E se i ricordi fossero la somma dei sorrisi?

Quando si perde una persona cara ci può mancare l’equilibrio. Anzi, deve. Rielaborare i ricordi, ognuno con il proprio linguaggio, contribuisce a ricominciare. Mario Notangelo ci racconta il suo percorso fatto di vignette

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Si chiama Mario Notangelo e disegna vignette di satira politica per il «Fatto quotidiano» dal 2009. Pubblica una vignetta al giorno ed è spesso al centro di polemiche per i suoi disegni. All’indomani della morte della madre rivolge le armi dell’ironia verso se stesso e inizia a pubblicare un diario a fumetti per ripercorrere i momenti della sua vita con la mamma e la famiglia. Mario non ha figli, non è sposato e questo è un cruccio per la signora Rita (tenete presente questo dettaglio). L’esigenza di raccontare e la scelta di farlo con le vignette partono, come dice l’autore, da una delle domande filosofiche più ricorrenti: «Se un albero cade nel folto di una foresta dove non c’è nessuno che può ascoltare, la sua caduta produce rumore?». Ovvero se nessuno sa che è morta la mamma, il significato del suo essere vissuta evapora? È giusto e sano esporre al pubblico una cosa privata come il lutto, oppure è una forma di esibizionismo social? E poi è giusto usare un fumetto umoristico per affrontare il lutto? Dapprima l’autore si era deciso per il no, ricordare portava alla luce troppa sofferenza, era meglio tacere e dimenticare. Ma poi questa scelta gli lasciava rabbia e frustrazione: «Mi sono sentito solo, nel profondo di una foresta, a piangere per la caduta di un albero che nessun altro al mondo aveva notato».

Poi i lettori hanno cominciato a condividere con lui i loro ricordi e ha capito che il raccontare ci salva e che il lutto non è una foresta isolata, che nessuno è solo o forse lo siamo tutti insieme e che se davvero moriamo in silenzio come quell’albero caduto, allora è bello che ci sia qualcuno a raccontarne il rumore. Disegna, vuole raccontare, prova a condividere il suo dolore, una tavola alla volta. Dal racconto emergono frammenti che viaggiano avanti e indietro nel tempo, un racconto dolce e doloroso, intimo e quotidiano che, senza rinunciare al sarcasmo e alla lucidità, analizza la perdita e la mancanza. «Non c’è niente di più comico dell’infelicità» scriveva Samuel Beckett e Natangelo lo dimostra nel suo «Cenere. Appunti da un lutto» nelle cui pagine trasforma la sua infelicità in una spietata e tragica poesia portando alla luce la verità che «davvero il riso è la migliore cura per un cuore che sanguina».

Nella prefazione al libro Erri de Luca accosta il racconto illustrato di Natangelo al lutto vissuto con sua madre: «Anche io ho sognato mia madre viva e le dicevo di averla sognata morta. Il peggio del sogno era il sollievo di trovarla seduta al suo solito posto. Al risveglio l’inganno era agghiacciante». De Luca accenna al decorso precipitoso della malattia della madre, l’avanzata del nemico interno al corpo della madre, la sua spudorata verità non mitigabile da nessuna bugia pietosa: «si sradica l’albero della vita e al suo posto si forma il vuoto di una voragine». De Luca sottolinea i momenti della chiusura dell’adorato corpo sigillato nel legno, deposto nel furgone e l’urna che l’autore ha posato sulla mensola. Lui non l’ha conservata, ma l’ha svuotata nel campo e sopra ci ha piantato l’arbusto della margherita. Il giorno della morte della mamma la vignetta sul Fatto Quotidiano e è rimasta bianca. «Mamma si sarebbe arrabbiata a vedere lo spazio bianco in pagina al posto della mia vignetta. Non mi ha mai dato tregua. Non si indulge nella debolezza. Va bene cadere, ma non rimanere a terra».

Gli fanno eco gli umori dolenti di Natangelo: «Rimanere a terra quando cadi è così riposante, mamma. Ma tu mi dicevi Muori solo quando chiudi gli occhi». I ricordi si riavvolgono: «mamma è nuda, solo un lenzuolo le copre il corpo e le lascia scoperte le braccia nelle quali entrano mille tubi. I vestiti glieli hanno tagliati via, come se non dovessero servirle più. Questa cosa l’avrà fatta incavolare e poi l’avrà terrorizzata. Come me, mamma odiava che le si dicesse cosa fare e tagliarle i vestiti significava “tu ora ti metti qui e muori” e lei non voleva». «È uno scandalo il modo in cui mi stanno trattando Mario, ma io glielo ho detto … che mio figlio lavora al Fatto Quotidiano. Glielo ho detto!». Poi quando proprio la mamma non ce la faceva più, Mario che fino a quel momento non aveva voluto sentir parlare di famiglia, ha giocato il “jolly”: «Mammetta, non vuoi conoscere i figli che un giorno (fra molti anni) avrò? Dici sempre che saranno bellissimi come me quando ero piccolo… Se muori poi non li vedi!». Poi è morta lo stesso. «Tutto è passato e la sera, quando rientro a casa, c’è silenzio e non c’è più nessuno intorno, te lo racconto ad alta voce come se fossi lì con me. Perché da quando non ci sei più ho imparato tante cose: oltre a cos’è il trigesimo, ora so che non si smette di parlare con qualcuno, vivo o morto, solo perché non c’è più nelle nostre vite. Ora ti parlo come quando eri viva e lo faccio perché esistiamo nei gesti e abitiamo nelle abitudini. E mi addolora che ti sia persa tutta questa storia mamma».

Dopo la morte vengono i giorni della sistemazione degli oggetti rimasti attorno al vuoto. «Quando una persona che hai amato molto sparisce e la mancanza ti toglie l’aria, finisci per cercarla nei ricordi che ha lasciato dietro di sé. Una scatola di lettere, una fotografia, tra le cose che sono rimaste in giro, come se fosse solo andata nell’altra stanza». Così si fa con chi rimane. Una speleologia del cuore. Un carotaggio del dolore. «Ti rendi conto? – Ricorda l’anziano padre - Conservava tutto tua madre, anche le cose più minime. I biglietti del bus di quanto venivo da lei in licenza durante il militare del 1976». Un biglietto, non è solo un biglietto, è la nostra vita insieme.

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