«In Terra Santa c’è un clima di paura»

L’INTERVISTA. Il Custode fra Francesco Patton: è aumentato il grado di polarizzazione e di radicalizzazione. «Avvertiamo un senso di impotenza. Ma è necessario parlare di pace e riconoscere la sofferenza dell’altro».

Descrive quella in cui in cui vivono israeliani e palestinesi come una situazione di paura, un tempo sospeso e giorni ancora caratterizzati più di tutto da una componente di emotività molto forte, ad oltre un mese di distanza dall’attacco terroristico del 7 ottobre e dall’inizio della guerra tra Israele e Hamas a Gaza che hanno fatto esplodere in Medio Oriente uno dei conflitti più duri degli ultimi decenni.

Fra Francesco Patton, dal 2016 Custode di Terra Santa (dunque provinciale dei frati francescani presenti in Israele, Palestina, Giordania, Siria, Libano, Egitto, Cipro e Rodi), a margine di un convegno organizzato all’Università Cattolica di Milano non nasconde tutta la sua preoccupazione per un conflitto le cui conseguenze vanno ben al di là dell’area in cui sono concentrati in questo momento gli scontri.

Padre Custode, innanzitutto che clima si respira in Terra Santa in questi giorni?

«Respiriamo tutti un clima molto teso. Anche lontano da Gaza, dove la situazione è drammatica, è un clima fatto di paura: per il conflitto in corso, paura reciproca tra arabi ed ebrei quando si incrociano nelle strade delle città in cui vivono entrambi i popoli. Un clima di odio, desiderio di vendetta, rabbia, insicurezza. Da parte nostra, avvertiamo anche un certo senso di impotenza. Da un lato è aumentato il grado di polarizzazione e di radicalizzazione, dall’altro, dal 7 ottobre, la situazione è caratterizzata da una componente di emotività tale che impedisce l’ascolto reciproco».

«In Terra Santa c’è un clima di paura». Video di Daniele Cavalli

Come stanno affrontando il conflitto i cristiani locali?

«Anche se fanno parte tutti della stessa Chiesa locale, i cristiani di Terra Santa stanno affrontando il conflitto in modo diverso a seconda dei territori e dei contesti sociali in cui vivono. A Gaza (dove dei 2,4 milioni di abitanti solo un migliaio sono cristiani, ndr) il problema è la sopravvivenza fisica. Per gli arabi della Cisgiordania invece è il sostentamento economico: con i pellegrinaggi e il turismo bloccati (di nuovo, dopo essersi fermati a lungo durante la pandemia, ndr) a mancare è la principale fonte di lavoro in aree come quella di Betlemme. Dallo scoppio della guerra i check-point sono chiusi, la comunità è isolata al di là del muro, per cui è difficile venire a lavorare in Israele anche per chi di loro ha un’occupazione lì».

Poi ci sono gli arabi cristiani con cittadinanza israeliana, che vivono in città come Haifa, Tel Aviv, Nazareth…

«Sono arabi cristiani che non si sentono più accettati in Israele. Purtroppo, molti di loro stanno già dicendo di volersene andare, quando il conflitto finirà, diretti verso il nord America o in altre aree del mondo. È un fenomeno che negli ultimi anni ha riguardato il Libano e la Siria (ma la loro presenza si è ridotta notevolmente in tutto il Medio Oriente, un tempo abitato da molti cristiani, ndr). Purtroppo ora è alto il rischio di una nuova emigrazione di cristiani dalla Terra di Gesù».

C’è un altro gruppo di cristiani di cui si parla poco: sono i numerosi immigrati, soprattutto dal Sud-Est asiatico, con o senza cittadinanza, che lavorano in Israele.

«I loro figli, cresciuti nelle scuole israeliane, fanno il servizio militare e quindi ora si trovano a combattere. Loro vivono una lacerazione ulteriore, sapendo che a Gaza ci sono cristiani della stessa Diocesi».

Cosa dice e cosa fa la Custodia di Terra Santa in questo quadro così complesso?

«Abbiamo cercato di dire qualcosa fin dall’inizio, ma ci siamo resi conto quasi subito che parlare era, purtroppo, quasi inutile. Abbiamo cercato, dentro le nostre scuole, di aiutare i nostri studenti a riflettere su quanto stava accadendo e a tenere il cuore libero da sentimenti negativi: così il loro desiderio di pace si è espresso nei modi più semplici, con disegni, scritti, canti e preghiere. È un inizio, il tempo di fare qualcosa di più verrà pian piano».

È possibile pronunciare la parola «pace» in questo contesto?

«In questi giorni di guerra è molto difficile, ma al tempo stesso è assolutamente necessario. Credo che in questo momento il tema della pace vada affrontato guardando a diversi ambiti. Quello del linguaggio - civile e politico -, perché non si può fare la pace se si usa un linguaggio violento, che parla della pura e semplice eliminazione dell’altro. Ma anche quello delle concrete azioni: serve innanzitutto cercare la riduzione del conflitto, quindi una cessazione vera e propria degli scontri. Ma poi bisogna andare oltre, perché cessazione delle ostilità non significa per forza pace. E promuovere in modo esplicito un’“educazione alla pace” che, a ben guardare, manca un po’ ovunque, non solo in Terra Santa».

Di cosa è fatta l’«educazione alla pace»?

«È fatta di educazione al riconoscimento della dignità della persona che mi sta di fronte e all’accettazione reciproca, ed è importante soprattutto in contesti in cui sono presenti più culture, etnie e religioni. Quando uno si ferma alla sola percezione della propria sofferenza il risultato è che alimenta il proprio rancore e il proprio odio. Fino a quando uno non riconosce anche la sofferenza dell’altro, e la dignità della sofferenza dell’altro, non è possibile passare dall’odio alla compassione, dal desiderio di vendetta a quello di pace».

Guardando avanti, quali prospettive vede?

«Finché non tacciono le armi è impossibile parlare di interventi concreti, di iniziative di dialogo, di ricostruzione. In questo momento è necessario che si arrivi alla fine delle ostilità il più velocemente possibile e con il minor numero di morti possibile. Anche se i morti, purtroppo, sono già troppi. Quando questa guerra finirà bisognerà cominciare a ricostruire la convivenza, e farlo sarà di certo più difficile che ricostruire le case distrutte».

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