Le famiglie nobiliari bergamasche tra istanze repubblicane e fedeltà alla loro storia

Negli anni Cinquanta la società rappresentata nelle necrologie vede i segni del passaggio da un mondo legato alla nobiltà ereditaria a quello impegnato a ritagliarsi una dimensione “repubblicana” dove accanto ai titoli aristocratici, svuotati di valore, vengono avanti con altrettanto orgoglio le professioni di cui l’Italia di quegli anni ha immenso bisogno. In coda il ricordo scritto dal direttore Spada sulla contessina Josephine che viveva alle pendici delle Maresana

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Un suggerimento per chi vuole perdersi per le strade della Bergamo anni Cinquanta: andate nella ricerca avanzata del sito ognivitaunracconto.it e mettete solo la data di inizio: 1 gennaio 1950 e di fine della ricerca: 31 dicembre 1959. Scorreranno quasi 200 nomi associati a titoli nobiliari che ci catapultano in un contesto che pare solo di lustrini e castelli, ma che invece affonda in tempi lontani quando la nobiltà era legata al governo di un territorio
Ci accompagna in questo viaggio Andrea Borella, direttore dell’Annuario della Nobiltà Italiana.

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Come nascono i titoli nobiliari?
Non sono nati come privilegio ma come modo, per gli antichi sovrani medievali, di distribuire parte dei propri poteri al fine di poter meglio amministrare i propri regni. Celebre, ad esempio, è nella memorialistica la creazione dei duchi ad opera di Carlo Magno per poter gestire il suo crescente impero. In alcuni casi, certamente, il sovrano per ricompensare questi “amministratori pubblici” concesse loro privilegi e benefici anche di carattere economico, in specie attraverso l’acquisizione di rendite dalle zone amministrate o di esenzione da gabelle e balzelli. Tra Settecento e Ottocento, invece, l’attribuzione di titoli nobiliari divenne progressivamente sempre più un sistema premiale per gratificare i meritevoli con privilegi per lo più di solo carattere cerimoniale. Per questo, ad esempio, nell’Annuario della Nobiltà Italiana si possono trovare famiglie nobili originate da sportivi, medici, scienziati, politici e militari.

Donna Josephine Gallarati Scotti Dei Principi Di Molfetta
Bergamo, 19 maggio 1954

Come si trasmettono i titoli nobiliari?
Di prassi il titolo nobiliare di una famiglia si trasmette al figlio primogenito mentre gli altri figli mantengono lo status nobiliare ma senza il titolo vero e proprio. Un esempio: Immaginiamo che l’immaginario conte di Valfiorita venga a mancare. Il primo figlio, Mario, diventerà Mario conte di Valfiorita mentre i fratelli e le sorelle diventeranno Luca, Paolo, Francesco, Elena, Roberta “nobile dei conti Valfiorita”. Ovviamente il figlio di Mario erediterà il titolo dal padre. Esistono esempi di trasmissione femminile dei titoli ma sono casi particolari.

Marchesa Paula Flores: D'Arcais
Santo Stefano Degli Angeli, 17 dicembre 1955
Marchesa Maria Terzi Ved. Rossi
Bergamo, 2 dicembre 1952

Che valore hanno oggi?
Lo Stato italiano, nelle sue istituzioni repubblicane, non riconosce i titoli nobiliari. Tuttavia non riconoscere un titolo nobiliare non significa che questo non esista: il non riconoscimento non corrisponde ad annullare o cancellare. I titoli nobiliari, non riconosciuti e non tutelati, seguitano ad esistere con il loro retaggio, la loro storia e la loro continuità. Un corretto approccio al tema è necessario anche per arginare e contenere certe pratiche truffaldine oggi assai diffuse, pratiche di cui fanno le spese tanti ingenui ambiziosi.

Conte Baldassarre Compostella Di Sanguinetto
Nembro (Bergamo), 22 novembre 1950

Le famiglie nobili bergamasche

I nomi delle famiglie nobili della provincia bergamasca comprendono tutti i titoli nobiliari tranne quello ducale. Ci sono dunque principi, marchesi, baroni e nobili, alcuni appartenenti a casati con origini fuori dalla provincia, ma residenti qui, altri con radici nella nostra terra, ma che vivono altrove. Bergamo ha dato i natali persino a due famiglie principesche: i Thurn und Taxis e i Von Paar che vivono in Germania e in Svizzera. Ci sono poi i principi Giovanelli che risiedono ancora a Clusone, mentre i Gonzaga discendono da uno dei figli del duca di Mantova e si trovano a Bergamo grazie ad un matrimonio con la famiglia Medolago Albani. Ma sono solo alcuni esempi dei moltissimi.

Clelia Abate Dei Baroni De Stefanis
Bergamo, 7 novembre 1950

Il ricordo di Don Spada

Per chi ha un po’ di pazienza riporto qui il ricordo che il direttore de L’Eco di Bergamo Andrea Spada ha riservato alla contessina Josephine Gallarati Scotti, quanto di più lontano dai lustrini della nobiltà.

«Mons. Domenico Bernareggi ha porto ieri l’estremo saluto, sulla soglia della Cappella di Famiglia di Oreno, alla Salma della contessina Josephine Gallarati Scotti dei Principi di Molfetta. Era scesa dalla sua grande casa settecentesca, alle pendici della Maresana, verso la Chiesa di Valtesse presto nella mattinata, come ella aveva disposto perchè tutto fosse semplice, come per qualsiasi umile fedele che compie in fretta l’estremo viaggio. Non aveva voluto che si desse notizia della sua morte, se non a sepoltura avvenuta: tutta la sua vita aveva cercato il silenzio, l’ama nesciri dell’Imitazione, e si riservava il privilegio si lasciare così la vita terrena. Ma, dietro alla nuda cassa, coperta di fiori bianchi, che scendeva portata a mano dalla piccola stradetta di campagna, mentre l’unica campana della sua chiesina suonava con una tristezza accorante, c’era una folla che nessun giornale aveva chiamato ma che era perciò tanto più commovente e significativa.

Dietro ai parenti, il Duca Tommaso Gallarati Scotti, ex ambasciatore a Londra, con i fratelli, le sorelle, i nipoti, i parenti più stretti, cioè i nomi più alti della aristocrazia italiana, c’era tutta una folla di umile gente, che, nella gran parte, non l’aveva mai neppure intravista, ammalata com’era, fina da quando venne ad abitare a Valtesse. Era infatti ammalata da 17 anni e, nei tredici che passò nella villa silenziosa, rare volte aveva potuto lasciare il letto, e quelle poche volte l’unica meta era stata la sua Cappella. Ma i poveri, prima nelle case attorno alla villa, poi mano mano giù a Valtesse e in tutti i dintorni avevano appreso che la Contessina che si informava puntualmente dei loro dolori e delle loro gioie e si ricordava di tutti per arrivare un po’ da tutti. Piano piano era diventata il cuore evangelico e benefico di tutte le case.

Aveva 71 anni. In diciassette anni di malattia nessuno l’aveva mai sentita un attimo solo lamentarsi: sorrideva tranquilla ai medici che non sapevano spiegarsi l’eccezionale resistenza fisica che sembrava ogni giorno sui limiti di spegnersi, che non si nutriva quasi più affatto e che riprendeva invece inspiegabilmente ogni giorno il suo lento martirio. Mai un attimo di stanchezza, di avvilimento, di nervi. Mons Domenico Bernareggi che, col compianto Mons. Adriano, passò l’infanzia proprio ad Oreno dove la Contessina aveva trascorso gran parte della sua vita, ricordò commosso che ella aveva offerto la sua vita per la salute del compianto Arcivescovo. Era un dono quotidiano la sua vita, una piccola Messa quotidiana, per una croce da alleviare magari su spalle che non conosceva affatto, per un’Anima che rifiutava la luce, per una vita che fosse utile alla Chiesa e al prossimo.

E sapeva che i doni piacciono a Dio se sono gioiosi: per questo non alterava mai il suo sorriso, non faceva pesare nulla, trovava tutto semplice e confortevole. Aveva naturalmente ricevuto una grandissima educazione, di quelle che fanno veramente credere ancora nella nobiltà. Donna colta, curava una biblioteca di raro livello. Era strano come, dopo tanti anni di malattia che l’avrebbe dovuta allontanare lentamente dalla vita e dai suoi problemi, essa conservasse un senso così vivo e acuto di tutto quello che capitava nel mondo, un interesse attuale a tutti i problemi, specialmente religiosi, ma anche culturali e sociali. Soffriva di tutte le sofferenze degli altri, non parlando mai delle proprie, come se non esistessero, come se non avessero importanza alcuna. Era difficilissimo indurla a parlare di se stessa. Era di un tale equilibrio di giudizio, senza mai alti e bassi, di una superiorità d’animo così costante su tutte le piccole o grandi miserie della vita, che sorprendeva la saggezza dei consigli anche in attività di bene, che sembravano lontanissime dal suo mondo. Ma la vera sorgente di questa straordinaria vita, di cui si potrebbero narrare episodi come nelle vite dei santi, era la sua immensa fede. Era di una trasparenza spirituale assoluta. Proprio quelle vite teologali, dove Dio è al vertice quotidiano di tutto, dove la messa è un’offerta che si prolunga ogni attimo, dove la preghiera è naturale come il respirare, come il guardare, come il vivere. Il suo transito è stato perciò meno di un addormentarsi in pace: era già nell’altra vita da anni e quella era la vera vita, il suo pensiero più dolce, la sua gioia di ogni giorno. Non era l’inizio, la morte, ma il termine del lungo viaggio verso la soglia di Dio. La morte non ha trovato che una pura larva trasparente.

Così ha lasciato la nostra città, dove era venuta tredici anni fa, per essere vicina alla sorella contessa Agliardi. Si era affezionata alle torri di Città Alta che essa intravedeva dal suo letto, aveva stima della nostra gente, le dava conforto la nostra vita religiosa, e ha lasciato quello che aveva ai poveri della sua città adottiva. Bergamo sa così che una creatura eccezionale le ha chiamato sopra la più grande benedizione, quella delle anime che si offrono totalmente a Dio, e che fanno della propria vita tutta un’ansia di bene. L’anno accompagnata le infermiere dell’Ala Materna, un asilo che ella aveva fondato nella grande guerra assieme alla nobile Maria Ponzone, l’accompagnavano i nostri poveri, e spiritualmente tutta una città che comprende e venera ancora, grazie a Dio, il valore inestimabile di queste grandi vite cristiane.

Ora la contessina è tornata ad Oreno, nella cappella dove riposano i suoi cari, ma vivrà a lungo e venerato nella nostra città il ricordo di questa grande Anima, di questa luce benedetta che è passata così dolcemente sul nostro cammino».

spa.

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