Bergamo senza confini / Val Calepio e Sebino
Domenica 02 Febbraio 2025
Tre anni in Cile con la famiglia, a fianco del popolo nativo Mapuche
LA STORIA. Francesca Cadei, a 41 anni l’esperienza in Sudamerica insieme al marito e 3 figli con la Comunità Papa Giovanni: «Al centro diritti umani, educazione e sensibilizzazione».
Tre anni in Cile con tutta la famiglia. Per lavorare, studiare, conoscere una cultura nuova, imparare la lingua, ma soprattutto per stringere legami che resteranno nel tempo.
Per Francesca Cadei, 41 anni di Tavernola Bergamasca, quella tra Valdivia e Santiago del Cile è stata l’ultima di una lunga serie di esperienze all’estero, cominciate quando di anni ne aveva solo 17. «Partii per un periodo di volontariato in Albania – ricorda –, e anche durante gli studi universitari in Psicologia ho continuato a viaggiare». Palestina, Uganda, e poi Kenya, Egitto e Sudafrica, dove per un anno ha seguito il sinodo dei vescovi africani. Nel mezzo ancora l’Albania e poi l’Afghanistan e il Kosovo. È durante uno di queste «missioni» all’estero che ha conosciuto per la prima volta Fabrizio Bettini, di Rovereto, oggi suo marito.
L’Operazione Colomba
«Ha dieci anni in più di me – prosegue – e ci siamo conosciuti all’interno dell’Operazione Colomba», il corpo nonviolento di pace dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata nel 1968 da don Oreste Benzi.
L’amore è sbocciato tra un viaggio e l’altro, dato che anche lui si è spostato tra la Croazia, la Striscia di Gaza, Bosnia, Kosovo, Albania, Cecenia, Russia e Georgia. Oggi, sempre nell’ambito della segreteria di Operazione Colomba, Fabrizio Bettini coordina il progetto cileno di monitoraggio dei diritti umani nel conflitto che vede contrapposti lo Stato e le imprese contro il popolo indigeno Mapuche.
«L’obiettivo del progetto è osservare la situazione del rispetto dei Diritti umani delle popolazioni indigene Mapuche nel sud del Cile, per trasformare il conflitto in confronto»
«Si tratta dell’unico popolo nativo rimasto, che continua la sua lotta non violenta per difendere il territorio dall’insediamento di piantagioni di eucalipto e da azioni che distruggono la foresta nativa – spiega Francesca Cadei –. L’obiettivo del progetto è osservare la situazione del rispetto dei Diritti umani delle popolazioni indigene Mapuche nel sud del Cile, per trasformare il conflitto in confronto, riferendo all’ufficio di Ginevra delle Nazioni Unite».
A gennaio 2020 Francesca e Fabrizio si sono recati in Cile per un mese «di prova», anche perché poi è arrivato il Covid e, con la pandemia di mezzo, sono rientrati in Italia, prima di ripartire nell’ottobre 2021. Al loro fianco i tre figli: Francesco quest’anno compirà 11 anni, Mario farà i 15 e Rosette i 16. Come hanno fatto a convincerli a lasciare la scuola, gli amici, le abitudini e la loro comfort zone per partire alla volta del Cile?
La partenza con i tre figli
«Avevamo Francesco che era piccolo e gli andava bene – racconta –, per lui era importante essere dove c’erano i suoi genitori. Rosette all’inizio non era molto convinta. Mario, invece, tra i tre era quello meno propenso. Il momento di svolta è arrivato nel momento in cui gli abbiamo detto di fidarsi di noi, perché non avremmo mai fatto nulla che avrebbe potuto farli stare male. Ed è andata bene: si sono tranquillizzati e si sono messi nelle nostre mani e si sono goduti l’esperienza in Cile. Oggi parlano perfettamente lo spagnolo, conoscono il popolo cileno e Mapuche, hanno potuto vivere in un luogo molto bello dal punto di vista naturalistico e, in generale, l’esperienza che abbiamo vissuto con la comunità locale è stata molto bella».
L’impegno nei diversi progetti
Durante gli ultimi tre anni la famiglia di Francesca Cadei ha avuto modo di instaurare legami con altre famiglie cilene, volontarie all’interno dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, ma anche con i caschi bianchi dell’Operazione Colomba, che si fermavano per dodici mesi prima di ripartire.
Attualmente Francesca è al servizio della Comunità come animatrice generale dell’ambito Scuola e a livello locale è animatrice del Servizio educazione e formazione. Non solo, collabora per dei progetti contro la dispersione scolastica e in Cile si è messa al servizio di alcuni progetti già attivi, come nel caso di «Mani sotto la pioggia», un’iniziativa dedicata ai giovani con disabilità: «Se paragonato all’Italia, in Cile non esistono iniziative per le persone con disabilità – prosegue –, ecco allora che con questo progetto si punta a potenziare le autonomie dei giovani, a farli uscire di casa per vivere nuove esperienze sul territorio. Ero anche referente per i caschi bianchi, sia a Valdivia che a Santiago: siamo intervenuti nelle scuole per alcuni incontri con gli studenti e fare prevenzione contro la violenza sulla donne, per sensibilizzare sulla salvaguardia dell’ambiente e per alcuni percorsi dedicati alle relazioni, alle emozioni degli adolescenti e alla dipendenza da sostanze stupefacenti».
Nessuno sapeva lo spagnolo
In quei tre anni vissuti in Cile Francesco, Mario e Rosette hanno frequentato le lezioni scolastiche, imparando in breve tempo a parlare e capire lo spagnolo. «Nessuno di noi lo aveva mai studiato – precisa la madre –. Prima di partire un’insegnante ci ha dato una piccola infarinatura. I nostri figli sono quelli che lo hanno imparato per primi: nel giro di un mese già parlavano la nuova lingua. Noi ci abbiamo messo un po’ di tempo in più, ma poi comunicare in spagnolo è diventato un’abitudine, anche perché la maggior parte delle nostre relazioni avvenivano con cileni, a parte tre famiglie italiane conosciute tramite la scuola e le attività sportive dei nostri ragazzi».
Il rientro e ciò che resta
Dopo essere rientrati in Italia un mese all’anno per tre anni, la scorsa estate il volo dal Cile verso lo stivale è stato l’ultimo. Ora l’impegno di Francesca Cadei e del marito Fabrizio Bettini prosegue, anche dall’Italia, ma senza chiudere definitivamente le porte a future esperienze nel mondo. «Per ora ci fermiamo qui, poi i nostri figli cresceranno e chissà – sottolinea–. Penso che abbiamo dato loro una grande apertura verso il mondo e magari, un giorno, saranno loro a dirci che vogliono partire».
«Non ci siamo mai sentiti soli»
Cosa ha lasciato questa esperienza? «Il Cile ha una cultura abbastanza simile alla nostra, è un po’ l’Europa del Sud America, quindi l’impatto non è stato come quando si va in Africa – conclude –. Rispetto alla frenesia e al nervosismo che si respirava in Italia, specie durante la pandemia, le persone erano più affabili e gentili, molto accoglienti, più rilassate. Il popolo Mapuche invece è molto diffidente ed è più difficile costruire un rapporto con le comunità indigene. Noi siamo stati davvero accolti a braccia aperte: non ci siamo mai sentiti soli. In generale io ho un carattere per cui sto bene un po’ ovunque, quindi mi sono ambientata bene, ma non nego che mi mancavano le persone e alcune piccole comodità di casa (e a qualcuno in famiglia anche la pizza italiana) – sorride –. Cosa mi sono portata a casa? Le persone e le relazioni tessute durante questa esperienza. Gli aspetti belli, ma anche quelli di difficoltà, vissuti all’interno dei progetti. Ma soprattutto le storie, i racconti, il vivere insieme. Il sapere che un pezzo di strada l’ho percorso là».
Bergamo senza confini
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