Ogni vita un racconto / Bergamo Città
Mercoledì 24 Luglio 2024
Quando il lavoro non è nemico delle passioni
I personaggi «a tutto tondo» che emergono dalle necrologie sapevano coniugare il lavoro ma, al tempo stesso, non rinunciavano a ciò che li appassionava e li faceva sentire appagati. Erano vite felici
Le necrologie della seconda metà degli anni ’90 e dei primi anni 2000 fanno emergere personaggi «a tutto tondo»: svolgevano un’attività per guadagnarsi da vivere ma, al tempo stesso, non rinunciavano a ciò che li appassionava. Si dedicavano anche a ciò che li faceva sentire appagati. Leggere le storie di queste persone mi ha portata a riflettere sull’importanza della poliedricità. Mi sono sempre sentita come se si potesse scegliere una sola strada nella vita, e come se il senso delle mie giornate fosse la selezione della strada giusta. Evocativa è la metafora utilizzata da Sylvia Plath nella sua opera «La Campana di Vetro». L’autrice paragonava la sua vita a un albero di fichi. Ogni fico rappresentava, per lei, una possibile strada, un possibile futuro. Scegliere un fico significava rinunciare a tutti gli altri. Nonostante desiderasse tutti i tragitti allo stesso modo, poteva percorrerne solo uno. Ho sempre visto così la vita. Le storie che racconterò mi hanno fatto cambiare idea.
Una delle vite poliedriche che mi hanno più affascinata è stata quella di Giovanni Pesenti. Quest’ultimo trovò, nel mondo dell’insegnamento, la soluzione per conciliare le sue passioni. Insegnò al Celana, all’Alfieri, all’Angelo Mai, alla Fratelli Calvi e alla scuola media di Mapello. Amava diffondere le sue conoscenze e il mestiere di docente gli permetteva di farlo. I suoi alunni lo ammiravano perché, partendo da un aneddoto o da un motto, conferiva chiarezza a qualsiasi movimento letterario o artistico spiegasse. Pesenti riuscì anche a trasformare la scuola in un luogo in cui dare sfogo alla sua creatività. Quando insegnava nella sezione di Palazzago delle medie di Mapello, mise in scena «L’accusa», un oratorio da lui scritto, e coinvolse in questo progetto tutto il paese. Pesenti continuò sempre a scrivere. Fu direttore del periodico «La Parrocchia-Il Borgo» e scrisse su «La Nostra Domenica». Diresse per molti anni il periodico «La Pleiade», dove faceva recensioni delle prime dei teatri italiani. In questo modo mantenne vivo il suo amore per la lirica. Giovanni Pesenti è mancato nel luglio del 2003 a Zogno.
Anche Pino Longhi era un personaggio «a tutto tondo». Dopo essere stato arruolato come allievo ufficiale nel 1934, e dopo aver combattuto con i partigiani a partire dal ’43, Longhi aprì al principio di Borgo Santa Caterina, nel 1946, la sua prima officina meccanica. Le «Industrie Longhi», che si spostarono poi a Pedrengo, ottennero un grande successo, arrivando a oltre 180 dipendenti negli anni Sessanta. Nel frattempo, Pino Longhi continuò a coltivare la sua grande passione: quella per la letteratura e per gli esseri umani. Era un uomo buono, che voleva conoscere la natura umana pienamente. Si teneva sempre informato, sfogliando i volumi di filosofi come Sant’Agostino, Voltaire e Padre Turoldo. Quando l’università di Urbino gli conferì la laurea honoris causa , Longhi scelse la laurea in sociologia: un’ulteriore prova del forte amore che nutriva nei confronti dell’umanità. Pino Longhi ci ha lasciato nel marzo del 2000.
Lucio Mazzoleni fu un artista che non rinunciò mai alla sua passione per la famiglia e per lo sport. Era un restauratore del legno che realizzava dei veri e propri capolavori. Per dieci anni, fu presidente del comparto artigiano dei restauratori e consigliere dell’Artigianfidi. Quando non lavorava, si impegnava a trasmettere ai suoi figli umiltà e valori morali. Proprio grazie all’amore per la sua famiglia, riuscì a mantenere viva la sua passione per lo sport. I figli, infatti, erano arbitri di calcio e Lucio li seguì negli stadi di tutta Italia. Lucio Mazzoleni è mancato il 28 maggio 2002.
Le vite di queste quattro persone dimostrano che è possibile continuare a dedicarsi alle proprie passioni, anche quando si lavora molto. Gli esseri umani sono, per natura, pieni di sfaccettature. È questa moltitudine di colori a rendere splendida la vita. Rinunciando alle piccole sfumature e agli interessi particolari che ci caratterizzano, rischiamo di reprimere e di nascondere la nostra vera essenza. È vero che, nella maggior parte dei casi, il lavoro che si può svolgere è uno. Il tempo è limitato, ed è impossibile fare tutto quello che desideriamo. Questo non vuol dire, però, che non sia importante ritagliare uno spazio nelle nostre giornate, nelle nostre settimane, nei nostri mesi o nei nostri anni per dedicarci a ciò che ci ricorda quanto sia bello esistere.
AGNESE RHO
Studiò canto e si esibì in numerosi teatri
Agnese Rho nacque nel 1905 a Madonna di Tirano da genitori bergamaschi. Quando suo padre, nel 1916, venne a mancare, Agnese si trasferì a Bergamo con i suoi fratelli e con sua madre. Proprio a Bergamo, alle «Tecniche» di Via Masone, frequentò corsi di ragioneria mercantile. Poi, scoperta la sua reale vocazione, iniziò a studiare canto all’Istituto musicale «Donizetti», dove fu il professor Vittorino Moratti a seguirla. Proseguì i suoi studi musicali a Milano, presso L’Accademia «Enrico Bossi» e la scuola del soprano Adalgisa Minotti.
Fu al Teatro Lirico di Milano, dove interpretò il ruolo della Santuzza ne «La Cavalleria Rusticana», che Agnese debuttò ed ebbe grande successo. Da lì, si esibì in numerosi concerti, e le sue doti furono apprezzate molto sia dal pubblico, sia dalla critica.
Il suo ultimo concerto fu a Ivrea, nel Teatro Giacosa. Lì, insieme al tenore Voltolini, interpretò un ruolo nell’opera teatrale verista «I Pagliacci». Si sposò nel 1936 con Enrico Moralli, un coraggioso combattente che morì per cause di guerra nove anni dopo. A quel punto Agnese fu costretta a crescere i suoi figli da sola e scelse di dedicarsi completamente alla sua famiglia. La sua tenacia e lo spirito di sacrificio messi a dura prova anche per emergere nel mondo artistico, la portarono a non lasciarsi mai scoraggiare dalle avversità che incontrò. Fu in grado di trasmettere ai figli il patriottismo, l’onestà e il coraggio che caratterizzavano lei e che erano appartenuti anche a suo marito. Morì in città il 18 febbraio 1996.
EMILIA BORTOLOTTI
Promosse la donazione del sangue dagli anni ’50
Emilia Bortolotti fu la presidentessa della sezione Avis di Sarnico, a cui lei stessa aveva dato vita. Tutto prese avvio, come in molte delle storie che accadono nelle nostre vite, quando sua mamma stava male e Emilia si sottopose a una trasfusione per salvarla, in un periodo (gli anni Cinquanta) in cui era ancora rischioso farlo.
Lo fece senza indugio perché Emilia ha sempre creduto nella scienza e nel ruolo determinante dei medici che sanno leggere i bisogni profondi dei malati. La madre, grazie alla generosità della figlia, guarì dalla malattia che la aveva colpita. Fu allora che Emilia Bortolotti si rese conto pienamente dell’importanza, a livello umano, della donazione del sangue.
Decise quindi, nel 1960, di fondare la sezione Avis di Sarnico, e ne diventò poi presidentessa. Continuò a mandare avanti questa carica fino alla sua morte. La scomparsa di Emilia Bortolotti, l’11 agosto 1995, lasciò commossi i suoi compaesani e i suoi colleghi, che ne ammiravano non solo l’umanità e la solidarietà, ma anche la determinazione e la professionalità. Per il suo successo e per le sue iniziative, Emilia Bortolotti ricevette numerosi riconoscimenti. Le fu attribuita la croce d’oro per aver raggiunto le cento donazioni e nel 1990 fu insignita dell’onorificenza di Cavaliere al Merito della Repubblica. Le venne inoltre attribuita la presidenza onoraria della locale sezione Aido che il suo defunto marito aveva contribuito a fondare a Bergamo e in Italia.
MARIA BONAITI
La merciaia che divenne «Giusta tra le nazioni»
Maria Bonaiti contribuì, nel 1943, a salvare una ragazza ebrea dalla deportazione. Era una donna semplice e come professione gestiva, insieme al marito, una merceria ad Asso, nel Comasco. Al momento giusto però il suo coraggio seppe fare la differenza e questo gesto gettò una luce speciale su tutta la sua esistenza.
Uno dei fornitori della merceria era un uomo di origine ebraica, amico della coppia. A seguito delle leggi che prendevano posizione contro gli ebrei, quest’ultimo affidò a Maria e al marito sua figlia Graziella Bartdavid, che frequentava una scuola di suore nel comune.
La ragazzina rimase per settimane nascosta nella casa della coppia. Dopo alcuni mesi, per non dare nell’occhio, la portarono, per sfuggire ai controlli, a Calolzio, in una casa dove si trovavano anche Marina, Ida e Vittoria, le sorelle di Maria. La ragazza rimase lì fino alla fine della guerra, quando andò a stare da una zia a Milano.
In seguito si trasferì in Israele, senza dimenticare mai il gesto di Maria e della sua famiglia. Per molti anni la nostra Graziella, probabilmente per non richiamare alla memoria degli anni dolorosi, non raccontò a nessuno la sua storia. Nel 1997, però, Maria Bonaiti, insieme alle sue sorelle, ricevette per il suo gesto il riconoscimento «Giusti tra le nazioni», ossia la più alta onorificenza di Israele.
Nell’ambito dell’assegnazione del Premio San Martino, il Consiglio comunale di Calolzio consegnò inoltre a lei e alle sue sorelle, per il loro coraggio, un medaglione con l’effigie del Santo Patrono.
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