Rotte di vita: il viaggio dell’esistenza

Ci sono viaggi che ci fanno attraversare deserti, come ha fatto Giambattista Caccia che ha salito le Ande e percorso il Sahara, e ci sono viaggi che ci portano a custodire un luogo, come è accaduto a Caterina Ongaro e il suo Farno. Ci sono poi viaggi interiori, come quello del pastore Marco Scandella e viaggi che ci portano nelle Ambasciate del mondo, come è accaduto a Nella Moioli. Viaggi che raccontano la storia locale, come ha fatto Angelo Orlandi a Calolziocorte, e viaggi, come quello di Gianluigi Gonella, che rivive attraverso il ricordo dei pazienti o una musica amata.

Ogni Vita Un Racconto Ogni Vita Un Racconto

Il viaggio è molto più di uno spostamento fisico: è una trasformazione. Ogni viaggio, che sia verso terre lontane o all’interno della propria anima, ogni luogo visitato, ogni persona incontrata e ogni emozione vissuta diventano parte del nostro bagaglio, qualcosa che portiamo con noi anche quando il nostro viaggio su questa terra finisce.

Giambattista, Caterina, Marco, Nella, Angelo, Gianluigi: vite che tracciano cammini nel deserto, nei boschi o tra le note musicali.

Caterina Ongaro: regina del Farno

È morta nell’aprile 2010 a 82 anni Caterina Ongaro, per tutti Cati, che da più di 50 anni abitava sul monte Farno, sopra Gandino, attiva e instancabile nella conduzione del rifugio.

Una vita dedicata alla montagna che tanto amava e dove ha speso tutta sé stessa. Era l’ultima testimone di una Gandino intraprendente che, alla frenesia dei telai nel fondovalle, aveva contrapposto in quota la creazione di strutture ricettive pronte a sfruttare i flussi turistici. I monti della Valle Gandino erano centri sciistici di prim’ordine e già negli Anni ’40 le guide citavano il Farno per i suoi «magnifici campi di neve».

Nel primo dopoguerra Cati prese le redini del rifugio Farno insieme al marito Giacomo Perani, di Casnigo, scomparso a metà degli anni Novanta. Nel tempo erano diventati un’istituzione nell’ambito di quella sorta di «quartiere» che vedeva attiva la stazione della seggiovia, lo skilift di Bepi Anesa, la colonia delle Orsoline, l’albergo della famiglia Nodari e del compianto Simba. Il Farno era una comunità nella comunità. Poi qualcosa iniziò a cambiare. A livello turistico, la seggiovia è sparita dagli Anni ‘70, se ne è andato Bepi Anesa e anche il suo skilift, e la colonia resta «in cerca d’autore».

Il suo rifugio era un punto di ritrovo irrinunciabile, la base ideale per chi affrontava la salita verso il pizzo Formico, ma anche, in epoca più recente, per i molti appassionati che raggiungevano la pista della Montagnina. Da Cati si incontravano i cacciatori e gli escursionisti, gli sciatori, gli atleti e gli organizzatori del raid del Formico.

La sua presenza era una garanzia, un perno attorno al quale far ruotare passioni e voglia di ritrovarsi. A corroborare una socialità genuina non mancavano i piatti tipici della sua cucina: i casoncelli, i capù, il coniglio arrosto e la polenta.

L’autunno precedente alla morte i medici avevano consigliato a Cati di soggiornare in paese per gli acciacchi dell’età: un segnale che aveva assunto per lei e per molti amici del Farno i toni della nostalgia.

Sentiva il Farno come parte di sé stessa e anche negli ultimi anni era decisa a non mollare, pronta a soddisfare anche il ristoro «usa e getta» delle famiglie che affollavano il pendio a pochi passi dal rifugio. Una clientela diversa dai pionieri dello ski degli anni ruggenti: segni di un Farno che è cambiato, ma che non scorda commosso Cati, la sua regina.

Giambattista Gherardi (Archivio de L’Eco di Bergamo)

Angelo Orlandi: direttore del « fabbricun »

Si spegneva a Lodi nel novembre 2021 a 85 anni il dottore Angelo Orlandi di Calolziocorte. Era stato direttore della Sali di Bario, ha guidato l’Ausm e si è dedicato per anni alla storia locale scrivendo anche alcuni libri. Da alcuni anni il dottore trascorreva alcuni periodi a Lodi per stare accanto al figlio Matteo, medico nell’ospedale della città.

Orlandi è stato un personaggio della vita pubblica e associativa di Calolziocorte, dove era arrivato nel 1968. Era originario del Pavese, laureato in chimica all’Università di Pavia, per entrare nella fabbrica «Sali di Bario», il cosiddetto «fabbricun», con incarichi dirigenziali e poi direttore generale. Dopo il pensionamento si era impegnato nella vita pubblica, prima come presidente della Pro loco fino al 2006 e poi dal 2008 sino al 2016 come presidente dell’Ausm, la partecipata di proprietà del comune, che allora gestiva il servizio idrico e l’igiene urbana, dopo la cessione del servizio della vendita del gas nel 2006, impegnandosi per il buon funzionamento dei due servizi pubblici.

Si era a dedicato anche allo studio delle vicende industriali di Calolziocorte, curando per la Pro loco la mostra fotografica dedicata alle industrie locali nel 2006. Per la storia industriale aveva collaborato alla pubblicazione «Calolziocorte 1807-1951. L’identità di un borgo, il destino di una città», edito nel 2008, dove aveva scritto il saggio «Crescita e sviluppo dell’industria nel primo e secondo dopo guerra». Nel giugno 2020 aveva presentato il suo ultimo libro «La Sali di Bario di Gaspare de Ponti», dedicato alla storica fabbrica che per la sua produzione aveva avuto risonanza nazionale. Nella circostanza aveva fatto da guida ai vecchi fabbricati di questa società con la ciminiera che si erge maestosa dietro la stazione di Calolziocorte, come archeologia industriale.

Rocco Attinà (Archivio de L’Eco di Bergamo)

Marco Scandella: pastore fragile con il cuore buono

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Nel novembre 2010 terminava i suoi giorni terreni Marco Scandella, di 51 anni, che tutti a Clusone conoscevano come Marcù.

Le cronache del nostro giornale ricordano che, quando L’Eco di Bergamo aprì la redazione a Clusone, Marco divenne subito uno dei suoi amici. Veniva a fare due chiacchiere, veniva a chiedere una mancia. In cambio si proponeva per qualche piccolo favore. Questo succedeva quando non era in giro con le pecore perché Marco era un pastore che per anni aveva girato con le greggi, aveva salito i pascoli, era sceso nelle pianure. Un lavoro duro, ingrato anche se un po’ la vita errante lo affascinava.

A un certo punto della sua vita aveva cominciato a bere. Le sue ciucche erano di quelle buone, Marco non faceva male a una mosca. A un certo punto crollava, stinco. E si risvegliava il giorno dopo. In alcuni periodi aveva cercato di smettere e allora poteva manifestare sorridendo la sua intelligenza e sensibilità. Nei momenti tranquilli amava leggere e scrivere e alcune poesie le aveva fatte leggere anche a noi. Era accaduto in un periodo in cui era innamorato e aveva trascorso momenti indimenticabili con questa persona, su nelle baite, sotto un cielo pieno di stelle. Sembrava in quei momenti che davvero Marco, Marcù, avrebbe potuto smettere di bere. Ma le cose sono andate in maniera diversa.

Si può dire che tutta la cittadina facesse il tifo per lui, a cominciare dai suoi fratelli. Erano gli Anni Novanta, in Pro loco c’era Tito Agazzi e Tito era uno di quelli che cercava di dargli una mano, di affidargli dei piccoli incarichi. Marco avvertiva questo affetto, lo riconosceva. Il suo sogno era avere comunque una casa, un luogo per sé. In Comune c’erano problemi, non era così semplice dare un appartamento a Marco. E Marco veniva in redazione e raccontava dei suoi guai e di questo sogno. E chiedeva la mancia per il caffè. Marco a Clusone lo chiamavano Marcù perché quando era giovane era dotato di un fisico potente, muscoloso, e aveva uno sguardo fiero, gli occhi scuri, forti. Portava capelli lunghi, la barba. D’estate lo si vedeva in giro solo con il gilet, il cappello, i jeans. Era Marcù, Marcone. Non stava bene da tanto tempo e sapeva che non sarebbe vissuto ancora a lungo. Sapeva di avere vissuto una vita strana, una vita raminga. Sapeva che la gente della cittadina gli offrì più volte la possibilità di cambiare vita. Ma sapeva anche di non avercela fatta. Prima di morire Marco ha voluto scrivere alcuni appunti per dire grazie. Chi lo ha conosciuto bene non si stupisce per questo gesto. Il suo primo grazie è stato speso per gli amministratori comunali di Clusone, che gli hanno assegnato nell’isolato di Sant’Anna un’abitazione accogliente, finalmente lontano dalla strada. Marcù ha ringraziato anche le assistenti sociali del comune e tutti i volontari per le preziose assistenze e per la pazienza. Negli appunti Marco non ha dimenticato di ringraziare anche la Caritas e la San Vincenzo di Clusone per i frequenti aiuti. Medici e infermieri dell’ospedale. Poi Marco ha voluto dire grazie a tutti i clusonesi. Ha scritto: «E non desidero rivolgere sincere scuse a quanti magari ho recato talvolta fastidio, ma ringrazio tutti gli amici e le persone che mi sono state vicine in questi anni».

Paolo Aresi (Archivio de L’Eco di Bergamo)

Giambattista Caccia: amava le Ande e attraversò il Sahara

Finiva i suoi giorni nel dicembre 2010 Giambattista Caccia, detto «Tita», imprenditore, sportivo e, ricordava chi lo aveva conosciuto bene, «uomo serio, di grande generosità» . Tita aveva 82 anni e viveva in via Canovine, in città. Nato a Bergamo nel 1928, negli anni Sessanta Caccia aveva dato vita, insieme ai fratelli Angelo e Luciano, a un’attività di vendita all’ingrosso di materiale termoidraulico, la «Caccia snc», divenuta presto una realtà nota tra gli addetti del settore. Proprio nell’ambito del suo lavoro era entrato in contatto con il Patronato San Vincenzo, incontro che aveva segnato l’inizio di un legame destinato a durare nel tempo: con discrezione, senza far rumore, Caccia era diventato un grande amico e sostenitore delle attività del Patronato, sia a Bergamo, sia in Bolivia, dove aveva contribuito alla crescita della Ciudad del Nino. «Ricordo la sua amicizia con don Bepo, con don Berto, con monsignor Gelmi – raccontava Mario Cavallini, presidente dell’associazione degli ex allievi del Patronato –. È stato un benefattore, un uomo di straordinaria integrità morale, nel lavoro, come nella vita privata». Al Sudamerica Caccia era legato dalla solidarietà, ma anche dalla passione per la montagna e l’alpinismo, che dagli anni ’70 aveva praticato ad alto livello, con tanto di scalate sulle Ande. Viaggiatore appassionato (attraversò anche il deserto del Sahara), conservava nella sua casa oggetti e ricordi straordinari da tutti gli angoli del pianeta. Forte pure la passione per lo sport: calciatore da ragazzo, in anni più recenti si era dedicato al gioco del golf, come socio del Club Bergamo L’Albenza.

(Archivio de L’Eco di Bergamo)

Gianluigi Gonella: medico radiologo e critico musicale

Nell’ottobre del 2021 si spegneva a 75 anni Gianluigi Gonella che fu primario di Radiologia all’ospedale di Alzano e collaboratore del nostro giornale.

Viveva a Carobbio degli Angeli ed era un personaggio molto stimato sia per la dedizione e la competenza in ambito medico sia per le qualità umane. Era solito seguire i suoi pazienti con costanza, contagiandoli di fiducia sin dai primi contatti. Molto apprezzato per la signorilità dei modi e per come si avvicinava al prossimo nella quotidianità, era un uomo dalla spiccata intelligenza, conversare con lui era motivo di arricchimento culturale. Aveva costruito una famiglia esemplare con l’adorata moglie Franca e con la figlia Paola che l’aveva reso nonno di Federica, nipotina alla quale era molto legato. Il dottor Gonella era figlio del ragionier Gianfranco, ex direttore della Banca Diocesana Bergamasca (poi ceduta alla Popolare di Bergamo) con sede in Piazza Vecchia, in Città Alta, e filiale nel Palazzo Rezzara, in viale Papa Giovanni XXIII. Il ragionier Gonella era stato un apprezzato consigliere di amministrazione dell’allora «Sesa», la casa editrice de L’Eco di Bergamo. Il nostro giornale si è avvalso della collaborazione di Gianluigi Gonella per quasi quarant’anni, nelle vesti di apprezzato critico di musica classica. L’allora segretario di redazione Luciano Capoferri lo ricordava con commozione: «Portava gli articoli in redazione con una puntualità svizzera. Ogni contenuto era figlio di profonda conoscenza della materia trattata e colmo di aspetti ed elementi che erano frutto di ricerche e aggiornamenti continui. Innata la sua generosità nell’aiutare il prossimo».

Arturo Zambaldo (Archivio de L’Eco di Bergamo)

Nella Moioli: dalle Ambasciate del mondo alla solitudine nella sua Ardesio

Ieri (ndr ripreso dal giornale del 2 novembre 2021) mi giunse la notizia: «Non sapevamo della morte di Nella». Nemmeno io lo sapevo. Grande stupore ed inquietudine mi ha subito assalito. Chiedo ad un amico, esperto in anagrafe, se telefonando in Comune possono dirmi, se è vero...e lui mi dice: «Sì, lo so io per certo...l’ho saputo da suo fratello che ho incontrato due mesi fa a Clusone e quando mi salutò, gli chiesi di Nella... lui, in tutta risposta mi disse: È morta ad aprile».

Il nostro mondo ormai, corre senza più sapere per dove. Un tempo parlavano e passavano le notizie di bocca in bocca. Oggi invece? Nella Moioli era uscita dal nostro mondo da alcuni anni. Aveva tagliato i ponti col mondo del baccano e del benessere... e si era ritirata con i suoi libri e i suoi pensieri.
Laureata in italiano, letteratura e storia antica, insegnava al Liceo Classico Paolo Sarpi, il più importante è rinomato di Bergamo Alta. A scuola, tutti gli studenti la temevano, ma tutti la cercavano.

Donna di grande sensibilità verso i più poveri e i più deboli, rinunciava a metà dello stipendio per donarlo a chi fosse in difficoltà. Pochi sapevano di questa sua grande generosità. Nella Moioli studiava sempre... e imparò perfettamente la lingua inglese. Divenne Addetta Culturale in Egitto e poi in India, lavorando presso le Ambasciate con un ruolo di prestigio. Conseguì altre lauree...e poi e poi...

Nella Moioli era straordinaria, come grande, amato e stimato lo era suo padre; medico per tanti anni nel nostro paese, già dai momenti difficili della seconda guerra mondiale. Un giorno passai a Riva del Garda dove alloggiava, con mio figlio Sueli... gradì molto quella visita. Ora mi chiedo: Perché non viene ricordata? Perché non ricordarla? Merita tanto questa persona e quindi ritengo giusto dedicarle questo pensiero affinché, in fine, nessuno dica: «...Per chi suona la campana».

Giorgio Fornoni (Archivio de L’Eco di Bergamo)

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