In una quarantina di figli in affido
la forza contro l’oscurità del cancro
Sposata ma senza figli naturali, negli ultimi vent’anni si è dedicata all’accoglienza.
«Nei momenti più bui della mia vita ho sempre cercato di prendere esempio dal girasole, che è il mio fiore preferito. Ho rialzato la testa e mi sono messa a cercare la luce, ovunque fosse». A casa di Giuseppina Carmela Socci, a Osio Sotto, i girasoli sono dappertutto, casomai qualcuno se ne dimenticasse. Non ha figli suoi ma negli ultimi vent’anni con il marito ne ha cresciuti una quarantina come famiglia affidataria. Il loro sostegno è stato prezioso per combattere la sua battaglia più difficile, quella contro il tumore al seno, grazie all’amore e all’energia che le hanno donato: «Mi hanno insegnato ad essere felice».
Davanti alla porta di casa ci sono vecchie scarpe dipinte a colori vivaci, trasformate in vasi di fiori, simbolo di tutte le persone che sono passate di qui e che Giuseppina ha tenuto per mano lungo il cammino. Nelle sue stanze continua a ospitare giovani madri in difficoltà e bambini piccoli, e non risparmia le forze per aiutarli, perché non ha perso neanche un grammo della sua energia nonostante tutte le vicissitudini: una mastectomia totale, la ricostruzione del seno, le complicazioni, la chemioterapia, una convalescenza difficile, i molti segni che le sono rimasti sulla pelle.
La malattia è entrata nella sua vita all’improvviso, come un fulmine a ciel sereno, sette anni fa: «Non ho mai trascurato i controlli periodici, rispettavo le normali scadenze previste dai protocolli di prevenzione e sembrava che andasse tutto bene. Poi uno strano dolore al braccio mi ha insospettito. I medici mi avevano rassicurato, diagnosticandomi una mastite, ma le terapie non funzionavano, il dolore non passava, e io non mi davo pace, perciò ho deciso di sottopormi a un esame in più. Per un colpo di fortuna ho ottenuto un appuntamento nel giro di un paio di giorni. Al momento della mammografia la senologa mi ha detto che c’era una massa di cinque centimetri, ma supponeva che fosse una cisti. Per sicurezza ha eseguito anche l’ago aspirato». Giuseppina allora abitava a Castel Cerreto ed è tornata a casa tranquilla, immaginando che l’esito sarebbe stato negativo, perciò quando è arrivato il momento della verità è andata allo studio medico di Bergamo da sola, in treno: «Alla fine, però, si trattava di un tumore globulare infiltrante. La dottoressa mi ha comunicato la notizia con molta delicatezza e umanità, guai se non ci fosse stata lei, è davvero un angelo. Mi ha spiegato in modo dettagliato cosa avremmo dovuto fare da quel momento in poi, ma io l’ascoltavo e non capivo nulla, perché mi sentivo comunque malissimo, pensavo che ormai la mia vita fosse finita. Non appena sono uscita ho chiamato mio marito e gli ho chiesto di venirmi a prendere alla stazione, perché non sapevo se sarei stata in grado di arrivare fino a casa».
Si è concessa tre giorni per piangere ed elaborare la notizia: «Dentro di me sentivo solo oscurità, come se fossi fatta di una materia nera. Ho ripulito gli armadi, ho dato via molti vestiti, pensavo al mio funerale e non volevo lasciare le mie cose in disordine. Poi a un certo punto mi sono fermata, mi sono lavata la faccia, mi sono guardata allo specchio e ho capito che non potevo lasciarmi andare in quel modo. Pian piano ho ritrovato la luce, la realtà intorno a me ha incominciato a cambiare colore. Mi sono affidata alla fede, ho scelto di affrontare la malattia a viso aperto». Dopo un intervento complesso, durato dieci ore, seguito da un sieroma, un’infezione e un linfedema, ha incominciato un lungo percorso di riabilitazione a Mozzo: «Ho incontrato una fisiatra che mi ha aiutato moltissimo. Non ho potuto iniziare subito la chemio a causa di un’infezione, ho seguito una terapia ormonale. Proprio per la sua durezza l’esperienza ospedaliera mi ha aiutato a riprendere il comando della mia vita. Sono stata operata nell’ottobre del 2012, ho ricominciato a vedere la luce nella primavera dell’anno dopo».
Nella natura di Giuseppina c’è il desiderio di trovare la bellezza nella vita in ogni modo possibile. Originaria di Campobasso, ha lavorato per molti anni come caposala all’ospedale di Crema, poi ha incontrato l’Associazione Fraternità, che si fonda su un legame di amicizia tra famiglie occupandosi di affido, attiva soprattutto nel Cremasco: «Non ho avuto figli, purtroppo, e a un certo punto ho deciso di lasciare il lavoro e dedicarmi a sostenere ragazzi in difficoltà, per me è come una missione. All’inizio degli anni Novanta ho accolto la prima bambina, che ora ha trent’anni ed è rimasta con me per quindici». Ha vissuto a Sondrio, a Cerreto e da un paio d’anni si è trasferita a Osio Sotto. Questa esperienza l’ha cambiata profondamente: «Bisogna imparare a rispondere ai bisogni dei bambini, che spesso hanno vissuto situazioni e traumi terribili, sapendo che questi figli non sono mai tuoi, li accogli e poi devi lasciarli andare, come del resto accade anche con i figli naturali. Anch’io me ne sono andata a molti chilometri dalla mia famiglia». L’affido è una situazione temporanea: «Se ne è parlato malamente negli ultimi tempi, ma si tratta di una risorsa preziosa, che offre aiuto a minori in grave difficoltà e mantiene sempre come obiettivo il rientro nelle famiglie d’origine. Siamo sempre seguiti da giudici e servizi sociali, ci teniamo in contatto con tutti gli enti che si occupano dell’età evolutiva, non ci muoviamo mai da soli. Ne ho accompagnati alcuni in comunità terapeutica, altri all’adozione. Mi è capitato di dover medicare le ferite di chi aveva subito abusi. In situazioni complesse l’affido offre il calore di una casa e di una vera famiglia, finché non è possibile riavere la propria. Non sempre, purtroppo, c’è il lieto fine».
Nel tempo libero Giuseppina ha creato un gruppo Facebook che si chiama «Le toste, rinascita dopo il cancro al seno» dedicato a chi, come lei, deve affrontare la malattia. Ora ne fanno parte oltre quattromila persone: «Mi sembrava il nome più adatto a descrivere donne che non si arrendono mai. Nella mia vita ho imparato presto a lottare: ho incominciato a farmi le ossa arrivando al Nord da Campobasso, costretta ad affrontare i pregiudizi della gente. Mio padre si è sacrificato per mantenerci agli studi, e noi ci siamo dati da fare per costruirci un futuro». Nel gruppo ha coinvolto anche la sua senologa e alcuni psicologi: «È un gruppo di amiche, non offre consulenza, ma avere sempre vicino qualcuno che se ne intende contribuisce a evitare risposte e consigli inesatti o fuorvianti. Non mi piace piangermi addosso e non voglio lasciarmi andare, cerco di aiutare gli altri a fare lo stesso. Il gruppo è uno strumento di auto aiuto, ma ci è capitato di realizzare anche alcune raccolte di fondi per offrire a malati in particolari situazioni di difficoltà e di necessità un sostegno economico per sostenere le terapie, perché non tutti hanno la possibilità di accedere a consulti ed esami ricorrendo alla sanità privata». Nel gruppo ci si può confrontare su piccoli problemi quotidiani, su interventi, analisi, effetti collaterali dei farmaci e strategie per tollerarli. «Chiacchieriamo, ci teniamo compagnia, nascono tra noi legami forti, come in una famiglia, anche se non tutti si conoscono personalmente. Sono nati alcuni sottogruppi sulla base del luogo di residenza, spesso ci scambiamo messaggi anche su WhatsApp. C’è chi manda regali per i compleanni, chi si ritrova per un gelato o un caffè, l’importante è fare in modo che ognuna delle partecipanti possa sentirsi appoggiata e capita da qualcuno, allontanando il senso di solitudine che accompagna la patologia».
I malati hanno esigenze diverse, non sempre è facile capire di che cosa è fatta la loro sofferenza: «Affrontare il cancro è un’esperienza che ti devasta come donna e come mamma – spiega Giuseppina –, per questo è così importante trovare delle amiche, anche solo virtuali. Si può riemergere dalla tristezza, la vittoria è nella lotta, non necessariamente nella guarigione. In ogni problema è importante riuscire a vedere il lato positivo».
L’affido, per Giuseppina è una vera missione, perciò non può finire mai, nemmeno a causa di una malattia così debilitante: «I ragazzi sono la nostra vita. Ci impegniamo a fondo, perché gli vengano riconosciuti la dignità e il valore che meritano. Prima di giudicare le loro situazioni bisogna capirli, sforzarsi di stare vicino. Noi accogliamo sempre anche le famiglie dei ragazzi che spesso meritano una seconda possibilità. Per loro è faticoso ammettere di essere in difficoltà e accettare di essere aiutati. Cerco sempre di mettermi nei loro panni, anch’io quando mi sono trasferita da Campobasso a Crema ho dovuto superare la diffidenza della gente e lottare contro i pregiudizi, eppure poi col tempo sono riuscita a guadagnarmi il mio posto di lavoro e la simpatia della gente, anche se ho dovuto faticare duramente per ottenere questi risultati. Non posso vivere e scegliere al posto dei ragazzi, posso soltanto provare a indirizzarli, far capire che da un certo punto in poi dipende soltanto da loro. La possibilità migliore di riscatto che hanno a disposizione è la scuola. Alcuni ce la fanno, altri no. Tra i nostri figli affidatari c’è stato anche chi se n’è andato sbattendo la porta, ma poi è tornato dicendo quanto abbia ricevuto da me e da mio marito». L’affetto e le cure che una famiglia affidataria sono come semi, che a volte germogliano dopo molto tempo: «Tutti ricevono qualcosa di prezioso. Noi ci impegniamo a trasmettere ciò che a nostra volta abbiamo ricevuto dalla nostra famiglia d’origine, per questo cerchiamo di offrire tutto ciò che abbiamo, senza riserve. La vera medicina, per tutti, è l’amore».
© RIPRODUZIONE RISERVATA