Mongol Rally 2009 / Bergamo Città
Giovedì 27 Agosto 2009
La volata in Mongolia
A caccia dell'arrivo
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VENERDI' 21 LUGLIO
È il giorno della partenza da Khovd per la prima tappa solitaria verso Ulaanbaatar. Solitaria perché Tugsuu rinuncia ad accompagnarmi. Lo scopro quando lo invito a sistemare il suo zaino sulla Panda. Fa niente. La sera precedente, mentre scrivevo al computer in auto, un motociclista aveva montato una tenda vicino alla mia Panda. Lo conosco la mattina, si chiama Erdem, è un turco che vive da sei anni a Los Angeles e sta realizzando il giro del mondo con una Suzuki V-Strom 1.000 (sito blog.erdemyucel.com). America settentrionale, trasporto in Europa e dall'Inghilterra volata verso l'Asia con una rapidissima incursione in Italia, si ricorda Trieste. È in viaggio da quattro mesi, fisicamente ha qualche ammaccatura a una gamba a causa di una caduta e prevede in un mese di raggiungere la Corea del Sud. Gankhuyag e sua moglie Bayant, che tiene in braccio Odkhuu, il figlio di sette mesi, mi salutano con calore. Si sono fatti in quattro per noi nei due giorni trascorsi a Khovd. Punto l'obiettivo sul quadretto familiare davanti alla yurta (in Mongolia si definisce gher, ma sono affezionato alla parola kighiza) utilizzata come punto di ristoro e cucina e Bayant, ottima cuoca, mi dice che è la seconda volta che la costruiscono: la struttura di legno, ricoperta di feltro, è smontabile, la prima volta l'avevano allestita per il matrimonio nelle montagne circostanti. La yurta classica prevede un unico ambiente con i letti disposti lungo il perimetro circolare e il focolare centrale. Quando giovedì sera mi ero infilato nella yurta per dormire avevo rivisto con sorpresa i componenti di due team italiani, i «Watajo» e i «Never say Panda», che avevano trascorso soltanto qualche ora di riposo al campeggio e avevano deciso di continuare. Ebbene, sono dovuti rientrare mestamente a Khovd: sospensioni saltate per i «Watajo» bolognesi e probabile rottura della pompa della benzina per i «Never say Panda» bolognesi, trainati da un camion. La Mongolia si sta rivelando terribile per le auto che sono già logorate. Berta, un'inglese vulcanica e robusta, si è capottata con la Skoda all'ingresso nel Paese, ma miracolosamente non si è ferita, mentre ad Altai c'è stato un incidente frontale tra un camion e un team inglese e un concorrente è ricoverato in ospedale con la schiena a pezzi. Il panorama diventa monotono, nulla a che vedere con lo spettacolo da Olgii e Khovd. Sono entrato nella regione del deserto dei Gobi che non è sabbioso come si pensa, ma prevalentante roccioso. Le dune sabbiose costituiscono soltanto il 3% del deserto e sono più a sud. Qui la strada corre piatta in una valle molto larga con montagne basse in lontananza, il terreno è sassoso con alcune aree coperte da arbusti e un po' di verde. L'attacco del gps funziona e non funziona, ma perlomeno constato che perdersi è molto difficile visto che non ci sono deviazioni verso insediamenti umani fuori rotta, ogni tanto si vede una yurta bianca che sembra un'abitazione extraterrestre in un panorama lunare. Meno di un abitante per chilometro quadrato, ma non ci si sente soli perché ogni tanto transitano mezzi di trasporto. C'è uno sterrato principale che corre verso est-sud-est, verso Ulaanbaatar, e controllo ogni tanto la bussola sull'orologio soltanto per sicurezza. La direzione è una sola però ci sono molte piste parallele. Il problema è che lo sterrato principale è battuto dai camion che creano cunette trasversali, cosicchè si balla in continuazione. È un incedere quasi insopportabile, si deve ridurre di molto la velocità, ed ecco perché esistono le piste alternative: sono più strette ma più scorrevoli. È divertente cercarsi la propria rotta, senza però allontanarsi troppo dalla strada principale. Mi fermo per prestare una pinza a un motociclista mongolo. Mi imbatto anche nei due motociclisti inglesi del Mongol Rally. Lui è volato in terra, sta bene ma ha distrutto il manubrio, lei lo rincuora. Vedo carcasse di animali, cavalli allo stato brado e i cammelli, tanti cammelli. Il cielo si rannuvola, cadono di gocce di acqua. Incredibile: durante il viaggio è piovuto soltanto in Iran e ora quasi c'è la replica nel deserto del Gobi! Ma il tempo tiene. Freno, c'è una yurta con parabola satellitare (ne vedrò molte, questa è la prima e mi sorprende) e pannello solare. Un giovane mi saluta, scambiamo qualche parola e qualche gesto, lui è fiero della sua Honda 125 e io della mia Panda. La giornata sembra scorrere placidamente, invece nascono le complicazioni. Sento uno strano rumore, controllo e vedo che la marmitta sta vacillando, spero che resista fino ad Altai e invece dopo un'oretta il patatrac: il tubo cromato di scarico si è infilato addirittura sotto il paraurti. Lo stacco e lo sistemo nell'abitacolo. La Panda sembra un trattore, ma va. E' quasi il tramonto, mi fermo per una fotografia, purtroppo l'obiettivo Sigma 17-70 della mia Nikon D200 si è bloccato, funziona soltanto da 35 a 50 mm, è saltato il grandangolo, così per scattare una foto panoramica devo allontanarmi molto dalla scena. Sta scendendo il buio, sono a 30 km da Altai, dopo una curva ecco tre grossi sassi disposti scientificamente sulla strada: non riesco a evitarne uno che rompe il cerchione anteriore destro e lo pneumatico si sgonfia subito. Per fortuna nessun danno ulteriore. Corsa contro il tempo per cambiare la ruota, il terreno è cedevole e il crik non è stabile, però in un quarto d'ora me la cavo. Purtroppo con il buio non posso avventurarmi in strade alternative e in quest'ultimo tratto le cunette sono terribili. Arrivo stanco e sporco ad Altai dopo 435 km e dodici ore al volante. Mi catapulto nel primo hotel, mi lamento per il costo esagerato, inoltre sono solo e devo pagare una doppia, ma non ho la forza di cercare una sistemazione più economica. Scarico gomme e tanica dal tetto per sicurezza, mangio in camera due toast con le sottilette, doccia di fortuna con un boiler cinese, vorrei scrivere un po', ma mi addormento esausto.
SABATO 22 AGOSTO
Non sembra la giornata ideale. Mi alzo e fuori piove, il cielo è plumbeo. Pensando che c'è un fiume da guadare, sono abbastanza preoccupato. Vado subito da un meccanico convenzionato con il Mongol Rally e per fortuna sono il primo. In dieci minuti arrivano un team inglese con problemi alla guarnizione della testata e un team svedese con un gattino adottato (il nome? Gengis) e con un cerchione distrutto. Sul ponte di lavoro c'è la Panda del team bolognese «Arditi» con il telaio che è stato sistemato e nel capannone giacciono cinque auto del Mongol Rally che hanno alzato bandiera bianca. Il tubo di scarico viene saldato al resto della marmitta, il gommista ripara gratuitamente il cerchione, così alle 10,30 sono di nuovo sulla strada. I nuvoloni si sono diradati. Ancora le maledette cunette, imbocco una pista a destra che attraversa bucolici rilievi con vegetazione erbacea, mi sposto ancora più a destra, dribblo l'ennesimo gregge di pecore e capre, fondamentali per il sostentamento della scarsissima popolazione del deserto, e infine vedo che la pista si riduce sempre di più. Il sospetto s'avvera: alla sommità di un «panettone» una yurta solitaria con la pista che si esaurisce. Stavolta sono effettivamente fuori strada. Dietro front, per fortuna è un errore di qualche chilometro. Decido di non spostarmi più troppo dallo sterrato principale e, in caso di moltiplicarsi di piste, di mantenere sempre una posizione centrale. Stop, c'è il «Datteam» inglese in panne. Era proprio l'auto in colonna dietro la Panda «senzafreni» durante le 22 ore di attesa al confine tra Russia e Mongolia ed ero salito sulla Fiesta dei due londinesi per cinquanta metri per entrare nell'area di confine mongola (era vietato accedervi a piedi e «Jack» era già dentro con la Panda). Sono ko probabilmente a causa della pompa della benzina e stanno attendendo soccorsi. Davanti a me c'è una jeep russa, decido di guidare sulle sue tracce. Dopo un po' si ferma, scende un vecchietto con un cappello da cowboy, mi offre una sigaretta e tira fuori una bottiglia di vodka. Io rifiuto cortesemente, ma la situazione si ripete mezz'ora dopo e non posso esimermi dal bere un goccetto. Un team svedese perde del liquido vicino alla gomma posteriore destra, forse è olio dei freni. Per un po' non vedo nessuno, né team, né camion, né pulmini, temo di essermi perso di nuovo, nonostante la bussola indichi sempre est, invece è un falso allarme. Vedo le nuvole di polvere prodotte dai camion in lontananza e arrivo in un mini villaggio. Si sale, c'è da superare una montagna, l'altimetro dice due mila metri, la pista è una trappola. Ma non dura molto, si ridiscende e davanti a me c'è una vallata sconfinata, una steppa punteggiata da cespuglietti. Percorro circa 100 km a quasi 80 all'ora sulla pista piatta, tra il nulla, tanto che quasi m'addormento. Quattro yurte in croce, da una esce un uomo e mi capire a gesti che dopo un chilometro c'è il fiume che avrei dovuto guadare, l'acqua è alta, ma esiste un punto in cui può passare anche una Panda senza affondare. Mi consegna a un giovane in moto, sulla quale salgono anche due bambine, e il trio si lancia verso il fiume dribblando buche e camion. Il giovane entra a piedi nudi nel fiume e mi mostra la traiettoria giusta. La Panda si fa il bagnetto e riemerge incolume, credo che l'acqua non fosse più alta di mezzo metro. Maggiori insidie più avanti, quando la pista penetra nel deserto sabbioso e un paio di volte rischio di insabbiarmi. Giornata molto positiva, prima del buio sono a Bayankhongor: 389 km in 10 ore. Davanti a un meccanico vedo i due team milanesi «Carface» e «Yes weekend», quelli che hanno le auto comprate in provincia di Bergamo, a Zogno e Dossena. Alla jeep Suzuki non funzionano più le marce normali, va a rilento con le ridotte, mentre alla Panda è saltata la cinghia dell'alternatore, ma anche la piccola Fiat cammina ancora. Con loro c'è uno spagnolo, Juan, che come me viaggia da solo: ha una Kia scassatissima, eppure non si arrende. Ceniamo tutti insieme nel ristorante dell'alberghetto. Intenderci con la cameriera è arduo, è inutile persino fare il verso della pecora e della mucca. Niente carne, ci consoliamo con quattro uova ciascuno. È una serata allegra, la stanchezza è in un angolo. Tramite sms (il gsm funziona nelle città, mentre nelle aree sperdute il cellulare è muto) sono stato informato che non è possibile spostare il volo e allora non ho alternative: devo condensare due tappe in una saltando la visita a Karakorum, l'antica capitale ai tempi dell'impero mongolo di Gengis Khan. Non c'è problema, sono carico, la Panda è ok: domenica sarò a Ulaanbaatar.
DOMENICA 23 AGOSTO
È il grande giorno. Sono fiducioso, devo percorrere ancora circa 600 km, e soltanto i primi 200 sono sterrati, ma nello stesso tempo ho l'incubo di un'intoppo imprevisto che potrebbe vanificare più di un mese di fatica. Partenza alle 7,15. Sono super prudente e, dopo una foto a un paesaggio western, decido di concentrarmi sull'obiettivo Ulaanbaatar. Mi innervosisco perché il terreno è ancora accidentato e penso di aver deviato eccessivamente dalla pista principale, invece la direzione è giusta e, quando vedo che lo sterrato si sviluppa su una carreggiata rialzata, ho un sospiro di sollievo. Cinquanta km con punte di 80 all'ora. Ma c'è ancora da soffrire, la pista ridiventa un tormento, si sale fino a 2.100 metri e ci sono vertiginosi saliscendi. Devo stare molto attento perché non esistono direzioni di marcia, si va dove si preferisce e, quasi alla sommità di ogni montagnetta, c'è sempre la possibilità di scontrarsi con un mezzo che viene dalla direzione contraria e che è impossibile scorgere. Ad Arvaikheer ecco finalmente l'asfalto e la Mongolia improvvisamente si trasforma da una landa affascinante ma desolata in un Paese «normale». Ci sono case all'occidentale, accanto alle yurte che peraltro resistono ancora, e verdi praterie, in cui pascolano mucche, pecore e capre, i cavalli si rinfrescano in minuscoli stagni e in cui però sono sempre in azione i rapaci che sorprendo mentre stanno divorando con inaudita ferocia un povero cammello morto, come se mi volessero ricordare che siamo sempre in una terra selvaggia. Mi fermo in una yurta per regalare le ultime magliette atalantine donatemi dalla Onis e penne, dentrifrici, spazzolini e sapone liquido dell'Hotel Città dei Mille. La strada d'asfalto s'interrompe, c'è un pezzo di 30 km di sterrato infame. Tremo, ma alle 18 il sogno di materializza: Ulaanbaatar. Non mi resta che volare alla finish line. Sapevo che era vicino al cinema e teatro Tengis. Ci arrivo, ma non vedo nulla. Sulla strada c'è un dipartimento di polizia, domando a una decina di agenti dov'è la finish line, ma nessuno sa rispondermi. In giro non c'è un'auto del Mongol Rally e non ne avevo incrociata nessuna durante la giornata. Mi sembra una situazione irreale, pazzesca. Non avranno già sbaraccato? Un poliziotto mi passa al telefono Nyamaa, una mongola che parla l'italiano ed è titolare di un'agenzia di viaggi, nemmeno lei sa nulla, ma si offre di aiutarmi e mi dice che posso dormire nella sua guesthouse. Ci diamo appuntamento e decidiamo di passare ancora dal Tengis. La finish line, che non avevo incredibilmente visto prima, è proprio lì, sul retro. Sospirone di sollievo. Così alle 20,04, dopo 37 giorni di raid e 13.614 km, come ho già raccontato, posso davvero scrivere un felice «the end» sull'avventura.
Marco Sanfilippo
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Verso Ulaanbaatar