Ogni vita un racconto / Bergamo Città
Mercoledì 18 Settembre 2024
Troppe sofferenze, la guerra non si racconta
Capita che la memoria sia soffocata dalle spire del trauma: qualcosa di difficilmente elaborabile per la mente di un individuo, sino a costituire, in certi casi, un’eredità che le generazioni successive devono far emergere
Di mio nonno paterno, rammento le linee rugose del viso e gli occhi sinceri, colmi di nostalgia. La commozione che, abbracciandolo e baciandolo, gli strappavo, ma anche la fretta e il passo deciso con cui, ogni domenica, si incamminava verso la chiesa di Piazza Brembana (suo paese natio) per la Messa. Non stava mai fermo, era spesso intento a prendersi cura del suo orto e del suo pollaio. Mi piaceva gironzolargli attorno quando, stivali di gomma e berretto, era impegnato a raccogliere patate e zucchine, ma anche quando sistemava i pulcini al caldo, vicino alla stufa: non me lo ha mai detto, ma penso fosse contento della gioia che in me suscitava tutto quel pigolare.
Quando sono nato, mio nonno Antonio (chiamato da tutti «Anastasio») era già vecchio, vecchio e di poche parole. D’altra parte, la nostra tenera intesa si basava soprattutto sui sorrisi e sugli sguardi: era sufficiente per volerci bene. Il suo pensiero è legato alla mia infanzia, a momenti felici che hanno a che fare con il profumo della polenta, con le tovaglie a quadri e con le mattine di Natale. Tuttavia, un dispiacere rimane: nonostante io avessi sempre fame di storie e di Storia, mio nonno, della guerra da lui vissuta, non ne parlava mai. Ogni volta che gli facevo qualche domanda, accennando all’argomento, proferiva qualche vaga parola per poi chiudersi in un malinconico silenzio, a me inaccessibile.
Del periodo della guerra, mi rimane qualche foto e un piccolo volume dal titolo: «Il libro d’amore del soldato italiano in Grecia»; un buffo dizionario con riportate, al suo interno, una serie di frasi con cui i nostri militari potevano approcciarsi alle ragazze greche. Per il resto, quei pochi aneddoti di cui sono venuto a conoscenza li so grazie a mio padre e a mia zia e sono piuttosto amari: la campagna dei Balcani del ‘40 (al seguito del generale Giovan Battista Calegari), il rientro rocambolesco in Italia (dopo l’armistizio di Cassibile), gli anni in cattività in un campo di prigionia inglese e, infine, passato più di un quinquennio dalla partenza, il ritorno a casa. Chissà quanta angoscia deve aver patito, chissà quanti compagni d’armi deve aver visto morire e quanta disperata solitudine deve aver provato. Chissà quello che, a livello relazionale ed emotivo, il Conflitto gli ha portato via, impedendogli di viverlo.
Mi è mancata, all’epoca, una chiacchierata schietta con mio nonno, una testimonianza diretta della guerra, ma mi è ben chiaro il motivo, ora, del suo voler glissare su quella drammatica parentesi di vita, forse troppo penosa per un bambino della mia età. Eppure, l’esercizio della memoria è qualcosa di necessario. Coltivarla, come dice Liliana Segre, «è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza e la può usare». Certo, capita che la memoria sia soffocata dalle spire del trauma: qualcosa di difficilmente elaborabile per la mente di un individuo, sino a costituire, in certi casi, un’eredità per le generazioni successive. Secondo il dottor Francesco Bulli, psicologo e psicoterapeuta, certe esperienze negative possono infatti influenzare anche figli e nipoti, spesso in modi non sempre facili da comprendere: in questo caso, si parla di «trauma intergenerazionale» e può avvenire addirittura senza che un ricordo sia necessariamente condiviso. Segreti e tabù, ideati per proteggersi (e per proteggere chi si ama) da un dolore indicibile, alla fine, finiscono per perseguitare come fantasmi i propri familiari. Forse, allora, come Rachele Zwillig, protagonista del bellissimo romanzo di Lara Fremder («L’ordine apparente delle cose», Gabriele Capelli Editore, 2024), è bene “andare a ritroso nel tempo”, guardando in faccia il dolore e facendo sì che la memoria non rimanga una mera operazione intellettuale ma muti in un profondo sentire.
Mentre osservo le foto e il manualetto d’amore, sorrido. Ma penso anche alle difficoltà che mio nonno ha dovuto affrontare: nella mia agiatezza moderna, è difficile comprenderle appieno. Conservare la memoria, però, significa anche questo: non dimenticare i sentimenti dell’altro, cercando di farli propri. Un modo per non scordarci del sacrificio e dell’esempio di chi non c’è più e perseguire, così, la pace.
Remo Ceriotti, «Mr Cadillac» e il suo banjo americano
Non conosco chi abbia postato questa immagine nel profilo di Ognivitaunracconto dedicato a Remo Ceriotti, Eppure ha operato una magia proprio nel momento dell’anno in cui Remo metteva in scena la sua passione per la musica country. Si faceva chiamare Mr Cadillac e lo incontravano alla fiera di Sant’Alessandro e nelle rassegne musicali dedicate alla musica country frequenti in autunno. Aveva fondato i Mismountain Boys, bluegrass band attiva in bergamasca dal 2005, specializzata in musica americana, con un taglio che va dal folk country al countryrock, quello del grande cantautorato a stelle e strisce. Con la band Ceriotti - nonostante il lavoro all’aeroporto - aveva inciso fin dal 2006 alcuni dischi. Si erano messi insieme quasi per caso. con sei musicisti: Isabella «Belle Star» Saradini, Roberto «Hook» Braiato al mandolino, armonica, chitarre e canto, Remo Mr. Cadillac - appunto - al banjo, Franco «The Captain» Fanizzi alla chitarra e al canto, Fabio «Cowboy Smile» Bestetti al basso e al canto, Tista «West Point» Rota alla batteria. La passione per il country aveva portato Remo a viaggiare e a lui piaceva molto. Remo si è spento a soli 53 anni, ma prima di andare ha cantato la sua più bella canzone, il matrimonio con Isabella.
Vittoria ed Enrico Maffioletti, Il «tempo» e il «bello» doni preziosi per la città
Vittoria e Enrico erano nati entrambi il 28 agosto. Se lo ripetevano spesso come fosse stato un segno premonitore per una vita che hanno trascorso insieme dagli anni Cinquanta e fino alla morte.
Quando si sono conosciuti Vittoria lavorava come operaia alla Pirelli di Redona e abitava in via San Bernardino a Bergamo. A poca distanza da casa sua era venuto da Colognola ad aprire una piccola bottega di orologeria il giovane Enrico che aveva deciso di non seguire la tradizione agricola dei genitori. Presto gli sguardi di Vittoria e di Enrico si incrociarono cambiando per sempre le loro vite. Vittoria lasciò la Pirelli e affiancò Enrico, inserendo gli articoli di oreficeria e sviluppando l’offerta commerciale del piccolo negozio attraverso un’innata gentilezza e uno stile vivace e diretto, che la rende capace di dispensare consigli efficaci in modo personalizzato. Enrico evidenziava una sicura competenza nella meccanica di precisione che lo rendeva uno degli orologiai bergamaschi più completi e capaci.
Hanno avuto una vita serena Vittorio ed Enrico e soprattutto hanno saputo trasmettere la loro fede vivace nel Signore ai quattro figli che li hanno accompagnati fino all’ultimo momento
Agostino Cardinali, gli occhiali in Uganda li ha portati con «Hoilan»
Il progetto più bello di Agostino Cardinali si chiamava «Hoilan» ed ha preso avvio nel 1996 in Uganda. Il nome «Hoilan» veniva dall’unione dei nomi delle città di Hoima e di Milano che sono state centrali in questa esperienza di cooperazione internazionale realizzata da ottici volontari italiani nel West Nile dell’Uganda. Questi ottici trascorrevano annualmente brevi periodi (2-3 settimane) in Uganda dove, nei mesi precedenti, venivano inviate attrezzature optometriche, strumentazioni per il laboratorio ottico, montature, lenti e accessori.
Il Progetto Hoilan ha fatto nascere tre centri ottici. Oltre a eseguire esami visivi e preparare occhiali per la popolazione che, preventivamente avvertita, si presentava numerosa ogni giorno, essi si sono impegnati nell’addestramento dei giovani tecnici nei laboratori ottici per metterli in grado di predisporre autonomamente gli occhiali. Negli anni le attività si sono moltiplicate così come i corsi di formazione teorico-pratico per i tecnici dei tre centri ottici ugandesi. Non sono mancate donazioni che, grazie ad Agostino Cardinali, venivano convogliate per la costruzione di nuove strutture e l’acquisto di nuovi macchinari. Agostino Cardinali ha promosso e coordinato, fino alla fine, ogni passaggio, con la sua autorevolezza e competenza.
© RIPRODUZIONE RISERVATA