Ogni vita un racconto / Valle Brembana
Giovedì 05 Dicembre 2024
La montagna e il suo richiamo vitale
Cosa accomuna le storie di Ettore Riceputi, Lucia Tagliaferri, Gian Felice Riceputi, Giancarlo Alborghetti e Pietro Nava? La montagna. È una passione che scorre nelle vene di tanti bergamaschi, che va oltre al semplice amore per la natura, è una connessione radicata nella nostra cultura che si tramanda di generazione in generazione.
I personaggi delle storie che vi vogliamo raccontare oggi hanno tutti quanti una relazione speciale con la montagna. C’è chi, come Ettore Riceputi, ha custodito l’antico borgo di Pagliari. Lucia Tagliaferri non ha mai lasciato la sua valle di Scalve guardando i figli allontanarsi, Gian Felice Riceputi invece ha guardato la montagna dalla valle (Brembana) e ne ha raccontato le storie per una vita intera. Giancarlo Alborghetti del Villaggio degli Sposi portava le persone in montagna e ne curava, da tecnico e volontario i collegamenti. C’è poi chi, come Pietro Nava, si è avvicinato all’Everest e ne ha custodito per una vita il ricordo.
Ettore Riceputi: custode fedele del borgo di Pagliari
Ettore Riceputi è morto nel marzo del 2009, a 87 anni, a causa di una broncopolmonite. È stato per più di vent’anni l’ultima sentinella di Pagliari, lo storico borgo a mezz’ora di sentiero da Carona. E se Pagliari è rimasta un po’ quella di una volta è stato grazie a lui.
Tutti lo conoscevano e Pagliari non è stata più la stessa dopo la sua scomparsa. Per molti anni è stato l’unico residente del borgo seicentesco lungo il sentiero che porta al rifugio Calvi. A Pagliari non si contavano i residenti da più di vent’anni, ma Ettore non aveva bisogno dell’anagrafe per custodire la sua terra.
Viveva nella casa che lo ha visto nascere e crescere, quando ancora il borgo era un brulicare di abitanti e animali. Si trovava più a suo agio in quei luoghi che nella sua nuova casa di Carona, giù al paese dove doveva passare l’inverno. In primavera e in autunno trascorreva le notti da solo, guardiano ed erede di un passato che sembrava non volersi spegnere. D’estate aveva la compagnia dei parenti, degli oriundi di Pagliari e degli escursionisti. La tecnologia gli andava molto a genio: il telefonino che gli avevano dato era sempre spento. L’unico rumore che amava, forse, era quello della fontana della frazione e poi quello della scure con cui tagliava la legna per l’inverno. È stato l’amico di tanti escursionisti, giovani e anziani, che quando facevano una passeggiata sui monti sopra Carona non dimenticavano mai di salutare il «sindèch», come era chiamato affettuosamente Ettore.
«È stato una persona speciale – lo ricordavano il vicesindaco di Carona Luciano Migliorini e il nipote Lazzaro Riceputi –. Fino a pochi giorni prima di essere portato all’ospedale, Ettore spalava la neve del condominio e prima delle abbondanti nevicate saliva ogni giorno a Pagliari».
Al suo funerale, nella chiesa parrocchiale di Carona, erano tanti i presenti, per dargli un ultimo saluto e per ringraziare una persona semplice, che ostinatamente e con grande amore ha portato avanti la cultura delle tradizioni.
Massimo Pesenti (Archivio de L’Eco di Bergamo)
Gian Felice Riceputi: lo storico che amava la Val Brembana
Nel settembre 2009 a Zogno Gian Luigi Riceputi se ne andava in silenzio, come era il suo stile. Un uomo semplice, colto e amante della storia locale e fondatore e presidente del Centro storico culturale della Valle Brembana. In quel giorno, la Valle ha perso un insegnante di lettere, un giornalista e un ricercatore storico che ha dedicato tutta la sua vita alla cultura vallare.
Riceputi aveva solo 60 anni quando è morto, era nato a Carona e da alcuni anni viveva da solo a Zogno. Laureato in Lettere, per lungo tempo si è dedicato all’insegnamento nelle scuole medie e superiori della valle, svolgendo allo stesso tempo un’intensa attività come giornalista pubblicista su quotidiani e riviste. Autore di numerosi libri sulla cultura locale, aveva anche prestato attività di volontariato in campo sindacale. Il suo impegno come ricercatore storico era iniziato nel 1994 con la collaborazione al libro «La Resistenza in Valle Brembana». Uno dei suoi libri che ha suscitato l’interesse di un vasto pubblico di lettori, dentro e fuori i confini brembani, è stato «Storia della Valle Brembana» (1997), che costituisce il primo esempio di storia generale della zona. Nel 1999 era seguita la pubblicazione de «Il Novecento in Valle Brembana». Inoltre, Gian Felice Riceputi aveva pubblicato, insieme ad altri autori, alcuni libri sulla storia dei paesi dell’alta Valle Brembana, come, ad esempio, Valtorta, Olmo al Brembo, Piazzatorre, Moio de’ Calvi e i comuni della Val Fondra e altre varie monografie di storia e cultura locale.
Prima di morire, stava ultimando la redazione di un volume sulla storia della Manifattura di Valle Brembana. «Ieri ho trascorso tutta la giornata con lui e so che aveva in programma di andare domenica alla visita guidata al sito geologico della conca del Calvi, sopra Carona – spiegava Tarcisio Bottani, vicepresidente del Centro, amico e autore insieme a Riceputi di numerosi libri –. Nonostante fosse malato, guardava avanti e trasmetteva serenità, continuava a diffondere la cultura della valle».
Eleonora Arizzi (Archivio de L’Eco di Bergamo)
Lucia Tagliaferri: l’essenza più pura della Val di Scalve
Una montanara purosangue, Lucia Tagliaferri ha lasciato il suo paesino poche volte. Moriva nel luglio del 2009, nella casa di riposo «Fondazione monsignor Andrea Spada» a Schilpario, aveva 103 anni ed era la decana della Valle di Scalve.
La sua lunghissima esistenza è stata scandita dal duro lavoro contadino, dalla cura della sua numerosa famiglia e da una forte fede che l’ha sorretta nelle difficoltà della vita.
Era nata nella frazione di Nona di Vilminore e da subito aveva condiviso la fatica delle famiglie scalvine. Alcuni suoi fratelli erano emigrati, persino in Australia, per costruire un futuro migliore e più sicuro. Il marito Zamboni aveva precoci problemi di cuore ed è morto di infarto a 53 anni, nel 1958. Dal suo matrimonio sono nati nove tra figlie e figli, di cui tre morti in giovane età. La primogenita era suor Rosaria Zamboni, madre generale della Congregazione della Sacra Famiglia di Comonte di Seriate. «Mia mamma era di carattere molto buono e cordiale – ricordava la figlia Franca –. Era legatissima ai suoi monti e al suo paesino, che credo non abbia mai lasciato se non pochissime volte. La sua caratteristica più evidente era una fede forte, con un grande amore alla Chiesa e alle feste religiose. Quando mia sorella maggiore Rosaria comunicò il desiderio di diventare suora, mia madre fu felicissima e fiera di questa scelta. Anzi, sperava che altri tra noi diventassero sacerdoti o religiose».
Lucia Tagliaferri godeva di ottima salute. Per sbarcare il lunario, come tutte le sue compaesane del tempo, divideva il suo tempo tra le faccende di casa, i fornelli, il rammendo, il lavoro dei campi e nei boschi, il taglio dell’erba, la fienagione, la cura degli animali da cortile e nella stalla, oltre a fare la sarta nei ritagli delle giornate.
Quando i figli sono usciti di casa per il matrimonio, ha continuato a vivere da sola, nella sua casa, tra i suoi monti e i suoi animali fino a sei anni prima della morte, quando è stata accolta nella casa di riposo di Schilpario.
Con lei è scompariva una figura scalvina di un tempo lontano, ma che con la sua fattiva e umile opera quotidiana ha portato un solido mattone nel costruire il benessere dei nostri giorni.
Carmelo Epis (Archivio de L’Eco di Bergamo)
Pietro Nava: l’avvocato che vide l’Everest
Pietro Nava aveva preso parte alla spedizione sull’Everest del 1973. Ricordava Paolo Valoti del Cai di Bergamo: «Pietro era un amico e un uomo di profondo rigore morale».
La sua «medaglia» più prestigiosa fu senz’altro la spedizione sull’Everest del 1973, cui prese parte come vice capo di Guido Monzino, che permise per la prima volta a cinque alpinisti italiani di scalare la montagna più alta del mondo. Ma di Piero Nava, che se n’è andato nel settembre 2021 a 89 anni nella sua casa di Bergamo, restano soprattutto la sua passione per la montagna, il carattere schivo, l’esempio di attaccamento in 70 anni da associato del Club alpino italiano e un patrimonio inestimabile di libri e opere dedicate alle vette di tutto il mondo. Pietro Nava era un avvocato stimato, ma anche un curioso esploratore dei paesaggi montani e instancabile alpinista.
È stato per gli amanti della montagna un esempio da imitare. «Perdiamo anzitutto un amico – continuava Valoti – verso il quale abbiamo un grande desiderio di riconoscenza, perché è stato uno dei collezionisti e dei custodi di opere legate all’alpinismo, tra i pochissimi in Italia: tanti suoi volumi (circa 5mila totali, ndr) non sono presenti neppure nella biblioteca del Cai».
Affiliato Cai dal 1952, Pietro Nava ha ricoperto molte cariche, a livello locale e italiano; era socio anche del prestigioso Groupe haute montagne (Ghm), dell’Alpine Club e dell’Alpine Climbing Group.
«Ha sempre avuto una visione elitaria del Cai – ricorda Valoti –, ma era anzitutto un uomo dalla profonda onestà intellettuale. Vent’anni fa storse il naso al progetto del Palamonti, ma qualche anno più tardi seppe riconoscerne il valore e l’unicità. Oggi speriamo che il suo comportamento sia un modello per tanti giovani che si accostano al mondo della montagna». Un altro alpinista, Simone Moro, aveva ricordato con affetto Pietro Nava: «È stato un alpinista visionario, dalla mente fine, con una capacità rara di vedere progetti interessanti non solo per le nostre montagne, ma per l’intero mondo dell’alpinismo. Fu sua intuizione della traversata integrale delle Orobie attraverso le creste. Lui non riuscì a farla e il depositario dell’idea divenne poi Mario Curnis (che proprio Nava volle nella spedizione del 1973 sull’Everest). Lui era sì un esploratore con le gambe, ma anche un esploratore di testa».
Sergio Crotti (Archivio de L’Eco di Bergamo)
Giancarlo Alborghetti. al servizio della comunità e della montagna
Era infaticabile e carico di entusiasmo. Così al Villaggio degli Sposi nell’aprile del 2010 ricordavano Giancarlo Alborghetti, fondatore dell’Unione sportiva, promotore di centinaia di iniziative nel quartiere (era anche nel Consiglio per agli affari economici della parrocchia), ma noto anche nel mondo della montagna come responsabile della banda larga dei rifugi Cai.
La malattia di Giancarlo in pochi mesi gli ha tolto la mobilità, la sua forza, ma mai il sorriso. E la mobilità era la caratteristica che lo identificava: quante volte gli amici del Villaggio l’hanno incontrato per strada. Giancarlo dove vai? «Agli impianti sportivi. Nei rifugi a installare i telefoni Sos. A raccogliere i fondi per il comitato don Seghezzi. A preparare i tandem per i ragazzi disabili. A programmare una gita per il gruppo della montagna. A fare una sgambata in bicicletta. In oratorio per una riunione. A trovare i miei nipoti…».
A casa ci tornava alla sera dopo essersi impegnato in qualche attività nel quartiere. Instancabile. Da quando si era ritirato dal lavoro (aveva ricoperto un importante ruolo in Telecom), ancora giovane, aveva deciso di dedicare le energie a famiglia e quartiere. Nel giorno della morte, quando le campane della chiesa parrocchiale di San Giuseppe hanno suonato la triste agonia, non c’è stato amico di Giancarlo che non abbia rivolto il pensiero a lui. Per gli abitanti del Villaggio, la mattina di Pasquetta è iniziata con il groppo alla gola. In chiesa è stato ricordato con una preghiera. E si era anche pensato di annullare il momento di festa previsto in oratorio per il pranzo e il pomeriggio. Ma i familiari hanno detto a don Gianmarco Vitali di non fermarsi perché Giancarlo ci sarebbe stato e avrebbe fatto festa. Nessuno ne ha dubitato. Lui c’era sempre con il suo sorriso e la sua stretta di mano. Amava profondamente la sua comunità nella quale era cresciuto sia da ragazzo, sia da padre. E ai ragazzi del quartiere ha dato la possibilità di divertirsi nell’ambiente sportivo che gli era tanto caro. Nel 1999 fu socio fondatore dell’ Unione sportiva Villaggio Sposi (Usvs) che guidò come presidente per 10 anni. Rinunciò all’inizio del 4° mandato, quando la malattia cominciò a mostrare i primi segni preoccupanti che lo obbligarono a cure intensive.
Fu appassionato e prezioso collaboratore delle sezioni Sci/Gam (amici della montagna) e ciclismo oltre che della sezione «Non Solo Parole» verso la quale ha sempre avuto un’attenzione particolare. La montagna era il suo luogo ideale: fatica e grandi amicizie. Anche la bicicletta è stata per anni una compagna di avventure con centinaia di chilometri nelle gambe. Ma la sua sensibilità lo ha portato anche a spendere tempo e impegno per il progetto dei tandem da destinare ai ragazzi disabili. Ne parlava con entusiasmo, perché ci aveva messo il cuore, come se quei ragazzi fossero figli suoi. È stato promotore del comitato «Amici di don Franco» per ricordare l’opera meritoria del primo parroco della parrocchia San Giuseppe. Giancarlo Alborghetti collaborò alla realizzazione del «Progetto Sos» che fa capo a 15 rifugi delle Orobie e che funziona anche quando il rifugista è assente per chiamate di emergenza al 118 o al Soccorso alpino. Inoltre realizzò il collegamento della webcam al rifugio Coca per metterlo in rete con il Centro meteo lombardo.
Archivio de L’Eco di Bergamo
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