«In Australia per parlare inglese
Lavoro da 15 anni nel governo locale»

Storia di un anno sabbatico divenuto scelta di vita. La scusa di partenza: imparare l’inglese. L’idea: farlo al mare sotto un caldo senza fine. La conclusione: a Beppe, quella lunga vacanza, ha cambiato la vita. «Sono cresciuto a Treviglio, dove vivevo giornate tranquille», racconta Giuseppe Erba dalla sua casa di Canberra, la capitale dell’Australia. «Il lavoro a Orio, gli amici, il calcio: tanti momenti piacevoli, forse troppo scontati. Così un giorno ho preso l’aspettativa». Era il 2006: nelle mani una valigia e un trolley, nelle tasche i suoi 30 anni e cinquemila euro. Da allora sono passati quasi tre lustri e oggi Beppe, con un impiego da “statale”, una moglie e tre figli, quando si sente chiedere: «Voglia di tornare?» risponde pronto: «Vieni qua e poi mi dici».

E si che, prima di partire, le sue nozioni australiane erano quelle dell’italiano medio, cioè nulle. «Conoscevo i nomi delle città più importanti, sapevo del fascino di questa enorme isola in mezzo agli oceani, ma in realtà stavo per fare un enorme salto nel vuoto. Tanto più che, prima di partire, ho prenotato solo due cose: una settimana di ostello a Brisbane e tre mesi di corso per imparare la lingua». Avventura allo stato puro, insomma, pure problematica in avvio, «perché i primi giorni non capivo proprio nulla di quello che mi accadeva. L’inglese scolastico non ti aiuta, per giunta quello australiano tende allo slang: insomma, l’impatto è stato davvero spiazzante, ero in un paese tropicale e la prima cosa che ho fatto è stata andare a vedere una partita di hockey su ghiaccio». Trovare alloggio, invece, non è stato difficile: «Un professore affittava stanze vicino a casa sua: vivevo con un sudcoreano, un brasiliano e un saudita, a raccontarla sembra l’inizio di una barzelletta. Insieme andavamo a scuola e passavamo il tempo libero, poi il venerdì sera c’era sempre il party insieme al professore e alla sua famiglia».

Tre mesi così, ad assimilare la lingua e meditare sul futuro. «Poi ho dovuto cercarmi un lavoro, perché in Australia gli stranieri o si danno da fare o vengono rispediti al punto di partenza. Io sono andato sul grande classico, la pizzeria». Il locale si chiamava “Arrivederci” e ovviamente a gestirlo c’era una coppia di italiani: «Era il periodo dei mondiali di Germania, quelli che abbiamo vinto eliminando tra l’altro l’Australia con un calcio di rigore: e bisogna dire che quel tuffo in area di Grosso me lo rinfacciano ancora oggi. Io andavo là a vedere le partite e alla fine i titolari mi hanno preso in simpatia, tanto da offrirmi un posto: servivo ai tavoli con il mio accento curioso che, devo dire, faceva anche una discreta presa sulle ragazze…».

Franco, il proprietario, era un romanista sfegatato, aveva piazzato ovunque teleschermi, maglie, bandiere. Poco spazio, invece, per la nostalgia: «Mi spiegava la differenza fra Australia e Italia e mi diceva: Beppe, là da voi la situazione sarà sempre quella, gli italiani le cose non le cambieranno mai. All’inizio annuivo per cortesia, poi ho scoperto quanto avesse ragione: da queste parti la mentalità è molto diversa e le persone sono assai più aperte, hanno ampi orizzonti culturali e sociali. Qua è normale sedersi su una panchina e attaccare bottone con gli sconosciuti».

Quei sei mesi passarono in fretta, ne restavano tre da bruciare sul sacro fuoco della vacanza: «Li ho trascorsi girando in pullman tutta la costa, passando di città in città e riempiendomi gli occhi di posti meravigliosi. Mi sono divertito come non mai, prima di tornare a Brisbane: là mi aspettavano la mia valigia e il biglietto di ritorno».

Si può immaginare quanto fosse incupito l’animo, mentre l’aereo puntava verso il grigiore della Bassa incasellando alla voce «ricordi» un anno di autentico paradiso. «Ho ripreso il mio lavoro da magazziniere e nel mio futuro non vedevo molto altro. Dopo qualche settimana suona il telefono e quasi non ci credo: era Franco, il pizzaiolo di Brisbane, tornato in Italia per un breve periodo. La sua Roma giocava a San Siro contro la mia Inter, così mi porta allo stadio e mi dice: “Ma perché non torni da noi? Se ti serve uno sponsor io te lo faccio”».

In Australia dicesi «sponsor» l’offerta di un lavoro sicuro che uno straniero deve garantirsi per rimanere a viverci. «Mica è facile trovarlo, i datori sono molto selettivi e tendono a evitare tutte le rogne del caso. Io questa occasione ce l’avevo: a quel punto ho chiuso gli occhi e ho provato a pensare a una vita di normalità in Italia, con i miei cari, i miei amici, le mie partite di pallone; poi ho immaginato una esistenza tutta da costruire dall’altra parte del mondo. Tre mesi dopo ero di nuovo a Brisbane».

Da lì, Beppe non è più tornato, se non per qualche saltuario passaggio a Treviglio, dove ha ancora i genitori e il resto degli affetti con cui resta in costante contatto. Negli anni s’è costruito una vita, che l’ha visto lasciare per sempre la pizzeria e approdare a Canberra, dove ha incontrato Mahali: «Ci siamo sposati nel 2010, con viaggio di nozze in Europa: Parigi, Barcellona e ovviamente tanta Italia. Bergamo e la Toscana al top del gradimento». La famiglia s’è pian piano allargata, con i piccoli Giovanni Camillo, Maddalena Eleonora e infine Orlando: «Li chiamano John o Maddy, ma che importa? In quei nomi italiani ci sono tutte le mie radici».

Ha lavorato per un ufficio legale, ora è alle dipendenze del Governo del territorio: «Mi sono intrufolato nel public service, mi sento quasi uno statale italiano, se non fosse che qua è davvero tutto un altro mondo. Quando leggo i vostri quotidiani divento matto a pensare che vi dividete ancora fra nord e sud, destra contro sinistra, bergamaschi o bresciani: qua nessuno mi ha fatto mai sentire straniero, né tanto meno discriminato». Gli è rimasto un solo cruccio: «Per giocare a pallone mi è toccato entrare in una squadra di greci: qua il calcio non va fortissimo, preferiscono il football australiano, che è una specie di rugby che si gioca in canottiera. Però più brutto».

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