Con le Europee
la verità sui conti

Il 10 aprile saremo in piena campagna elettorale per le Europee. A quella data il governo dovrà presentare il Documento di economia e finanza (Def) per il triennio 2019-2022. Nel documento si dovrà dire la verità sull’economia italiana e indicare le soluzioni per riprendere il cammino della crescita interrotto esattamente un anno fa. Il punto è che queste soluzioni per forza di cose non saranno indolori.

Non c’è niente di peggio per un politico che parlare di sacrifici e di tasse in campagna elettorale. Cosa faranno Conte, Di Maio e Salvini? In passato ci sono stati precedenti di rinvii del Def, ma brevi, una o due settimane al massimo. Se qualcuno dovesse pensare di rimandarlo a dopo le Europee, cioè all’inizio di giugno, sarebbero in parecchi a farsi sentire: i mercati, naturalmente, e la Commissione europea che ci richiamerebbe ai nostri obblighi. In qualche modo il momento della verità dovrà essere affrontato.

Per il momento, la maggioranza si limita a esorcizzare le analisi negative sulla nostra situazione che piovono ogni giorno dall’estero e dall’interno. L’ultima è arrivata dall’Ocse. Il prestigioso istituto internazionale di Parigi ha bocciato su tutta la linea la politica economica del governo Conte. Sia il reddito di cittadinanza (influenza sulla crescita minimo, incentivo al lavoro nero) sia la cosiddetta Quota 100 del sistema pensionistico (rallenta la crescita, aumenta il debito) sono considerate misure non solo inidonee ma addirittura peggiorative della nostra situazione. La quale ora si può delineare così: crescita ridotta a -0,1% nel 2019 (contro le previsioni governative prima dell’1,5 poi ridimensionate all’1, fino a sperare in un sia pur minimo segno «più» che invece sembra che non ci sarà).

Deficit stimato al 2,5% nel 2019 (contro il 2,04 concordato con la Commissione dopo una faticosissima trattativa vinta da Bruxelles) e addirittura al 3% nel 2020. Considerando che se non centriamo gli obiettivi di finanza pubblica Conte si è impegnato su una clausola di salvaguardia che ci obbliga ad aumentare l’Iva se non troviamo 23 miliardi sull’unghia. Messe così le cose si capiscono due questioni: la reazione stizzita ma vuota di contenuti di Di Maio («L’austerità la facessero a casa loro, a casa nostra decidiamo noi») e la tentazione di rinviare, appunto, il Def. Che dovrà essere redatto dal ministro Tria, il quale da una parte sa benissimo che dopo le Europee tornerà agli amati studi – lo dovrebbe sostituire il potente sottosegretario Giorgetti – ma dall’altra ancora per un po’ di mesi tocca a lui firmare le cose dolorose.

E Tria è sotto attacco quasi ogni giorno: Lega e M5S premono per ottenere i rimborsi ai risparmiatori coinvolti nei fallimenti bancari che tardano a vedere la luce, e pretendono provvedimenti «elettorali» da inserire nel decreto Crescita non a caso ancora in mente al pari del provvedimento «Sblocca cantieri» che non riesce a sbloccare neanche se stesso. A chi lo assedia il ministro risponde sempre con le stesse parole: «I soldi sono finiti». I vice premier non sentono ragione: non possono cacciarlo su due piedi solo perché le dimissioni del responsabile del Tesoro scatenerebbero i mercati e comunque perché Mattarella non lo permetterebbe.

Il galleggiamento del governo reso inevitabile dalla gara elettorale tra leghisti e grillini ha un vero nemico: la situazione economica. Più peggiora, più la paralisi sarà evidente, più le conseguenze diventeranno pesanti. A meno, naturalmente, di un improvviso scatto di reni di Conte e dei due consoli governativi.

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