Guerra e prigionia, morire oppure vivere

Alberto Sangalli e Loredana Masnaga hanno raccolto in un libro le confidenze affidate a un diario da un ragazzo partito da casa nel 1941 e rientrato dopo cinque anni di peripezie nell’Europa devastata dai conflitti

La vita, spesso, ci pone di fronte a delle scelte. Scelte non necessariamente giuste o sbagliate, ma che possono poi schiudere scenari imprevedibili, arrecare gioia o, al contrario, sconforto e rimpianto. Capita che una determinata scelta possa condurre alla vita, mentre che una diversa possa portare alla morte. Un po’ come quella volta che Bruno ha dovuto decidere se fidarsi dei tedeschi (e imbarcarsi sulla «Gaetano Donizetti», alla volta dell’Italia) o restare a Psito, piccolo villaggio nell’isola di Rodi. Alla fine, optò per rimanere in Grecia e fu la cosa migliore (dato che la «Donizetti» venne affondata e nessuno dell’equipaggio si salvò). Ma per ripercorrere la storia di questo prigioniero di guerra, che abitava in Città Alta, in via Porta Dipinta al numero 28, è bene partire dall’inizio, ovvero da quando Bruno Masnaga lavora come elettricista nello stabilimento «Caproni» di Ponte San Pietro e, contemporaneamente, frequenta un corso di radiotelegrafista.

È il 1941, la nazione è in guerra e la cartolina rosa per il servizio militare non tarda ad arrivare. Bruno viene quindi assegnato al nono reggimento dell’Arma di artiglieria di stanza a Bressanone (Divisone «Brennero»). Il suo battaglione, però, prima viene trasferito a Bolzano, poi, infine, viene destinato a un’altra località, molto più distante: l’Egeo o, per meglio dire, Cattavia, estremità sud di Rodi. Questo trasferimento è frutto della scelta di partecipare a un bando per la ricerca di un telegrafista che il soldato aveva visto nella bacheca della caserma. Passano all’incirca due anni e alle orecchie di Bruno (nel frattempo distaccato a Psito) giunge la notizia che il Gran consiglio del fascismo ha approvato l’ordine del giorno «Grandi»: Mussolini è caduto. È il 1943 e l’euforia si diffonde fra le truppe italiane. La speranza di tornare a casa, nondimeno, dura poco: i nazisti prendono completamente possesso dell’isola e costringono gli italiani a salpare. Bruno, come detto, si dà alla macchia.

Ma la vita da rinnegato è dura, tanto più difficile e pericolosa se non si hanno viveri o un luogo sicuro dove nascondersi. Pochi giorni prima di Natale, tuttavia, Bruno nota un manifesto: un invito, rivolto agli «sbandati» come lui, a presentarsi presso il comando germanico per evitare arresto e fucilazione. Ecco dunque che Bruno, per la seconda volta, si trova davanti a una scelta: cedere alla richiesta e salvare la pelle o continuare a soffrire la fame. Dopo essere sceso a patti con i suoi ideali e le sue convinzioni, Bruno accetta a malincuore e finisce a far lavori pesanti, a scavar buche e trincee.

Ma la fatica delle membra è nulla in confronto alla pesantezza del cuore: da una lettera che riceve dal padre, viene a sapere che suo fratello di soli 17 anni è morto, trucidato dai fascisti. Nonostante l’amarezza, Bruno resiste e, dopo altri due anni, arriva la resa del colonnello Wagner: il conflitto è finito. Non è del tutto così però, per lo meno non per Bruno. Come prigioniero di guerra, viene scortato dagli Alleati in un campo di concentramento algerino, poi in uno italiano, a Taranto. Le condizioni sono estreme, Bruno, lì, è solo un numero. È il 1946 e una notte Bruno deve fare l’ennesima scelta: evadere o restare. Con un gruppo di altri prigionieri, tagliate le recinzioni, si dà alla fuga. Dopo aver raggiunto Foggia grazie a mezzi di fortuna, giunge alla stazione dei treni e sale su un convoglio che lo porta a Milano. Dal capoluogo lombardo, riuscirà, finalmente, a tornare a casa. Era il 20 aprile 1946.

La memoria di questa esperienza (durata cinque anni) è racchiusa in «Guerra e prigionia di Bruno Masnaga» (2024), libro scritto a quattro mani da Loredana Masnaga e Alberto Sangalli: una testimonianza schietta e diretta della seconda guerra mondiale e dell’infelice destino dei nostri soldati dopo l’armistizio dell’Otto Settembre. Ma anche di come il sentimento (di amore e di libertà) sia forse l’unico fattore che, in certe condizioni, ci spinge a non demordere e a continuare a sperare. Il libro nel quale è raccolta questa storia è disponibile per la consultazione presso la Biblioteca «Gavazzeni» di Bergamo Alta in piazza Mercato delle Scarpe, 3.

La storia Linda e Cipriano Guadagni. Il rito delle pannocchie e il sapore della famiglia

Ci scrive Luigina Guadagni di Osio Sopra. Sta sistemando la vecchia casa colonica della famiglia e desidera condividere un ricordo. «Ho appena recuperato un ritaglio de L’Eco del 28 Settembre 1988. Riporta una fotografia e un trafiletto della “sfoiada” ad Osio Sopra con la mamma Linda, zia Giacomina e mio fratello Antonello ed è firmata Foto Flash, il fotografo che girava per i paesi della Bassa. Si tratta della piccola attività agricola “familiare” di mamma e papà nella corte del centro storico di Osio Sopra che si è chiusa nei primi anni 2000 per raggiunti limiti di età. Sono rimasti la casa colonica, la stalla ed i fienili come li hanno lasciati loro. Ricordo con molta nostalgia la mia infanzia negli anni Settanta in quel cortile. Forse riuscite a recuperare e pubblicare quel piccolo articolo nella rubrica “ogni vita un racconto” che ho scoperto da pochissimo. Mamma e papà avrebbero festeggiato 60 anni di matrimonio il prossimo 14 Novembre, sarebbe un bel modo per ricordarli».

Riprendiamo per loro il testo della didascalia della foto: «Come ai vecchi tempi. Quando il chicco di granoturco, prima di essere macinato in farina percorreva un lungo cammino nel tempo. Oggi le trebbiatrici fanno in un attimo e in pochissimo tempo i contadini essiccano il mais. Qualcuno (come in questa vecchia cascina) preferisce la vecchia maniera: le pannocchie sono così raccolte a mano e si scartocciano (è la cosiddetta “sfoiada”) prima che vengano lasciate essiccare all’aria e al sole, elementi naturali che danno al chicco di mais un sapore tutto particolare. Il sistema è laborioso. Ma vuoi mettere che farina?»

Il personaggio Francesco Pergolini. La sua vita per Sovere, tributo all’eroe del ’44

Sovere, 8 dicembre 1944: Francesco Pergolini, capitano dell’esercito italiano, si presenta al Comando tedesco e offre se stesso in cambio dell’annullamento dell’ordine di mettere al rogo Sovere. Ecco quello che è successo e che ha permesso che si salvasse Sovere, i suoi abitanti e che si salvasse anche Francesco Pergolini. Da quel giorno sono trascorsi 80 anni e la storia racconta che in quell’autunno i gruppi partigiani che operavano sui monti dell’alto Sebino erano oggetto di rastrellamenti. Nel mirino erano soprattutto i componenti della 53°Brigata Garibaldi che, tre mesi prima nella valle di Fonteno erano riusciti a dare scacco matto alle truppe nazifasciste. Pare che, per avere un eventuale ostaggio da utilizzare come elemento di scambio, i partigiani avessero catturato Lauro Cassiolari un giovane milite della «Tagliamento» che si stava recando in località Lui di Sovere per far visita ai nonni. La scomparsa di Cassiolari mandò su tutte le furie le camicie nere e i loro alleati: i nazifascisti chiesero l’immediata restituzione del giovane sequestrato e, contestualmente, minacciarono di bruciare l’intero paese.

La conferma che non si trattava solo di un’azione intimidatoria venne data dall’allora parroco don Giovanni Valsecchi. L’8 dicembre, festa dell’Immacolata Concezione, il sacerdote si rivolse ai fedeli presenti alla Messa delle 6 del mattino per avvisarli che la «Mess’alta», quella delle 11, sarebbe stata anticipata di un’ora, ma soprattutto per sollecitarli a mettere in salvo tutto ciò che potevano e a essere pronti a fuggire non appena fossero giunte le squadre incaricate di mettere il paese a ferro e fuoco. Al termine della «Messa prima », Teresina Zanni, moglie del capitano Francesco Pergolini, si recò in sacrestia e chiese a don Valsecchi se fosse il caso di fare intervenire il marito che in quel momento si trovava all’Ilva di Lovere per preparare le paghe degli operai. Il parroco acconsentì. Teresina chiamò dunque Francesco dal telefono pubblico e questi rientrò in bicicletta. Vestì la divisa da capitano e, accompagnato da Italo (il figlio maggiore, n.d.r.) riuscì a farsi ricevere dal Comando tedesco. Le parole esatte che l’eroico capitano soverese scambiò con i vertici tedeschi restano segrete; è certo che, in cambio della salvezza di Sovere, Francesco Pergolini assicurò, dando in garanzia la propria vita, che fatti come quello accaduto ai danni del milite Cassiolari non si sarebbero più verificati. E poi, dopo l’atto eroico, il capitano tornò a Lovere pedalando per otto chilometri e si rimise alla scrivania a lavorare alle paghe degli operai perché, com’ebbe modo di riferire più tardi, «le loro famiglie ne avevano bisogno».

In una sua ricerca, lo storico locale Matteo Alborghetti ricordava che al quartier generale tedesco di Villa Venturi, vicino all’attuale municipio, erano già stati immagazzinati bidoni di benzina, nei pilastri del ponte sul torrente Borlezza erano stati praticati dei buchi per inserirvi l’esplosivo e in alcuni angoli strategici del paese erano state accatastate fascine di legno, per essere incendiate. A ricordarlo nel 2004 c’era ancora Santina Baglio che abitava vicino al filatoio del paese, al momento dell’intervista su L’Eco di Bergamo novantaquatrenne: «Quando il parroco invitò tutti a tornare a casa a raccogliere le poche cose che si poteva - racconta Santina - e per fuggire, mi nascosi con due dei tre figli e rimasi ore con gli occhi fissi sulla strada e con il cuore in gola in attesa che qualcuno venisse a bruciare il paese». A un certo punto però Santina decise di andare a riprendere una figlia che aveva lasciato dai genitori e fu allora che, dalle chiacchiere della gente, capì che era accaduto qualcosa di importante. I bisbigli lasciarono presto posto al normale tono di voce finché, sicuri della buona notizia, alcune donne andarono sul ponte del Borlezza per urlare che, grazie al «capitano», il pericolo era passato, che si poteva stare tranquilli. Da allora, ogni 8 dicembre, Santina Baglio fino alla morte non ha mai fatto mancare i suoi personali ringraziamenti al capitano eroico. Dal 1965, anno della scomparsa di Franco Pergolini, Santina chiamava la figlia di Francesco, Luciana. E Santina aggiungeva sempre in tono perentorio «Mi chiedo cosa aspettino ancora ad intitolargli una via». Ancora oggi, ogni 8 dicembre questo eroe viene ricordato dagli abitanti di Sovere.

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