Al fianco dei vivi, per non dimenticare

Ci sono molti modi per ricordare i propri cari. A Valsecca, in alta Valle Imagna, la morte fa meno paura, il cimitero ha il cancello sempre aperto e si può persino entrare in pigiama.

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San Gerolamo, il chierico dalla lingua tagliente e il cuore combattuto tra classicità e modernità (la sua ovviamente) raccontava delle gite devote la domenica mattina presso le tombe dei martiri, le catacombe, che fungevano da cimitero per tutti i fedeli: «Entravamo nelle gallerie, scavate nelle viscere della terra. Rare luci provenienti dal sopratterra attenuavano un poco le tenebre. Si procedeva adagio, un passo dietro l’altro completamente avvolto nel buio».

Se a qualcuno di noi sembra la descrizione di un giorno festivo cupo, per secoli ha avuto invece una funzione consolatoria. Era davvero rivoluzionario nei primi secoli del Cristianesimo credere in un Dio che promette alle anime dei giusti la vita eterna e a tutti la resurrezione dei corpi nel giorno del giudizio finale e apriva una prospettiva straordinaria verso la vota eterna rispetto alla visione più modesta della morte promossa dal paganesimo (e oggi dalla secolarizzazione). E proprio per attendere la risurrezione della carne, i cristiani disposero che i corpi dei defunti non andavano bruciati o distrutti, ma posti pietosamente a dormire più vicino possibile alle reliquie dei martiri, testimoni di fede fino al sacrificio della vita, e ai luoghi di culto, le chiese. Per lunghi secoli cimitero e città, spazio per seppellire e spazio dell’abitare sono stati a fianco attorno al luogo di culto. Anche quando arrivò Napoleone a dividere la città dei vivi da quella dei morti, molti paesini rurali o montani continuarono a seppellire i morti vicino alla chiesa, a poca distanza delle case.

Ho citato l’episodio di San Gerolamo, che forse è più conosciuto per la storiella del leone a cui avrebbe tolto la spina dal piede che per il fatto di essere Padre e Dottore della Chiesa, per contestualizzare la dolcezza del contributo che ci ha scritto Luca Betelli che vive in valle Imagna e che ha voluto rispondere a modo suo alla provocazione che ci giunge dal fenomeno che sta venendo avanti della scelta della «cremazione diretta», ovvero dalla cancellazione di ogni ritualità dalla morte alla cremazione e all’inumazione.

«In un paesino di montagna, Valsecca, alta Valle Imagna, la morte fa parte della vita, ancora. Non la si nasconde, la si vive. Il cimitero di fianco alla chiesa è sempre aperto, di giorno e di notte, senza orari e limitazioni. Il cancello non ha serratura. È dove i vivi trovano i cari che li hanno preceduti. Chi ci va in pigiama e le pantofole ai piedi, chi passando con il fucile a tracolla e il cane al guinzaglio. Prima della Messa, di ritorno dal lavoro, prima di salire alla Passada, iniziando la giornata per un ciao al figlio, al padre, al nonno, all’amica. E nel giorno del funerale di chi qui è nato e vissuto, il paese è presente, sì tutto. Si prende feria per il funerale, si rimandano gli appuntamenti, ci si ferma. E alla chiesa si va a piedi, percorrendo per l’ultima volta la strada che parte da casa. Sul cimitero svetta e veglia la Cima Quarenghi del Resegone. E non è nostalgia di Heidi o di don Camillo, no, è vita vera di gente semplice. Nel suo pellegrinare nella Diocesi, il Vescovo Francesco più volte si è dichiarato sorpreso dalla ricchezza delle piccole parrocchie, con particolare riferimento alle montane. Forse la vita, ecco, sì, forse la vita che in sé ha la morte. E l’aria, il freddo, la luce, il fuoco, la terra e l’acqua viva. Ecco, sì, forse la vita, che sa che la morte non è l’ultima parola. Se la guardiamo, se la sappiamo».

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