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Venerdì 22 Novembre 2024
Lo slalom tra vita, casa e lavoro
Le famiglie stanno cambiando. E, non solo all’interno di esse, cambiano i ruoli, della donna soprattutto. Tra figli e carriera, quale è il ruolo delle mamme che lavorano? Come aiutarle? Come sostenere le fragilità dei giovani? Queste e altre domande sono state fatte nel corso dell’indagine sociologica voluta da L’Eco e Università di Bergamo. Oggi vi presentiamo i risultati delle interviste realizzate sul territorio sul tema della trasformazione che le famiglie bergamasche stanno attraversando.
Non c’entra essere in uno dei territori più industrializzati e ricchi a livello europeo. Le disuguaglianze – in primis economiche – sono aumentate evidenziando le cresciute difficoltà soprattutto per le famiglie monogenitoriali, quelle numerose e quelle immigrate e, in generale, quelle già con basso reddito, nonostante un relativo incremento di ricchezza in altri segmenti della popolazione.
Non ce lo hanno raccontato solo le persone intervistate che direttamente si interfacciano con la fragilità delle famiglie, ovvero assistenti sociali, operatori delle Caritas, assessori alle Politiche sociali dei Comuni, ma anche chi incrocia le difficoltà delle famiglie riflesse nell’incontro con i più giovani, per esempio nelle attività sportive, in oratorio o a scuola.
Complice l’aumento del fenomeno del «lavoro povero», che spesso impatta sui percorsi delle donne, e inevitabilmente sulle loro famiglie, e il ritiro delle donne dal mercato del lavoro per l’impossibilità di gestire le esigenze di cura a fronte della scarsa rete di supporto formale e informale, molte famiglie bergamasche si ritrovano maggiormente esposte al rischio povertà più di un tempo.
«Spesso è un solo genitore che lavora ed è un po’ questo il motivo per cui si rivolgono ai Centri di ascolto. La fatica di dover fare i conti con un reddito non sufficiente o precario. C’è una fetta di fami- glie che hanno proprio difficoltà. E il genitore che lavora ha difficoltà a tenere il posto di lavoro o a trovare quello successivo», ci racconta un’operatrice della Caritas.
Le fratture sociali si rispecchiano in una disuguaglianza nell’accesso alla opportunità educative e di istruzione, di supporto, di cura anche medica. Tutto ciò non riguarda solo le famiglie di origine straniera, che in realtà spesso possono contare su reti comunitarie informali più forti.
«Le famiglie più che permissive sono iperprotettive e non lasciano vivere alcuna esperienza, hanno molta paura della socialità odierna. La storia dello straniero, del diverso, del problema droga, del delinquente per strada. Queste cose le affronti a livello di comunità. Se pensi di risolverle da solo come famiglia è difficile. Se io voglio una comunità migliore devo uscire come coppia e lavorare per costruirla». (Membro Associazione genitori)
Le disuguaglianze di genere
Dal punto di vista delle differenze di genere, le disuguaglianze impattano diversamente. Se da un lato le donne, e in particolare le madri lavoratrici, nella maggior parte dei casi si ritrovano sulle spalle la quasi totalità del compito di cura, al punto di rinunciare al lavoro, i padri non sono ancora legittimati pienamente nel duplice ruolo di lavoratore padre. Si tratta di una questione culturale ancora diffusa nella società italiana in cui persiste una visione tradizionalista della distribuzione dei compiti per la sopravvivenza del nucleo domestico, con la cura assegnata alle donne e il sostentamento economico primariamente agli uomini, e che legittima l’uscita dal mercato del lavoro delle donne e le mancate opportunità per i lavoratori padri, anche a livello di politiche.
Questa disuguaglianza di genere nel lavoro torna anche in altre forme. Nei casi di separazione porta talvolta i padri separati a importanti difficoltà economiche dovute ai legittimi obblighi di mantenimento. Le madri con scarsa autonomia economica si ritrovano più vincolate nel sopportare conflitti e persino situazioni rischiose per la difficoltà di trovare soluzioni alternative economicamente sostenibili.
«Più che non sentirsi sicuri è che sei circondato da un ambiente che continuamente solletica la pruderie, la via violenta. La famiglia è sempre stata intesa come luogo di protezione sociale..., ma la famiglia non vive protetta, non ha attorno a sé delle protezioni. È immersa nella realtà. E oggi in un ambiente che offre una cultura violenta, prepotente, arrogante». (Parroco)
Tra i 59 testimoni privilegiati intervistati, molti hanno suggerito di leggere l’aumento della conflittualità interna alle famiglie, sia nella coppia sia tra genitori e figli, alla luce del crescente clima culturale e mediatico a cui siamo tutti esposti in cui il conflitto è stato sdoganato come elemento della quotidianità relazionale. Quindi non solo quello legato a situazioni di guerra, ma alla polarizzazione astiosa che costantemente si respira in molti talkshow, nei social media, nel dibattito pubblico, nelle relazioni tra istituzioni.
«Vedo molto che comandano i figli, anche i più piccoli o di qualsiasi età, una volta non era così. Ora pendono dalle labbra dei figli, vedo che fanno fatica, in qualsiasi cosa... “Mah, vediamo se gli piace, vediamo se lo fa, vediamo se...”. Una volta dicevano: “No, lo fa, piaccia o no, perché è importante, rispecchia dei valori e lo fa”». (Sacerdote)
Il rischio di chiudersi su sé stessi
Paradossalmente però, una dimensione conflittuale se vogliamo più «educativa», come è stata definita da uno degli intervistati, legata all’espressione delle regole in casa e dei famosi «no» che aiutano a crescere, viene denunciata come sempre più rara.
Come ci spiega un medico: «Il problema è che l’evitare di dire dei no, evitare di essere il genitore che ti dà una guida, alcune regole fondamentali di educazione, ti porta poi a fare un po’ tutto da te, come adolescente. E se poi non arrivi ad ottenere quello che vuoi, ecco la depressione perché, tu ragazzo, pensi di non essere all’altezza, di non soddisfare le esigenze della società o anche della famiglia. E per questo un sacco di ragazzi ricorre allo psicologo, il numero è aumentato tantissimo negli ultimi 4-5 anni».
In altre parole, quando abbiamo chiesto agli intervistati se per loro la famiglia rappresentasse ancora un luogo di protezione, la risposta non è stata univocamente quella dell’identificazione della famiglia come «porto sicuro» in cui crescere, confrontarsi e confortarsi rispetto all’esperienza che si vive al di fuori della famiglia.
«A lungo abbiamo pensato che proteggere i figli volesse dire “una volta che sono a casa sono al sicuro”. Oggi con la tecnologia anche nella tranquillità della tua cameretta, accedi ad una serie di contenuti potenzialmente pericolosi. È necessario che il mondo adulto sia capace di regolare la costruzione di alcuni processi, ma che in generale famiglie, comunità, società, decisori recuperino un po’ il valore educativo. Anche dentro i contesti tecnologici, perché non necessariamente sono così distruttivi, ma possono diventare anche delle grosse opportunità». (Educatore)
«Il conflitto in famiglia è anche occasione di crescita. Almeno io vedo che se lo si affronta come strumento per risolvere le situazioni, crea crescita, unione, cementa le relazioni. A volte può anche invece succedere che si spacchino, in percentuali molto basse. Se non si affronta con il dialogo, ma con uno scontro e ognuno è convinto di avere sempre e solo ragione lui, è la fine...È scomparsa la mediazione tra le posizioni». (Membro associazione genitori)
Ma questa percezione di conflitto di pericolo, di rischio, con cui viene visto il mondo esterno, porta ad una chiusura, una sorta di iperprotezione del nucleo domestico, in particolare dei figli.
«Abbiamo un alto numero di autolesionisti, con il Covid sono aumentati. E poi i genitori che non si accorgono... Ci accorgiamo noi che si tagliano, anche nelle gambe. Poi quando vengono a saperlo, i genitori a volte crollano. E chiedono aiuto. Ecco, se in passato lo Spazio ascolto era soprattutto per i ragazzi, ora cominciamo ad avere genitori che chiedono di collaborare». (Psicologa, servizio scolastico)
Rifuggendo dal rischio di disattendere le loro aspettative (introiettate da modelli del mondo esterno), nella speranza di limitare delusioni e sofferenze, i nostri intervistati ci raccontano di situazioni in cui spesso i genitori non guidano più attraverso l’esempio e con autorevolezza.
«Ci sono anche tante famiglie in gamba. Devo dire che ne abbiamo molte e quando abbiamo fatto dei consigli straordinari, per casi di bullismo, abbiamo detto loro che qui dobbiamo lavorare insieme per la riuscita scolastica, didattica ma anche relazionale. E allora i genitori capiscono anche che noi questi ragazzi ce li abbiamo a scuola, forse, cinque anni, ma voi li avete per tutta la vita». (Psicologa)
Il rischio però è quello che il porto diventi così eccessivamente sicuro che impedisca alle barche ormeggiate di uscire al largo (e poi rientrare), perché l’autonomia raggiunta è solo illusoria e lascia i più giovani nell’incertezza.
Infine, sempre parlando di giovani, i nostri intervistati hanno sottolineato l’aumento della solitudine dei ragazzi e delle ragazze, soprattutto dopo la pandemia. Accanto al crescere di casi di bullismo e cyberbullismo, aumenta il malessere dei più giovani, un fenomeno che chiede a gran voce una crescente attenzione e collaborazione delle agenzie educative e delle istituzioni.
«Facciamo spesso interventi su ragazzi per il cyberbullismo. Devo anche dire che molti collaborano e ci sono famiglie in gamba. No, la famiglia non è tutta un disastro. Abbiamo famiglie che con noi studiano delle cose da fare, ad esempio un blocco al telefono. Alle 20.30 si blocca il telefono, non si può più usare. Invece ce ne sono altre che sono solo in difesa: “I figli sono sempre bravi, anche se non studia- no, etc.”». (Psicologa, servizio scolastico)
Parola a Stefania Leone
Abbiamo parlato del tema del cambiamento dello stile educativo e delle sue implicazioni per il percorso di autonomia dei giovani con la professoressa Stefania Leone, ordinaria di Sociologia generale presso l’Università di Salerno e direttrice dell’Osservatorio Giovani dell’Università di Salerno.
Prof.ssa, lei ha svolto molti studi sulla questione giovanile in Italia. Quali sono gli elementi più importanti per favorire i percorsi di autonomia di ragazze e ragazzi?
«Autonomia e indipendenza rappresentano categorie fondamentali negli studi sui giovani e, parallelamente, nelle politiche giovanili ormai dagli anni ‘80, ovvero da quando le ricerche italiane – dell’Istituto Iard, prima, dell’Osservatorio Toniolo, fino ad oggi, e di altri centri di studio (come l’Osservatorio Giovani Unisa) – segnalano un ritardo importante nei tempi di transizione dalla giovinezza all’età adulta. A partire dai limiti di modelli familiari spesso sbilanciati tra una smisurata protezione di genitori dedicati e, nei casi opposti, una distanza o assenza con delega a figure adulte sostitutive (es. tutor scolastico privato o collaboratore familiare, psicologo, coach sportivo, etc.), la riflessione alla base delle politiche degli ultimi decenni evidenzia la necessità di coinvolgimento dei giovani in processi attivi e partecipativi importanti per allargare le loro esperienze di vita. Le traiettorie quotidiane limitate alle sfere della famiglia, della scuola/università e, al più, dello sport rischiano di chiudere i giovani in percorsi di crescita spesso individualizzati, competitivi, eterodiretti e estranei a logiche di responsabilità individuale e sociale che richiedono capacità di autodeterminazione e, in una visione universalista, di contributo alla vita pubblica. Riguardo a quest’ultima, coltivare l’autonomia richiede apertura e accessibilità dei giovani a spazi pubblici capa- ci di essere da loro percepiti e usati come luoghi di espressione, di condivisione di pratiche e di riflessione tra pari e con tutti i diversi adulti di riferimento, ciascuno per il proprio ruolo, in una prospettiva di coordinamento e continuità tra le sfere di vita».
Qual è il ruolo della famiglia in questi percorsi?
«Nel contesto italiano i giovani riconoscono da sempre un ruolo centrale alla famiglia, confermato nelle ricerche attuali anche in condizioni di grande trasformazione dei modelli familiari, di forte riduzione di tempi e pratiche di vita comune e di cambiamento nella relazione genitori-figli con il ripensamento dei rapporti intergenerazionali oppositivi e il ritrovamento di equilibri relazionali reciproci. Nel provvedere alla mancata indipendenza economica e abitativa dei figli, anche legata al ritardo nell’ingresso nel mondo del lavoro - ma non soltanto - la famiglia del “modello mediterraneo” rallenta l’uscita di casa dei figli, estende la copertura e la protezione, maggiormente se giustificata da motivi di studio, e riceve in cambio il vantaggio del prolungare una convivenza rassicurante in relazione all’interesse a rinviare la solitudine del nido vuoto. Questi tratti hanno portato a definire già da più di un decennio un modello culturale di famiglia intesa come ancora capace di ridurre l’ansia per il futuro e come istituzione che si conserva degna di fiducia nella percezione dei giovani, più di tutte le altre (la scuola, lo Stato e le istituzioni locali, la politica, etc.). D’altra parte, questa fiducia conferisce alla famiglia un potere che, usato nel recupero di una relazione cooperativa, si rivela determinante ove il ruolo educativo viene esercitato nel riconoscimento reciproco, nella conoscenza del diverso portato generazionale, nella disposizione degli adulti al nuovo e all’empowerment dei giovani, in sintesi in un’educazione alla responsabilità della scelta anche delle traiettorie di vita».
Che impatto ha avuto la pandemia su questi aspetti?
«Ha certamente fatto da detonatore di fragilità preesistenti dei giovani, già osservate come debolezza nei processi di autodeterminazione. La demotivazione ad attivarsi nel cercare percorsi di formazione o lavoro per la realizzazione personale aveva evidenziato ben prima del Covid-19 percentuali allarmanti di neet ovvero giovani con vite sospese, rinviate, precarie anche sul piano esistenziale oltre che su quello formativo-lavorativo. Esempi simili quali il fenomeno degli hikikomori e l’aumento di forme di malessere giovanile espresse come disagio sociale e relazionale erano già ampiamente tematizzati prima della pandemia. Tuttavia è evidente a tutti, e in parti- colare a chi lavora con i giovani e agli operatori nei vari ambiti della salute e del benessere, che il distanziamento sociale costretto dalla pandemia ha prodotto incrementi significativi delle problematiche a riguardo, riflessi nella moltiplicazione del valore degli indicatori relativi al ricorso terapeutico in età giovanile. In questo scenario, la pandemia ha acceso un faro potente, ex post, sulle forme di isolamento domestico e sui problemi della trasposizione delle relazioni e delle esperienze di vita negli ambienti digitali come alternativi all’incontro e alle pratiche face to face. Unico merito, a corollario, è che dall’aumento di queste difficoltà emergono nuovi interrogativi e ricerche orientate alla formazione dell’identità personale e sociale e, dunque, alle possibilità di recupero delle relazioni familiari, delle connessioni scuola-famiglia-mondi di esperienza e delle reti sociali allargate a forme partecipative attive».
Non limitarti a leggere
Sui temi del lavoro come della famiglia, della vita religiosa e della partecipazione politica in queste settimane è in corso in Bergamasca una grande indagine sociologica, voluta da L’Eco di Bergamo e in collaborazione con i sociologi dell’Università di Bergamo. Per capire come e quanto siamo cambiati negli ultimi anni.
Per questo i collaboratori de L’Eco stanno realizzando tante interviste, incontrando testimoni della vita delle nostre comunità. Accompagniamo l’indagine con diversi contributi, ospitando sulle pagine e sul sito de L’Eco pareri, domande e riflessioni. Insieme al contributo di chi, bergamasco, oggi vive e lavora all’estero.
Ma soprattutto chiediamo anche a te di comunicarci il tuo pensiero. Vogliamo conoscere le tue idee, per costruire insieme a te una “missione” per il territorio bergamasco. Puoi scrivere a: [email protected]
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