«Io sono Leche»
Bergamasca incanta Trento

«Mi guardo, ma è attraverso gli altri che mi vedo. Ecco cosa sono: io sono Leche». Antonella Vecchi è semplicemente questo: occhi azzurri grandi e impazienti, un sorriso che illumina quel faccino sbarazzino mentre attorno a lei si raccontano stoffe e maglie che avvolgono.

«Mi guardo, ma è attraverso gli altri che mi vedo. Ecco cosa sono: io sono Leche». Antonella Vecchi è semplicemente questo: occhi azzurri grandi e impazienti, un sorriso che illumina quel faccino sbarazzino mentre attorno a lei si raccontano stoffe e maglie che avvolgono. Leche è questa: una che ha fatto «un percorso lungo e complicato - dice di se stessa -, una che ha lasciato una sartoria a Bergamo per seguire l’amore a Trento, una che in questa nuova città assapora il suo freddo pungente e gira in bicicletta felice».

È felice Antonella, con i suoi abiti in felpa e cachemire, i suoi pantaloni morbidi, i suoi cappotti in cui immergersi: «Immergersi nei colori, nelle fantasie, in tessuti da esplorare». Maglia, felpa, lana, seta e cotone elasticizzato, per una prima collezione che la bergamasca ha anticipato a Verona alla Fiera dell’Handmade con un successo inaspettato: «Da qui un nuovo percorso: da gennaio il suo marchio Leche diventerà un sito web dove fare e-commerce, un laboratorio-atelier a Trento e un viaggio in giro per l’Italia». Per trovare punti vendita di nicchia e ricerca dove raccontarsi: «A Bergamo sarò da “Flamingo” in piazza Pontida, nella mia città gioco in casa, e con Facebook resto in contatto con vecchi amici e vecchie clienti».

Perchè Leche non è una novellina: il progetto era nato nel 2006 in una sartoria aperta in via Broseta con Barbara Fratus: «Due anni insieme in cui Barbara mi ha dato molto: mi ha insegnato ad ascoltare il mio istinto, abbandonando i tecnicismi appresi dalla mia famiglia di esperte sarte. Mi ha aiutato a seguire il mio approccio artistico e impulsivo del creare». Poi Barbara sceglie di fare la mamma full time e Antonella prosegue: «Lavoravo tantissimo, ma sempre in solitudine, sempre chiusa in sartoria, ore e ore a cucire e inventare, ma senza più stimoli, senza più passione. Ero prosciugata». E anche se il lavoro andava a gonfie vele «none ra questo che volevo per la mia vita: ho chiuso tutto e ho seguito il cuore, riscoprendo me stessa e una nuova città».

Antonella arriva a Trento e, piano piano, un giorno per caso riprende in mano ago e filo. «Capita con naturalezza: si accarezzano tessuti e si cercano nuove suggestioni. Mi sono appropriata dei miei sogni, mi sono rimessa in gioco, ma responsabilmente». E non si tratta affatto di un gioco: «A 33 anni sono consapevole dei rischi, della necessità di trasferire la passione in impegno. E ci provi, ti arrabbi, ci riprovi e non ci dormi la notte per la paura».

Di vincerla questa scommessa con se stessa. Percè Leche non ha fronzoli: «Istintiva, senza pace e senza pazienza, con carta modelli in continua evoluzione». Capo dopo capo, sfogliando il suo animo: «Sviscerando emozioni e riscoprendo chi sono attraverso questi abiti». Che sono comodi, femminili ma non leziosi, architettonici ma anche divertenti. Con un sorriso in più: «Forse non dovrei dirlo, ma la verità è che sono miope e perennemente in giro senza occhiali - ride -. Finisce che vado a spasso e quelle forme poco nitide che mi catturano mi raccontano suggestioni, mi ispirano nuovi modelli». Per tradurre in movimento, in fili e fantasie «la persona che sono e quelle donne che si vestono con me - aggiunge -. Credo molto in questo, nelle emozioni che vivo». Proprio perchè ha fatto una scelta: «Lavorare con passione e responsabilità, ma vivendo questa attività in maniera sartoriale, curando i dettagli e riuscendo a scrivere la mia storia». Più matura e personale. Più onesta con se stessa: «Non voglio restare chiusa da mattina a sera a cucire senza ispirazioni, appiattita dagli orari e dalla solitudine: voglio mettere il naso fuori dall’atelier, voglio assaporare momenti di vita». Ed eccola Leche e i suoi occhi, i suoi biglietti da visita che altro non sono sacchettini con una Galatina da sgranocchiare. Tornando un po’ bambini e immergendosi nel suo sogno. Ma lei avverte: «Quello che indossiamo è quello che siamo. Alla fine il mio sogno, è anche il tuo».

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