I social sono un mondo dove la morte è esclusa?

Non solo semplici piattaforme: i social media si stanno evolvendo in qualcosa di più, anche in “cimiteri virtuali”. Questi spazi digitali, originariamente pensati per connettere le persone e condividere momenti di vita, ora ospitano anche i profili e i ricordi di chi non c’è più. Chatbot e assistenti virtuali simulano dialoghi con i nostri cari scomparsi, con frasi e risposte che sembrano reali, ma che in realtà sono solo frutto di algoritmi avanzati.

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Uno sviluppo tecnologico che solleva interrogativi profondi su come affrontiamo il lutto nell’era digitale. Online, ci incontriamo, ci informiamo, studiamo, ci divertiamo, e, sempre più spesso, anche il lutto trova il suo spazio in rete. Social media e chatbot sono strumenti che mantengono vivo il ricordo delle persone care e rimandano il momento dell’accettazione della loro assenza.

In un contesto che spesso celebra la giovinezza e insegue l’illusione dell’immortalità, la morte è il grande rimosso culturale della nostra epoca, relegata negli ospedali, rimossa dai discorsi pubblici e privati. Siamo quasi portati a credere che sia un fatto che non ci riguarda. Quando la morte colpisce gli altri viene affrontata con sorpresa, come se non costituisse una possibilità sempre presente nella nostra vita. Viene diluita dai neologismi: si dice, per esempio, che qualcuno è stato «stroncato da un male incurabile», perché l’espressione «morto di tumore» potrebbe essere accolta con profondo disagio in una conversazione tra persone educate.

Nonostante questo, la presenza dei nostri cari defunti emerge dai dispositivi che, quotidianamente, usiamo. Le loro immagini, i loro messaggi e i loro ricordi appaiono nelle nostre vite digitali, costringendoci a fare i conti con la loro assenza fisica. Insomma, anche se moriamo, le tracce che lasciamo online continuano a esistere, perpetuando una sorta di persistenza virtuale.

«La morte si fa social» di Davide Sisto

«La morte si fa social. Immortalità, memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale», pubblicato da Bollati Boringhieri nell’agosto 2018, Davide Sisto, docente, filosofo e tanatologo, esplora il rapporto complesso e in evoluzione tra la morte e il mondo digitale.

Quando una persona muore, i suoi account digitali rimangono attivi. «Da quando si è diffusa a macchia d’olio la connessione al mondo online, e soprattutto da quando disponiamo dei social media e degli smartphone, siamo diventati esseri che producono dati e che registrano quasi ininterrottamente la nostra vita . – ci racconta il professore Sisto - Il fatto che tutti questi dati poi ci sopravvivono rende ancora più complessa la situazione. Sappiamo che uno dei momenti più fragili della nostra esistenza è quello legato alla perdita e al lutto. Di conseguenza la sopravvivenza dei nostri profili online può arrecare non pochi danni di natura psicologica ed emotiva ad altre persone, più ancora che a noi».

Una duplice dinamica che caratterizza il nostro rapporto con la morte: da un lato, la società contemporanea tende a relegare la morte in spazi lontani dal quotidiano, come se fosse un argomento scomodo da affrontare. Dall’altro lato, la stessa morte si è fatta strada prepotentemente nella nostra vita attraverso i mezzi di comunicazione digitali, come i social network.

Sui recenti sviluppi degli strumenti di tecnologia digitale che sfruttano le memorie post-mortem per dar vita a degli alter-ego metafisici, Davide Sisto precisa: «Io penso che si faccia male a parlare di “immortalità”. Molti studiosi utilizzano questo concetto per attirare l’attenzione, ma di fatto, attraverso queste tecnologie si trasformano, si rendono attive delle nostre riproduzioni. Si utilizza l’intelligenza artificiale per far sì che le riproduzioni dei morti in qualche modo replichino le caratteristiche di chi biologicamente non c’è più».

Prendendo consapevolezza del fatto che non ci troviamo su un piano metafisico, ma piuttosto su quello della riproduzione di contenuti e interazioni, possiamo vedere queste evoluzioni come un modo creativo di sfruttare internet. «Un tempo - prosegue Sisto - vedevamo le fotografie, oggi dialoghiamo con le riproduzioni artificiali di chi è morto. Certo, chi è particolarmente fragile, chi ha subito un lutto molto traumatico, può trarre da queste riproduzioni un ricatto psicologico che comporta il rendere più difficile l’accettazione della morte, creando l’illusione di stare veramente dialogando con una persona che effettivamente non c’è più».

Da sottolineare l’importanza di affrontare il lutto in modo sano. La tecnologia può facilitare la connessione con il ricordo di chi è morto, ma rischia di ostacolare il processo di accettazione del dolore. La possibilità di interagire virtualmente con una versione artificiale del defunto può ritardare l’elaborazione della perdita, trasformando la morte in un’esperienza digitalmente perpetua.

Qui entra in gioco il tema della non accettazione della morte, di una società che fatica ad accettare la fine delle cose. In questo contesto, i social network diventano una sorta di enorme archivio di memorie personali e collettive, quasi a voler sfidare l’inevitabilità della morte. Lo fanno moltiplicando le nostre presenze digitali e frammentando l’identità fisica e psicologica in una serie di “io” virtuali. Sono riflessi digitali, fugaci e temporanei.

Dovremmo imparare a riconoscere il valore dell’oblio, che ci ricorda la nostra condizione mortale e che il ciclo di apparire e svanire è parte integrante della nostra esistenza. Siamo mortali e il nostro tempo è limitato: dovremmo focalizzarci sulle azioni che valorizzano il nostro essere uomini, comunità di fratelli e, possibilmente, a sentirci creature in cammino alla ricerca della soddisfazione del desiderio di infinito.

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