«La mia vita tra i profughi di Corinto: curo le ferite con l’arte»

Alleviare le sofferenze dei profughi all’interno del campo di Corinto, attraverso l’arte. È con questo obiettivo che Jessica Semperboni, 28enne neolaureata in Teoria e pratica della terapeutica artistica all’Accademia delle Belle Arti di Brera, a Milano, ha lasciato le montagne di Ardesio, paesino incastonato nelle Prealpi bergamasche, per raggiungere il campo profughi di Corinto. Lì, come volontaria, per diversi mesi, ha tenuto laboratori artistici rivolti agli ospiti del campo.

«La partenza era prevista per maggio 2020 – racconta la 28enne –, ma il Covid ha un po’ scombussolato i piani. Così quest’anno, ai primi di febbraio, insieme a Valentina, una compagna universitaria, sono partita alla volta della Grecia. Lì ad accogliermi c’era l’associazione italiana “La Luna di Vasilika Onlus”, da anni attiva in quell’area. Nel settembre 2019, a pochi passi dal campo di Corinto, l’organizzazione ha aperto un community center e una scuola per garantire una continuità didattica».

Davanti agli occhi della giovane è apparsa una situazione di desolazione, privazione e sofferenza; alleviata talvolta da piccoli gesti, come quelli dei molti volontari che si prodigano ogni giorno per rendere migliore la permanenza dei profughi.

«Il campo è stato aperto per consentire un flusso temporaneo – spiega –, ad alcuni di loro, dalle isole alla terraferma; un campo di transito, per alleggerire quelli più congestionati delle isole del Mediterraneo, come Lesbo, Chio, Samo, Lero e Kos. I profughi ospiti di questi campi sono persone che provengono per lo più dall’Afghanistan e dalla Siria, ma anche dall’Iran e dalla Palestina. Tra di loro anche congolesi e camerunensi, costretti alla rotta balcanica per sfuggire ai lager libici. Non hanno effetti personali. Sono passati dall’avere vite ordinarie, dai loro impieghi come professionisti, insegnanti, impiegati, operai, negozianti, dai banchi di scuola, all’essere privati di qualsiasi cosa. Persino della loro dignità. Sono persone che appartengono a un “altrove”, e per questo spesso disprezzate. I rifugiati, costretti ad aspettare un tempo indeterminato per sapere cosa ne sarà di loro, esistono a malapena come soggetti aventi diritti, in uno spazio dove la loro vita civile è continuamente violata. A loro sono negati tutti i diritti fondamentali dell’uomo: il diritto alla vita, al voto, all’identità, all’istruzione, alla salute. Non sanno cosa accadrà domani. La qualità della vita all’interno dei campi è drammatica, non ci sono spazi comuni, nessun accesso all’educazione scolastica; vivono in piccole stanze in cartongesso, condivise da cinque persone, e riparate da grandi tendoni. All’esterno una cucina comune e una ventina di bagni condivisi, a disposizione per circa ottocento persone. Una situazione che si è poi aggravata con la pandemia da Covid19. A tutte le associazioni è infatti attualmente impedito l’accesso nei campi».

Ma come può l’arte alleviare tutto ciò? «Me lo sono chiesta tante volte prima di partire – sottolinea Jessica Semperboni –: come può essere d’aiuto l’arte quando queste persone sono sprovviste dei beni primari ed essenziali? Come convincerò loro che il linguaggio artistico, allo stesso modo di quello verbale, può essere un metodo per esprimere sé stessi? Proporre un progetto di terapeutica artistica significa prendersi cura dell’altro attraverso l’arte; sono i materiali e i processi stessi a stimolare un cambiamento interno all’individuo. Una volta sul posto, lanciare il primo appuntamento è stata una grande sfida, ma loro hanno colto il mio invito e l’attività è partita, con due appuntamenti alla settimana per un gruppo di donne e uomini (limitato per via delle restrizioni). Prima di partire, senza conoscere minimamente le persone con la quale sarei andata a interagire, ho deciso di focalizzarmi sulla tematica del “confine”, la più adatta per accomunare tutti loro. Persone che superano frontiere, che tentano ricongiungimenti familiari, che portano dentro storie di luoghi lontani. La tematica del confine si palesa durante i laboratori artistici sotto forma di metafora; il confine può essere quello stesso di un foglio, la linea che traccia il nostro volto. Ho quindi deciso di lavorare con le donne sul concetto di pelle, organo sensoriale che divide ciò che sta dentro di noi da ciò che sta fuori. La pelle è una membrana che spesso porta segni tangibili di un vissuto: rughe, ferite, cicatrici. Con gli uomini, con i quali abbiamo intrapreso il percorso successivamente, il confine è diventato invece mappa, come luogo dell’immaginario e delle emozioni. Abbiamo lavorato sul significato del cammino e sul fatto che camminare si traduca nell’appoggio prima del tallone, poi della pianta e infine della punta; è quindi sinonimo di passato, presente e futuro, e il cammino porta con sé storie e desideri».

L’esperienza si è conclusa da poco e, Jessica Semperboni, è tornata a casa rinnovata, arricchita, grata.

«Sì, fare arte è prendersi cura di se stessi e degli altri – conferma la 28enne –: ne sono più che certa dopo questa esperienza. Sono partita con delle aspettative che sono state di gran lunga superate; ciò che ho vissuto e i legami che ho creato non sono spiegabili a parole. Spero di avere ancora la possibilità di lavorare unendo l’arte al benessere psicofisico. Abbiamo concluso con una mostra finale, esponendo i vari elaborati realizzati durante il laboratorio. I loro occhi erano diversi, ho intravisto luce e speranza. Ero felice, ho fatto bene il mio lavoro».

Essere più vicini ai bergamaschi che vivono all’estero e raccogliere le loro esperienze in giro per il mondo: è per questo che è nato il progetto «Bergamo senza confini» promosso da «L’Eco di Bergamo» in collaborazione con la Fondazione della comunità bergamasca onlus. Per chi lo desidera è possibile ricevere gratuitamente per un anno l’edizione digitale del giornale e raccontare la propria storia. Per aderire scrivete a: [email protected].

© RIPRODUZIONE RISERVATA