Papa Giovanni: bardati come a marzo e l’attenzione resta alta. «Rispettate gli altri».

Nelle ultime 24 ore zero nuovi positivi al coronavirus in tutta la Bergamasca. È un dato importante, dal forte valore simbolico, un traguardo atteso sei mesi ma non è ancora il momento di abbassare la guardia, avvertono gli esperti. Lo dicono i dati in Lombardia, sabato 22 agosto 185 i nuovi casi di contagio, oltre mille in tutta Italia. Per buona parte delle scorse settimane la nostra è rimasta in testa alla classifica delle province lombarde (e italiane) con più contagiati. Sabato la tanto attesa notizia. Il sindaco Giorgio Gori dichiara: «Segniamo un altro punto a nostro favore nella lotta al Covid-19». Luca Lorini, primario della Terapia intensiva del Papa Giovanni, invita alla prudenza: «Ci vogliono almeno 40 giorni con nessun tampone positivo perché si possa mettere la parola fine. Ne bastano invece solo 15 caratterizzati da comportamenti irresponsabili per tornare a marzo».

«Siamo a Bergamo: qui basta tornare con la mente a marzo per capire che non possiamo permetterci di abbassare la guardia. Basta ricordare quello che abbiamo vissuto solo qualche mese fa, sulla nostra pelle. Il tempo diluisce i ricordi, è vero. Ma non qui, non a Bergamo». Alessandro Bresciani è una di quelle persone che, ancora oggi, vive e lavora come se si fosse in piena epidemia. O quasi.

Coordinatore infermieristico della Terapia intensiva cardiochirurgica del Papa Giovanni XXIII, Alessandro (47 anni, di Villa di Serio) tutti i giorni entra in reparto: e lì scatta l’operazione vestizione. Ci s’infila la visiera, la mascherina ffp2, e il camice impermeabile: «È ancora dura lavorare così, il camice fa sudare: ci sono colleghi che durante il turno si devono cambiare, sono fradici. È bene che lo si sappia: siamo bardati come a marzo». Bardati, attenti, sempre all’erta. Gli operatori sanitari impiegati in terapia intensiva il lusso di abbassare la guardia non se lo possono permettere. Loro. «No, siamo a stretto contatto con una tipologia di pazienti dipendenti in toto da noi. E dunque li dobbiamo trattare come se fossero tutti Covid positivi. Quanto ci piacerebbe non dover usare la mascherina. Quanto apprezzeremmo la possibilità di poter alleggerire le misure di prevenzione. Ma, semplicemente, non è possibile. Vedere che qualcuno prende sottogamba questo periodo, pur caratterizzato da numeri lontani da quelli di marzo, ci fa preoccupare. Come possono non aver capito?». Una frustrazione che il personale vive senza aver ancora rimarginato del tutto la ferita. «Chi lavora in terapia intensiva è abituato al dolore: è il reparto in cui più si ha a che fare con la morte. Ma eravamo abituati ad avere a che fare con persone in fin di vita strette dall’affetto dei parenti, assistite con la cura amorevole dei familiari. Mai soli. Non lo erano mai stati. È stato difficile vedere che se ne andavano così, senza nessuno al loro capezzale». Immagini che non se ne vanno, che mesi dopo rimangono ancorate alla memoria di medici e infermieri. Professionisti che guardano con attenzione ai numeri contenuti, ma in chiara crescita, di questi giorni. E che di fronte alla resistenza o all’insofferenza di qualcuno nel dover osservare le più semplici, e tanto invocate, misure di prevenzione, non riescono a capacitarsi.

«Noi, in ospedale, eravamo appena tornati alla normalità. Stavamo iniziando adesso a riprendere tutti i servizi, quelli pre-Covid, per accogliere tutti i pazienti, anche chi non aveva potuto curarsi durante i mesi clou. Non possiamo buttare tutto all’aria proprio ora. Certo che saremo più pronti, che una recrudescenza non ci coglierà impreparati come lo scorso febbraio. Ma è bene che le persone lo sappiano: se non si usa un po’ di attenzione è un attimo ricadere. E non è detto che gli ospedali riescano a essere pronti, subito». Un invito alla prudenza tanto accorato quanto gentile: «So che gli italiani hanno avuto sino ad oggi un grande senso di responsabilità. Sono stato all’estero per qualche settimana con la mia famiglia e gli unici ad indossare la mascherina eravamo noi. Ma adesso, a chi interpreta il numero contenuto di casi come un nullaosta per abbandonare le più semplici regole di prevenzione, dico una cosa sola. Rispettate gli altri. Rispettate gli operatori sanitari. Tornate con la mente a marzo. Impossibile che abbiate dimenticato. Non a Bergamo».

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