«La storia raccontata da mio nonno»

Dalla raccolta di sette quaderni di appunti del Cav. Luigi Caglioni, la nipote Alessia Bacecchi ha dato vita al testo «Scritti per giorni di pace» in cui ripercorre le memorie del nonno

Nell’estate di poco più di 80 anni fa, veniva bombardato lo stabilimento di Dalmine in cui si producevano armi di guerra. Luigi Caglioni si trovava lì vicino. Stava lavorando. Sentì le sirene e tornò a casa di corsa. Questo episodio fu uno dei tanti che egli descrisse nel manoscritto in cui ha raccontato la sua vita.

Le memorie del Cav. Luigi erano raccolte in sette quaderni conservati con cura nella casa della nipote Alessia Bacecchi. Caglioni le cominciò a scrivere nel 2003, quando aveva 83 anni. Era anziano, ma in grado di descrivere gli eventi della sua esistenza con una precisione e una lucidità sorprendenti. Ricordava i nomi delle persone che aveva incontrato e i luoghi più importanti della sua vita. In una grafia elegante e in uno stile semplice dalla struttura simile a quella del dialetto bergamasco, Luigi raccontava la sua storia, partendo dalla sua nascita nella cascina «Pale» di Grassobbio. Scriveva della morte di suo papà, che aveva costretto la mamma a crescere da sola lui e i sette fratelli Maria, Pietro, Gesuina, Carlo, Alessandro, Santina e Francesco. Gli anni di infanzia e di adolescenza furono di povertà e tutta la famiglia doveva lavorare.

Poi, cominciò la guerra. Luigi fu chiamato alle armi a Verona, all’ottavo Reggimento Artiglieria Tredicesima Batteria della Divisione Pasubio. Era il 13 marzo del 1940 e aveva 20 anni. Combatté sul fronte occidentale, sul fronte Jugoslavo e partecipò alla campagna di Russia. Ne uscì con l’animo «tormentato»: faceva gli incubi e si sentiva come se i parassiti che gli avevano invaso il corpo nei giorni gelidi della guerra gli avessero avvelenato il sangue per sempre. Nei quaderni, Luigi descriveva la confusione e la paura del periodo dell’armistizio, dal momento in cui fu annunciato alle forze armate che i nemici erano diventati i tedeschi e che era necessario che i soldati fuggissero. Poi Luigi ha raccontato la fine della guerra e il ritorno alla tanto attesa normalità. Ha parlato del suo matrimonio, del suo negozio di frutta e verdura a Grassobbio e della sua iscrizione al gruppo ciclistico AIDO.

Mai, però, ha dimenticato il periodo della guerra. Lo dimostra il fatto che, fino a ottantatré anni, Luigi ha mantenuto il ruolo di presidente dei Combattenti e Reduci, di cui poi fu anche Presidente Onorario.

La prospettiva sulla guerra che emerge dalle memorie di Luigi Caglioni è diversa da quella che ci forniscono i libri di storia. Nelle sue pagine, messe in un libro dalla nipote Alessia Bacecchi («Scritti per giorni di pace») non leggiamo statistiche o descrizioni accurate di quello che stava accadendo nel mondo. La ricchezza dell’opera del Cav. Luigi consiste proprio nel fatto che contiene la sua vita. Le sue parole ci forniscono scorci della guerra che altrimenti ci sarebbero rimasti nascosti. Vediamo il mondo attraverso i suoi occhi. Quando racconta della ritirata di Russia, descrive il ghiaccio che si formava sulla sua barba, sui suoi occhi e sulle sue labbra. Scrive dei morti che lo circondavano e di quanto gli provocasse inquietudine e gli facesse perdere il senso della ragione il fatto di essere tra gli unici vivi rimasti.

Le memorie del Cav. Luigi sono quelle di un ragazzo che da un giorno all’altro ha visto la sua vita cambiare. Leggendo le sue frasi semplici e le sue descrizioni vivide, si ha l’impressione di essere innanzi a un amico che racconta la propria vita e ci si rende conto del fatto che le vicende della guerra non siano poi così lontane da noi. Hanno colpito e colpiscono persone proprio come noi. Forse solo in questo modo ci si avvicina a una comprensione degli orrori della guerra. Le storie delle persone che ci vivono accanto sono delle risorse molto preziose perché le sentiamo più vicine e perché ci danno un’idea più precisa dell’aspetto che avrebbe potuto avere la nostra vita, se fossimo nati qualche anno prima. È inoltre importante ricordare che la storia non è stata soltanto creata da chi prendeva le decisioni o dai personaggi più famosi. A rappresentare la maggioranza sono le persone comuni che, con le loro scelte di tutti i giorni, erano parte integrante della storia. Conoscere le vite delle persone semplici, quindi, ci permette da un lato di avvicinarci alla storia, dall’altro di sapere qualcosa in più su chi ha contribuito a costruirla.

Francesca Pezzotta, da migrante in Francia a riferimento per molti

È nata a Gorlago, ma ha trascorso praticamente tutta la sua vita, a partire dal 1922, a Homécourt, in Francia, insieme al marito Giuseppe Leidi. Quest’ultimo aveva infatti trovato lavoro lì. Non era facile la vita degli emigranti. Dovevano tribolare per trovare lavoro, per trovare casa, per trovare da mangiare e, quando si sistemavano, la fatica del lavoro era appena cominciata. I molti sacrifici erano amplificati dal fatto che l’ambiente e la gente attorno a loro era, il più delle volte, ostile. Francesca e Giuseppe ebbero cinque figli, due maschi e tre femmine. La loro famiglia crebbe fino a diventare molto numerosa. Arrivarono infatti ad avere venti nipoti, ventinove pronipoti e sei trisnipoti. Vedendo la grandezza della sua famiglia, i concittadini di Homécourt le avevano assegnato il soprannome di «grand-mère», che vuol dire «nonna» in francese. Con il tempo la gente del suo paese ha cominciato a volerle davvero bene e addirittura Francesca è stata riconosciuta, come un punto di riferimento per la comunità. Veniva ammirata per la sua grande intelligenza, che la portava, anche in età avanzata, ad informarsi, leggendo regolarmente il giornale. Aveva inoltre una memoria di ferro. Nonostante fosse lontana da Bergamo, infatti, non ha dimenticato mai le sue origini. Con i suoi figli, parlava in bergamasco e spesso ricordava con nostalgia la sua Gorlago, esprimendo il suo dispiacere per le circostanze che avevano costretto lei e suo marito ad andarsene. Neanche Gorlago ha dimenticato Francesca e ha voluto ricordarla con una messa quando è morta, il 18 agosto 1994.

Mons. Teodoro Dolci, il primo parroco di San Tomaso de’ Calvi

Mons. Dott. Don Teodoro Dolci Di Anni 80
Mons. Dott. Don Teodoro Dolci Di Anni 80
Zogno, 6 settembre 1976

Monsignor Teodoro Dolci è nato a Zogno il 17 aprile del 1896 da una famiglia numerosa e molto religiosa. Due dei suoi fratelli, infatti, diventarono sacerdoti e due sorelle si iscrissero a degli Istituti secolari. Prima di diventare sacerdote, Monsignor Dolci studiò a Roma, dove si laureò in Teologia. Poi, dal 1915 al 1920, prestò servizio nell’esercito. Nel 1922, fu ordinato sacerdote. Dal 1923 al 1926 fu vice rettore al Collegio Dante. Poi, nel 1926 diventò coadiutore a Santa Caterina e insegnante in seminario. A partire dal 1927, pur continuando ad essere insegnante in seminario, rinunciò al ruolo di coadiutore e divenne l’addetto alle parrocchie di Petosino e poi di Borgo Canale. Dal 1940 al 1971 fu il primo parroco a San Tommaso dei Calvi, chiesa che arricchì facendo edificare un altare maestoso, paramenti sacri, due grandi sagrestie e un campanile. Nel frattempo, nel 1951, fu anche presidente della Commissione diocesana di Arte Sacra e nel 1951 fu nominato cameriere segreto di Sua Santità, un titolo che veniva conferito ai sacerdoti secolari al servizio della Santa Sede o ai sacerdoti diocesani che venivano considerati meritevoli. Viene ricordato non solo per tutto ciò che ha fatto per completare la chiesa di San Tommaso dei Calvi, ma anche per le sue grandi doti nell’arte dell’insegnamento. Era in grado di spronare i suoi studenti ad impegnarsi e di condividere con loro la sua passione per la conoscenza.
Dal 1971 fino al 1976, l’anno della sua morte (morì il 6 settembre) , fu ospite alla Casa Charitas di Zogno, dove fu molto d’aiuto al cappellano.

Donnino Donini, da prigioniero di guerra a Sindaco di Vertova

Donnino è nato il 30 luglio del 1898. Ha avuto una vita piena di imprevisti, ma sempre è riuscito a trasformare in bene ciò che gli accadeva. Combatté nella prima guerra mondiale, durante la quale venne fatto prigioniero. Fu liberato soltanto quando il conflitto finì. Fu proprio da questo momento che iniziò a lavorare come rappresentante di prodotti farmaceutici da uno zio a Milano.

Alla fine della guerra, senza pensare ai dolori subiti in prigionia, ricoprì un ruolo fondamentale nella vita del suo comune dopo la liberazione, nel 1945, quando divenne sindaco di Vertova.

Come affermava lo stesso Donini in una relazione letta al Consiglio comunale quando ha ceduto il mandato al suo successore Vincenzo Guerini, l’Italia in quel periodo si trovava in una situazione di grande disagio: regnava la povertà, mancava il lavoro e mancava il cibo. Donnino Donini fece quindi il necessario per soddisfare le necessità più importanti della popolazione del suo comune. Acquistò molta farina e fu quindi in grado di fornire ai vertovesi il pane, di cui il resto della provincia era totalmente privo. Dimostrazione ulteriore dell’attenzione di Donnino Donini nei confronti della sua comunità fu il fatto che il suo impegno sociale non finì quando, nel 1946, egli smise di essere sindaco di Vertova.

Fu, infatti, anche il primo presidente dell’Ente comunale di assistenza e della Pia casa di riposo, due istituzioni che devono a lui un grande sviluppo e la lungimiranza con le quali sono amministrate. Donnino Donini è morto a Vertova il 30 maggio 1984.

© RIPRODUZIONE RISERVATA