«Io, sindaco in carrozzina: mai piangersi addosso»

LA TESTIMONIANZA. Fabio Carminati, 36 anni, è paraplegico da quando aveva 14 anni. «Barriere? Tanto si è fatto, ma spesso mancano le regole, come per i bagni». Dal 2022 è primo cittadino di Fornovo San Giovanni, il paese di 3.400 anime della Bassa dov’è nato e cresciuto.

Martedì 2 dicembre, come ogni anno, ricorre la Giornata internazionale dei diritti delle persone con disabilità, istituita dall’Onu nel 1992. Abbiamo intervistato il sindaco di Fornovo San Giovanni, Fabio Carminati, per comprendere come un giovane amministratore ha affrontato e affronta le sfide quotidiane della disabilità anche in ambito amministrativo.

Carminati è paraplegico e vive sulla sedia a rotelle da quando aveva 14 anni: rimase vittima di un incidente stradale alle porte del paese di 3.400 abitanti che oggi amministra

«Nella vita è inutile piangersi addosso: c’è un problema che non si può risolvere? Disperarsi non serve, perché tanto non si risolve lo stesso. Si può invece risolvere? Allora è bene lavorare per trovare una soluzione». È questo il mantra, tutto all’insegna del suo carattere pragmatico e concreto, che accompagna da sempre Fabio Carminati. Sindaco di Fornovo San Giovanni dal 13 giugno 2022, ha 36 anni, marito di Elisabetta Sara Colombo dal 22 giugno scorso, è paraplegico e vive sulla sedia a rotelle da quando aveva 14 anni e rimase vittima di un incidente stradale alle porte del paese di 3.400 abitanti che oggi amministra. E che, nella piazza che ospita municipio e parrocchiale, è tutto un cantiere. Anche, ma non solo, per abbattere le ultime barriere architettoniche.

Sindaco, cosa ricorda del giorno dell’incidente?

«Erano le tre del pomeriggio del 25 ottobre 2002: stavo andando in motorino, comprato da tre mesi, all’allora Pellicano di Treviglio per prendere una radiosveglia. Un camion mi tagliò la strada: il motorino finì sotto il mezzo, io contro il paletto del guardrail. Sono stato 6 mesi in ospedale, tra Riuniti a Bergamo e Niguarda a Milano: due settimane in coma indotto, poi ancora due in terapia intensiva».

Quando ha capito che non avrebbe mai più camminato?

«Subito. Non muovevo le gambe e il primario, Luca Torcello, fu molto chiaro: oltre ad altre lesioni che si sarebbero poi risolte, ce n’era una, alla spina dorsale, irreversibile. Avrei iniziato la lunga riabilitazione, ma non per tornare a camminare: per imparare a muovermi in una condizione nuova di paraplegia».

A 14 anni come si reagisce di fronte a una diagnosi del genere?

«Mi è stato sempre insegnato a trovare le soluzioni ai problemi, non a piangermi addosso. Lo psicologo è arrivato e, dopo due incontri, ha detto ai miei genitori: se volete, passo ogni tanto a bere un caffè, ma questo ragazzo non ha bisogno del mio aiuto perché è ben focalizzato sul problema e lo vuole risolvere».

Quale scuola frequentava?

«La prima a indirizzo ragioniere programmatore all’Oberdan di Treviglio. Prof e compagni si erano proposti per aiutarmi in tutti i modi e non farmi perdere l’anno, con lezioni in ospedale, ma io volevo prendermi un anno per riorganizzare la mia vita. E così ho fatto. Anche quella volta fu una mia scelta concreta: ripartii l’anno dopo dalla prima».

Ma come mai lei è così pragmatico?

«Un po’ per il mio carattere. E poi per l’educazione dei miei genitori, Giuseppina e Antonio».

Quando è tornato a casa la prima volta dopo che ne era uscito per andare incontro al suo destino?

«Al Niguarda sono rimasto dal 18 novembre 2002 a metà marzo 2003. Ma il 22 dicembre, per un solo giorno, tornai per la prima volta a casa. Tantissimi del paese che non mi vedevano da mesi vennero a trovarmi».

Possibile che non abbia mai avuto nemmeno un attimo di sconforto?

«L’unico dispiacere era l’impossibilità di tornare a giocare a calcio nell’Usd Fornovo. Mi piaceva davvero molto. Ecco, mentre a tutto il resto ci si riadatta, quello mi è mancato e mi manca, perché non potrò mai più giocare».

E come ha rimediato?

«Allenando. Dai 15 anni e fino al 2009 ho allenato varie squadre del Fornovo, dai primi calci agli adulti. La mia condizione non mi ha mai limitato. Tanti spogliatoi invece sì: non sono minimamente pensati per chi ha una disabilità fisica».

Tutti i suoi parenti sono sempre stati forti come lei?

«Sì: i genitori, gli zii materni e paterni, per non parlare degli amici, direi fondamentali. Ecco, forse i nonni sono stati quelli che l’hanno presa peggio all’inizio».

E iniziare a uscire in sedia a rotelle com’è stato?

«All’inizio hai tutti gli occhi addosso. Per due anni ho pensato: mi guardano tutti, meglio stare a casa. Ma è un meccanismo che fa parte della crescita e che ho superato. Non mi è poi mai piaciuta una certa compassione eccessiva, quegli anziani che ti dicono: poverino. Ecco, non serve, davvero. Al supermercato faccio la coda: non sono né anziano né incinta. La cassa prioritaria la lascio a loro».

Dopo il diploma cosa ha fatto?

«Nel 2009 mi sono iscritto a Ingegneria informatica a Bergamo. Il passaggio dalla ragioneria è stato davvero pesante: ho passato giorni e notti a studiare tomi di fisica e trigonometria. E dopo due mesi volevo mollare».

Mi lasci indovinare: non per la sua disabilità.

«Assolutamente no. Come capita a tanti, non volevo più studiare, ma andare a lavorare. Preparai 40 lettere con il curriculum da inviare a 40 banche. Le ho ancora tutte nel cassetto, ingiallite: sono un monito per quella volta che volevo mollare. Perché poi mi sono pure laureato in anticipo: 4 anni e 9 mesi. E dal 2013 sono responsabile dell’ufficio tecnico della Kaale di Caravaggio: azienda splendida, accogliente e lungimirante».

E la politica da quando?

«Da sempre. A 16 anni entro nella lista “Insieme per Fornovo”, nel 2006 nella Commissione Sport e tempo libero, nel 2011 divento assessore allo Sport e tempo libero con il sindaco Pierluigi Maria De Vita, dal 2017 vicesindaco di Giancarlo Piana e dal 2022 sindaco».

Insomma, si è fatto tutta la gavetta.

«Proprio così. Non senza un momento di grande sconforto. Il 4 giugno 2016, con Piana unico candidato sindaco, non raggiungemmo il quorum. L’amarezza di quella sera mi ha spinto a fare di meglio: ci ha ricompattato e l’anno dopo abbiamo stravinto».

La sua disabilità non le ha mai causato problemi per l’attività amministrativa?

«Mai. E al mio arrivo le barriere architettoniche in comune erano già quasi tutte abbattute».

Oggi, in generale, c’è ancora molto da fare su questo fronte?

«Tanto si è fatto, ma tanto va ancora fatto, soprattutto nei servizi igienici, perché non ci sono norme chiare: c’è solo l’obbligo di prevedere i bagni per disabili, senza dettagli. Così uno li fa come vuole. E di solito male».

E i mezzi di trasporto?

«Siamo in alto mare. Per prendere un treno devo avvisare giorni prima e arrivare prima. In Europa c’è ovunque l’ingresso a raso. Qui da noi, no».

Capitolo parcheggi.

«Sono pensati da chi non vive il problema. A volte scendi dall’auto e ti trovi circondato da marciapiedi con i cordoli: in gabbia».

E chi li occupa senza diritto?

«La fascia 30-60 anni li rispetta. Ragazzi e over 60 sono i classici che ti dicono: sto qui solo due minuti. E comunque di posti per disabili ce ne sono abbastanza».

Ai ragazzi che si dovessero trovare nella sua situazione cosa direbbe?

«Di non focalizzarsi sulla speranza vana e sulla ricerca, che va comunque avanti. E di guardare al problema e a come risolverlo per tornare autonomo. La vita va avanti: non serve farsi crollare il mondo addosso. Non si campa di speranza. Si campa di concretezza».

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