Missione Bergamo / Bergamo Città
Giovedì 23 Novembre 2023
Per una vita più sobria
Il Covid ha cambiato il nostro stile di vita. E ora è tempo di ripensare il nostro modello di crescita. Per un futuro più sobrio e responsabile.
NON LIMITARTI A LEGGERE
PROGETTA CON NOI LA PROVINCIA CHE VORRESTI ABITARE
Oggi ci siamo interrogati su come i bergamaschi guardano il futuro e se immaginano la “qualità della vita” (cui ogni comunità aspira) come determinata da un’idea di bene comune oppure da esigenze particolari, funzionali.
Chiediamo anche a te: Cosa è per te la vita buona? La vita buona deve essere perfetta?
Vogliamo conoscere le tue idee, per costruire insieme a te una “missione” per il territorio bergamasco. Tutte le proposte e le visioni che riceveremo verranno analizzate e commentate dagli esperti, dagli studiosi e dalle personalità più rilevanti che stiamo coinvolgendo su queste pagine.
Puoi scrivere all’indirizzo qui sotto. Puoi anche partecipare al sondaggio sugli argomenti di Missione Bergamo ogni giovedì mattina nella trasmissione «Colazione con Radio Alta».
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L’ESPERIENZA DEL COVID PER LA NOSTRA COMUNITA’
Quando è scoppiato il Covid, devo ammettere che l’avevo sottovalutato, non mi pareva una cosa così grave. Dopo ho dovuto ricredermi, in realtà era molto grave, ma posso dire che non ho mai dubitato che il Covid fosse un problema per la Bergamasca, e neanche per l’Italia. Mai.
Anche perché l’esperienza boliviana prima e l’esperienza con gli africani ora mi dicono che le uniche cose devastanti sono quelle non che nascono dalla natura, ma dall’uomo: quelle diventano veramente distruttive. La natura non è in grado di distruggere: fa del male, colpisce, ferisce, ma non cambia il corso della storia, se non in casi eccezionali; ma è sempre l’uomo che può davvero determinare un cambiamento.
Perciò: proviamo a dire cosa abbia cambiato la pandemia. La pandemia secondo me non ha cambiato nulla. Semplicemente ha fatto venire a galla quello che era già presente, magari in modo nascosto, latente.
Io mi limito a sottolineare alcune cose. Io sono bergamasco, da molte generazioni. Ma ho capito bene cosa vuol dire “essere bergamasco” in Bolivia. Perché lì la differenza col popolo boliviano mi ha fatto capire chi ero io e chi erano anche quelli che erano giù con me. Ho trovato preti e laici eccezionali, uomini e donne incredibili. E mi son detto: se i bergamaschi, almeno in parte, sono così, non bisogna aver paura di niente.
Per cui a me il Covid non ha fatto paura. Sapevo che era una cosa dolorosa, una cosa che ci avrebbe fatto soffrire, ma il fatto di far soffrire non vuol dire che ti mette in crisi, ma che purifica e fa venire a galla quello che c’è.
Cosa ha fatto venire a galla?
Primo: la qualità del popolo bergamasco. È stato colpito durissimamente, ma ha saputo reagire in un modo che ha stupito tutto il mondo. Vedere quei camion che portavano via le bare non è stata una cosa da niente. Altri ci avrebbero ricamato su per molto tempo. Noi siamo stati piuttosto cuciti su queste cose. Mi è piaciuto moltissimo che non siamo andati nei giorni del lockdown sui balconi a battere le pentole o a cantare. Mi è piaciuto molto questo. Mi è piaciuto molto che da noi quella fase infame («andrà tutto bene») sia stata detta poco. Sì, si può far dire ai bambini, ma un adulto non può dirla.
La crisi è crisi, la sofferenza è sofferenza e va vissuta con serietà. La prima cosa che mi ha fatto capire è perciò la qualità del popolo bergamasco. E ne sono stato lieto.
La seconda cosa è capitata a me: uno dei nostri, più bravo di tutti, don Fausto Resmini, purtroppo è morto. Io mi sono ammalato di Covid e sono sopravvissuto, ma ho visto morire i miei compagni in stanza, per cui mi dicevo: toccherà anche a me.
Il Covid invece per me è stato provvidenziale, l’ho ringraziato. Mi dicevo: ma perché non sono preparato a morire? L’età ce l’ho, perché non ho tenuto in conto il fatto che io debba terminare? Adesso devo cambiare.
Io dopo il Covid sono cambiato, sono diventato una persona più seria, più decisa, più determinata, più felice, perché so che devo morire, perché so che ho ricuperato la mia condizione di uomo, non vivo più nelle fantasie. E ringrazio il Covid per questo, anche se è stata dura come lezione, ma sono le lezioni dure quelle che servono. E non ho mai dubitato che il popolo di Bergamo, la città e la sua gente, che ho conosciuto, valorizzato, stimato, di cui sono contento di far parte, ce l’avrebbe fatta a reagire e a ripartire.
Mi hanno amareggiato i No-vax, che sono secondo me una deriva della maniera un po’ irreale di vivere dell’uomo d’oggi. L’uomo d’oggi vive in gran parte in un mondo non reale, e quelli non hanno capito dove erano. Io ho fatto tutti i vaccini possibili, ma cosa mi importa; anche perché vivendo in mezzo alla gente non potevo diventare portatore di pericolo per loro, responsabilmente dovevo farlo e basta.
Terzo: La cosa più interessante è stata la reazione di tutti: dagli alpini alle istituzioni pubbliche, alla sanità. Io non metto sotto accusa la sanità. Trovo che sia stato crudele e ingiusto accusarla. Puoi dare la colpa a un medico di non sapere di una cosa nuova arrivata all’improvviso? Queste accuse post factum sono tutte gratuite e sono piuttosto cattive, non me le aspettavo. Non si può incolpare una sanità, che ha dato un grosso contributo, ha pagato in modo serio la pandemia; i medici e i infermieri hanno pagato, ci hanno assistito, non ci hanno mollato un momento, e io di questo sono grato.
Quarto: una presa di visione della realtà ci voleva. Un ridimensionamento delle pretese ci voleva. Noto che attualmente la scienza ha preso il posto che avevano prima i preti, i preti adesso li hanno stangati, stanno zitti e via. Ora la scienza fa come i preti di una volta, dogmatici al massimo. Bene, anche loro si sono presi una bella ridimensionata. Perché non l’hanno previsto il Covid? Mica sono onnipotenti! Solo Uno, se uno ci crede, è onnipotente.
Quinto. Non sono uno studioso, però seguo molto la gente, parlo molto con le persone, sono dentro nei problemi. Moltissima gente viene da me e dice: «ha cominciato ad andare male questa cosa, poi quest’altra, poi quest’altra ancora…», io lo chiamo effetto domino. In pochi anni abbiamo assistito a livello planetario a un effetto domino: pandemia, guerre, la ribellione della natura e le bollette che sono esplose. Sembrerebbero tutte cose differenti, ma credo che ci sia tra loro una relazione che ci dice che quando le crisi si succedono a tempi così ravvicinati, significa che un modello è in crisi e va rivisto. Quando una persona viene a dirmi: «mi è capitato questo, poi questo, poi questo», le rispondo: «devi cambiare tu».
Analogamente il modello occidentale va rivisto. Quando sono rientrato un po’ di anni fa dalla Bolivia, la cosa che mi ha stupito ritornando in Italia è che noi viviamo in un mondo non reale. E la stessa impressione è confermata adesso quando considero la vita degli africani che ospitiamo al Patronato. La realtà non è quella che noi viviamo ogni giorno. E occorre, se vogliamo bene alle persone, riportarle nella realtà. Cioè noi abbiamo creato un livello di vita a cui forse non abbiamo neanche diritto. Ci hanno detto tutti che abbiamo diritto a quel livello, ce lo dicono i politici, ma poi la storia ci rimette al nostro posto.
E allora il problema vero per me e per la Bergamasca attuale, oltre che affrontare il futuro, che è necessario, è quello di vedere se in passato non abbiamo sbagliato a concepire il nostro modello di sviluppo. E se non dobbiamo in qualche modo collocarci un po’ più in basso, per ripartire dal livello giusto.
IL COVID E LA CHIESA BERGAMASCA
Un ultimo appunto sulle conseguenze della pandemia. Secondo me -io non parlo a nome della Chiesa di Bergamo, parlo a nome puramente personale- la Chiesa di Bergamo ne è uscita con le ossa rotte. Perché?
Non perché abbia sbagliato qualcosa. Paradossalmente chi ha messo in crisi la Chiesa di Bergamo non è la pandemia, ma le misure messe in atto per combattere la pandemia. Io sono stato in una Chiesa poverissima come quella boliviana, che vive enormi difficoltà. Ho studiato la storia: la Chiesa è passata attraverso persecuzioni, le pandemie le ha viste tutte. Ha fatto degli sbagli enormi. Ma due cose di cui la Chiesa non può fare a meno, il contatto con la gente e il culto, durante i lockdown gliele hanno tolte.
Il contatto con la gente. Le religioni vivono di contatto personale. Quando i musulmani pregano insieme, devono toccarsi con il gomito l’uno con l’altro. Pregando, devono toccare terra, così sulla fronte hanno un bollo, perché a forza di toccare per terra si crea un callo. Contatto con la terra, con la realtà. Contatto con gli altri.
Se nel periodo migliore dell’anno per la Chiesa che è la Quaresima e la Pasqua, le togli tutto, tutto deve essere da remoto, rischia di non esserci più la Chiesa. Succede che la gente continua sì a credere in Dio, ma in un modo virtuale, cioè non reale. E lo conferma il fatto che il post-pandemia ha visto quasi ovunque un dimezzamento delle presenze in chiesa. Se si perde il contatto con la gente è a rischio la sopravvivenza della comunità.
E in secondo luogo il contatto con Dio passa attraverso il culto, non c’è niente da fare, non passa solo attraverso la carità. Ricordiamo quel prete che è stato interrotto dai carabinieri, poveretto, perché dicevano che non poteva celebrare, ma lui ha fatto quello che doveva. Io non ho mai smesso di celebrare: da solo, ma celebravo.
Non basta la carità, non basta la cura della persona, non basta raccogliere i soldi per i poveri, è troppo poco. Il contatto, la Chiesa vive del contatto con la gente, vive del contatto con la storia e con la natura, vive del contatto con Dio. Se si perde questo contatto è finita.
Il Papa ha detto che la Chiesa è un «ospedale a campo»: io con tutto il bene che gli voglio, dico: se è solo un ospedale, per la Chiesa è finita. La Chiesa deve curare per mandar fuori dall’ospedale e per far vivere la gente nel mondo.
Al Patronato abbiamo accolto non solo stranieri, anche italiani, alcuni dei quali avevano reciso tutti i contatti coi parenti, con la società, ed erano finiti per strada, li accogliamo noi. Abbiamo scoperto che l’opera meritoria di dare a uno una casa, toglierlo dalla strada, è insufficiente e può rivelarsi alla lunga pericolosa. Se tu non ricostruisci tutti i contatti e se non li restituisci alla vita normale, tendono a considerare il Patronato la loro casa, si aspettano molto da noi, ci fanno sostitutivi di tutti i rapporti ed è la fine. Per cui abbiamo deciso di portarli fuori, in appartamenti, ci è costato un sacco, ma permette loro di rientrare nella convivenza comune.
Se la Chiesa è ospedale, lo deve essere per poco tempo, per restituire le persone all’unica cosa che serve: alla vita comune, quella delle famiglie, quella dei contatti, quella dei quartieri, quella del lavoro, quella dello studio, quella della storia, della quotidianità, della Chiesa.
LA “VITA BUONA”: COSA E’?
Uno degli obiettivi di Missione Bergamo è capire che cosa è oggi per i bergamaschi la “vita buona”. È un termine che oggi va un po’ per la maggiore, è una bella parola, ma dice tutto e non dice niente. Cosa vuol dire la vita buona? Ognuno la coniuga come vuole lui. C’è un’etica di fondo che però non può essere omnicomprensiva. Vita buona cos’è?
Mi permetto di dire quello che ho capito in tutti questi anni, ma credo che valga anche per chi progetta la città futura. Per me sono tre cose.
Primo, il contatto profondo con la realtà. C’è troppa fantasia nei nostri progetti, c’è troppa ideologia. Il contatto profondo con la realtà, con la gente. I preti che sono in contatto con la gente, riescono a tenere.
Gli esperti servono perché ci illuminano, ma è la gente che ci salva, il contatto con le persone. Io ho imparato a valorizzare moltissimo le persone in Bolivia, vedere questi boliviani, che noi giudicavamo un po’ così, che riuscivano a tirare nonostante tante condizioni spaventose. E vale per gli africani adesso. Che valore aggiunto! La Chiesa deve abbeverarsi continuamente alla gente normale. Mentre noi tendiamo a insegnare alla gente come si fa. Invece bisogna imparare quotidianamente da loro e non perdere mai di vista il contatto con loro, mai. E con la storia, e con la realtà, star dentro nella realtà.
Secondo: la serietà. La seconda cosa che ho imparato è che in una società pluralista come la nostra, liberale come la nostra, è riconosciuto a ognuno il diritto di fare quello che vuole. Dire a uno: «questo è sbagliato, questo è giusto», non serve. La Chiesa può anche dirti «non si fa così», però se lo Stato legittimamente riconosce una cosa, l’importante è che tu sappia chi sei e che tu faccia fino in fondo ciò di cui sei convinto.
Io credo che ai preti (parlo della Chiesa, ma vale anche per altri ambiti) si chieda solo che vivano secondo quello che dicono di fare. Non si limitino a proporlo agli altri, ma lo vivano in prima persona.
Io ho fatto il curato, nell’oratorio, poi missionario, il parroco, e adesso sono al Patronato. L’esperienza da parroco, che è durata 15 anni, mi è sembrata una vacanza prolungata, mi è sembrato tutto così bello, così facile, perché la gente è buona, ma veramente buona. Faccio un esempio. Sono 13 anni che io accolgo diseredati senza ricevere nessun contributo pubblico, sono 300 persone da mantenere, non ho mai avuto problemi. La gente buona di Bergamo mi ha sempre aiutato. Se lo Stato avesse dovuto pagarmi, avrebbe dovuto darmi 45 milioni di euro: non ho ricevuto niente.
Devi essere ciò che dici. La vita buona è quello . Io dico ai musulmani: siete musulmani? Siatelo! Seri, però.
Terzo: il futuro . Nei dibattiti televisivi tutti dicono: prima della pandemia il Pil era così, le retribuzioni erano cosà, prima, prima, …. Il modello è il passato e tutti tendono a ritornare a quel modello come se ciò che è avvenuto -ripeto: pandemia, guerre, disastri naturali, bollette- fosse stato niente. No, no. Il modello è il futuro.
Si deve progettare qualcosa che permetta, dopo questa esperienza, di affrontare il futuro in modo migliore. Bisogna puntare di più sul futuro. Cioè sui giovani, bambini, ragazzi, ma… il futuro non c’è. L’Italia è in declino demografico e io sostengo che Dio è stato buono, mandandoci gli africani, che sono tutti giovani, perché il nostro futuro sono loro.
Dopo la pandemia il problema dell’immigrato è scomparso. Gli imprenditori hanno fatto la fila da noi a chiederci il personale, perché a differenza degli italiani i neri accettano qualsiasi condizione. Risultato? Tutti sono stati bene, tutti hanno il permesso di soggiorno, tutti hanno il contratto di lavoro e tutti stanno costruendo il loro futuro. Non tutto è male, ciò che viene per l’uomo. Basta cogliere le opportunità.
Perché la storia non segue le logiche che noi vorremmo. Ha dei percorsi misteriosi. Basta saperli intercettare e alcune volte arrivi dove non immaginavi. Però non bisogna mai perdere il contatto con la realtà e bisogna imparare da tutti.
Chi mi ha formato, sono stati i bergamaschi, mio padre, mia madre, la cultura bergamasca e la ringrazio, e la Chiesa, e la scuola, e lo Stato italiano. Ma chi mi ha insegnato le cose più innovative sono stati i boliviani e adesso gli africani: perché seguono percorsi che non sono i nostri e ti spingono in territori nei quali tu scopri qualcosa che non sapevi che esistesse. E loro lo sanno bene. E il risultato è arrivato.
La vita è molto più forte della programmazione che si vorrebbe fare sulla vita. Perché la vita, per un credente viene da Dio. E la natura, l’uomo non riuscirà a distruggerla, non avendola creata. Uno non può distruggere ciò che non ha creato, la rovinerà, ma non la distrugge. E neanche Putin ci riuscirà con tutte le sue bombe. Perché ciò che esiste, è nato dal bene, misteriosamente lo segue anche quando sembra che succeda tutto in un modo diverso o contrario.
Basta solo avere occhi per vedere e un po’ di intuito, e lasciarci guidare anche dalle persone che di solito noi non prendiamo mai in considerazione.
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