Missionario a Cuba per 25 anni: «Lascio una comunità viva e in cammino»

L’INTERVISTA. Don Luigi Manenti rientra in Italia definitivamente dopo 25 anni di missione sull’isola di Cuba. «La gente soffre ma va avanti con fortezza e fermezza». Le sette valigie a ogni ritorno: «Piccoli segni di bene».

Don Luigi Manenti, parroco della comunità di San Antonio nella diocesi di Guantanamo-Baracoa, rientrerà in Italia definitivamente insieme a don Mario Maffi, con cui 25 anni fa ha iniziato la grande avventura della missione bergamasca nell’isola di Cuba.

Don Luigi, da quello che ci ha raccontato don Mario, agli esordi della missione nel 1999, vi siete confrontati con una terra in cui il cristianesimo era quasi sconosciuto.

«Qui, nell’estremo sud di Cuba, nelle zone di Imias e di San Antonio, la Chiesa non era mai stata presente. La visita di Giovanni Paolo II nel 1998 ha permesso di smuovere alcune cose: ha preso avvio una sorta di accordo per cui una famiglia cubana poteva dare ospitalità a un parroco in cambio di aiuto, e dare così inizio alla vita di parrocchia, lasciando alla Chiesa i propri beni al momento del testamento. In questa modalità, grazie a un signore che ci ha ospitato, è cominciata la nostra missione cubana: senza questo, non avremmo potuto nemmeno entrare».

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Come avete fatto a riaccendere la fede?

«All’inizio abbiamo incontrato una certa diffidenza. Ma la missione è proseguita. Sapevamo che la tradizione cubana era molto legata a due immagini che alla gente piacevano: il Sacro Cuore e la Madonna della Carità. Allora abbiamo cominciato ad andare nelle case a offrire questi quadri: se li accettavano, era un piccolo segno, l’inizio della relazione da cui partire per l’annuncio del Vangelo. Naturalmente, ci sono voluti anni: il primo battesimo è stato nel 2001, durante il terzo anno della nostra presenza missionaria».

Quindi andavate di casa in casa, non c’era una chiesa o un centro pastorale?

«Era tutto nelle case. E tutto è stato molto lento: ho tentato di celebrare una Messa in una casa, ma era troppo presto, per cui la gente non rispondeva nulla e non capiva davvero cosa stavamo facendo. C’è voluta tanta pazienza, serviva il tempo di costruire una relazione. La gente aveva molta paura, ma più di tutto, aveva il desiderio di questi momenti e di ascoltare il Vangelo: questo ci ha dato forza».

«Quando in un paese o in una frazione c’è qualcuno che mette a disposizione la sua casa per ritrovarsi a pregare, viene riconosciuto dalla gente come responsabile di quella comunità cristiana. Questo è fondamentale per l’opera della missione».

E come va avanti la storia dell’evangelizzazione?

«Come dicevo, i primi battesimi risalgono al 2001. Le prime sono state alcune donne, che poi hanno coinvolto i loro figli, chiedendo anche per essi il dono del battesimo: qualcuno era piccolo, altri adolescenti. Gli uomini in un primo momento sono stati pochi, perché avevano ancora più paura delle donne. Così, la relazione iniziale andava crescendo e intensificandosi, contagiando pian piano tutta la famiglia. Da allora fino ad oggi ho celebrato 3.507 battesimi. Naturalmente, come sempre accade, qualcuno se n’è andato e qualcun altro è poi ritornato. Ma alcuni adulti sono rimasti: sono diventati responsabili di una comunità, cioè figure che aprono la strada della conversione anche per altri».

Cosa fanno gli animatori della comunità?

«Quando in un paese o in una frazione c’è qualcuno che mette a disposizione la sua casa per ritrovarsi a pregare, viene riconosciuto dalla gente come responsabile di quella comunità cristiana. Questo è fondamentale per l’opera della missione, perché i preti arriverebbero solo una volta a settimana o anche meno frequentemente, mentre è necessario che qualcuno custodisca la relazione e animi la vita della comunità. Quando il responsabile è in gamba, la comunità risponde, canta e prega. Qui a San Antonio parliamo di 32 comunità che sono sorte attorno a queste case di preghiera, che diventano una sorta di “cattedrale” domestica del posto».

Qual è la caratteristica del popolo e della fede cubana che lei si porta a casa da questi 25 anni?

«È gente che ha sofferto molto, nella paura di essere chiamati per sentirsi dire di lasciar perdere la Chiesa. Ma la gente ha continuato, con fortezza e fermezza. Oggi tanti di loro si sono fatti più robusti nella fede, anche se la paura non è sparita».

C’è una comunità viva, che cammina. Infatti, anche chi viene a farci visita resta impressionato di come questa gente, che soffre tanto i bisogni, la fame e la miseria, resti comunque fedele alla Chiesa.

In che senso?

«L’atmosfera creata attorno alla Chiesa non è sempre stata facile. E frequentare la Chiesa può rendere alcune cose più complicate. Giusto per dare un’idea del clima che si respirava, ricordo questo aneddoto: erano le prime volte che andavo nelle comunità di montagna, e un funzionario del comune mi aveva detto che non potevo parcheggiare la jeep lungo la strada, ma dovevo metterla dietro le case, perché nessuno la vedesse. Dopo 7 mesi ho rischiato anche di essere espulso dal Paese, perché ero andato a trovare dei ragazzi che, come è usanza qui, durante il tempo della scuola venivano portati nei boschi per raccogliere il caffè, e un ministro religioso non può varcare la soglia del territorio educativo».

Qual è il frutto più bello di questi 25 anni di missione?

«C’è un gruppo di persone adulte che in questi anni, lentamente, ha capito ed è maturato. Adulti che hanno dato testimonianza. C’è una comunità viva, che cammina. Infatti, anche chi viene a farci visita resta impressionato di come questa gente, che soffre tanto i bisogni, la fame e la miseria, resti comunque fedele alla Chiesa».

C’è un aneddoto curioso che si racconta dei suoi viaggi in aereo: quando veniva a Cuba, portava 7 valigie, mentre quando tornava in Italia, si presentava in aeroporto solo con una borsa di plastica.

«Per tornare in Italia mi basta una borsetta dove mettere una giacca perché sull’aereo fa freddo. Poi in Italia ci sono un sacco di cose che qui non ci sono. Allora, quello che posso lo porto con me. Sono piccole cose: non si risolvono i problemi di nessuno, nemmeno con 7 valigie piene. Ma sono il segno del fatto che qualcuno ti vuole bene e si prende cura di te: un paio di occhiali, o di ciabatte, o una camicia - soprattutto quando uno ne ha bisogno e non ne ha - sono un segno di affetto. Ho portato a una donna ultra ottantenne una bottiglia d’olio: si è messa a piangere, perché erano due mesi che cucinava il riso facendone a meno, perché non poteva permetterselo».

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