Lavoro: sempre più centrale è il diritto al tempo

Il lavoro è una delle tante cose per cui i bergamaschi sono conosciuti in tutto il mondo. Un rapporto che, però, sta subendo un’evoluzione, soprattutto dopo la pandemia del 2020. Non c’è solo lo stipendio, ma benessere personale e bilanciamento tra vita privata e professionale sono gli elementi che stanno rapidamente prendendo piede. Ecco i risultati dell’indagine sociologica condotta nella nostra provincia, promossa da L’Eco di Bergamo in collaborazione con i sociologi dell’Università di Bergamo.

Negli ultimi anni, Bergamo, provincia con una radicata cultura industriale, ha visto una trasformazione significativa della cultura del lavoro. Le piccole e medie imprese, un tempo basate su pragmatismo e dedizione, hanno dovuto adattarsi all’avanzare delle tecnologie digitali, intelligenza artificiale e automazione, che stanno introducendo nuove modalità operative. Tuttavia, non è solo la tecnologia a spiegare il cambiamento: le nuove generazioni , ma non solo, stanno ridefinendo il rapporto con il lavoro, ripensando le loro priorità, mettendo al centro la famiglia, le passioni personali o il proprio benessere.

«Forse con la pandemia si è riscoperto proprio questo: la voglia anche di vivere i tuoi momenti liberi, in cui puoi fare ciò che ti piace. Non a caso le difficoltà maggiori a reperire personale sono in quelle attività che si svolgono anche di sabato e domenica, dove uno preferisce, ovviamente, dedicarsi alla famiglia e gestire al meglio il proprio tempo libero». (Sindacalista)

Questa tendenza si è accelerata con la pandemia. «Cambia la priorità delle decisioni, per noi imprenditori come per i nostri collaboratori. Dopo il Covid le priorità sono quelle di rispettare i tempi lavoro-famiglia, rispettare i propri interessi extra lavorativi, prestare più attenzione al tema del welfare», ci racconta il proprietario di una piccola impresa del nostro territorio.

Il lavoro a Bergamo ha perso la sua storica centralità e alcune vecchie disuguaglianze, in particolare di genere, riemergono e per certi versi si amplificano, anche e forse soprattutto a causa della crisi pandemica.

«Il lavoro è una cosa importante, però non è più la principale. Le persone cercano per prima cosa di non presenziare la giornata intera (il solito 8-12 e 14-16), perché questo porta via quasi l’intera giornata per fare otto ore. Prima facevano anche straordinari, al sabato lavoravano. Oggi è cambiato il mondo, oggi al sabato la gente sta a casa, si cura della sua famiglia e si gode il tempo libero». (Azienda di servizi)

Dalle nostre interviste ne esce un concetto chiave: tra vita e lavoro si cerca il giusto (e nuovo) equilibrio. Le persone intervistate raccontano che sebbene la sicurezza economica rimanga per loro un elemento cruciale, è sempre più evidente che ciò che cercano è un’esperienza lavorativa capace di valorizzare la loro vita personale e di promuovere un nuovo equilibrio tra lavoro e benessere. Un dirigente di banca non ha dubbi a riguarda e dichiara: «Si ricerca un tempo di qualità che prima non veniva percepito, questo a tutti i livelli, dal dirigente al dipendente. Faccio un esempio: prima della pandemia il prendere un’ora di permesso lo facevi solo se ti stava morendo qualcuno, neanche a volte per una visita medica personale. Però adesso la gente ha capito».

Lo stereotipo culturale del bergamasco interamente dedito al lavoro scricchiola, e per capire il cambiamento, bisogna guardare oltre. «Sicuramente questa è l’esigenza principale: flessibilità e opportunità di poter comunque avere una vita al di fuori dell’azienda. Cosa che prima veniva un pochino snobbata», afferma un imprenditore.

Lo stipendio non è più considerato come criterio unico e principale nella scelta di una carriera, semmai è la flessibilità a diventare una priorità: i giovani, ad esempio, desiderano la possibilità di gestire autonomamente il proprio tempo e lo smart working è una delle soluzioni più richieste.

«Il lavoro non è solo strumento di reddito, ma diventa anche un modo per realizzare delle aspettative. Tantissimi dicono “guarda, vado a fare il lavoro che facevo tanti anni fa, non guadagnavo tanto, ma mi piaceva, e quindi torno lì” o cose simili, poco legate alla performance e al prendere più soldi e invece più legate proprio allo star bene». (Sindacalista)

L’idea di legarsi a un ufficio dalle 9 alle 17 sembra superata è sostituita da una maggiore attenzione al risultato piuttosto che al tempo passato alla scrivania. Questa tendenza evidenzia un importante cambiamento culturale: non si tratta più di sacrificare tutto per il lavoro, ma di trovare una nuova armonia tra vita professionale e personale.

«Le persone, specialmente chi vive in una situazione abbastanza tranquilla dal punto di vista economico (come da noi) danno al lavoro delle priorità diverse. Come posso seguire la mia famiglia? Quanto sono vicino? Quanto posso crescere, viaggiare, formare? Questi aspetti prima erano diversi nelle priorità delle persone». (Dirigente sindacale)

Stiamo assistendo, come direbbe Ronald Inglehart, a una transizione dai valori materialisti, orientati principalmente alla sicurezza economica, verso valori post-materialisti, in cui l’accento è posto su aspetti come la realizzazione personale, il benessere e la ricerca di significato. Un imprenditore agricolo sottolinea che a cambiare è «il modo di approcciarsi al lavoro, perché oggi la risorsa umana è un bene prezioso, vista anche la sua scarsità, e quindi anche l’approccio degli imprenditori è cambiato molto».

L’aumento della sicurezza economica, frutto di decenni di crescita e stabilità, ha permesso a molti, anche grazie al supporto delle generazioni precedenti, di superare le preoccupazioni legate alla sopravvivenza economica. Di conseguenza, l’attenzione si sposta verso una dimensione più qualitativa dell’esperienza lavorativa.

«Le aspettative dei giovani verso il posto di lavoro sono cambiate: oggi lavorano e pensano più in prospettiva. Non si accontentano di sapere cosa faranno nel primo anno di inserimento, ma vogliono capire se c’è un percorso di crescita, professionale che possa portarli in prospettiva ad un ruolo diverso da quello iniziale». (Imprenditore)

L’idea più tradizionale di “vivere per lavorare” lascia il posto all’idea di “lavorare per vivere”, con una maggiore enfasi sul tempo libero. Per le aziende, raccontano le imprenditrici e gli imprenditori intervistati, comprendere e adattarsi a questa trasformazione è essenziale.

La capacità di offrire un lavoro flessibile e orientato alla crescita personale è decisiva per attrarre e trattenere i migliori talenti. Non si tratta più solo di stipendi competitivi, ma di creare una cultura aziendale capace di dare un senso al lavoro quotidiano. La realizzazione professionale ha, infatti, acquisito un nuovo significato. L’opportunità di sviluppare nuove competenze, di partecipare a percorsi di formazione continua e di trovare un clima sereno e collaborativo sono condizioni organizzative fondamentali nelle aspettative dei lavoratori e delle lavoratrici. Questo si traduce in una maggiore attenzione alla valorizzazione dei propri talenti e vocazioni, e non solo all’accumulo di competenze per progredire economicamente.

«Spesso c’è un po’ un approccio da bergamasco, dove se uno non lavora 15 ore al giorno è un lazzarone, e che i giovani non sono operosi come in passato... È un messaggio, questo, che noi non abbiamo mai portato avanti. Noi siamo molto felici dei ragazzi che abbiamo qui, da prima della pandemia, durante e dopo. Loro cercano qualcosa di diverso, noi siamo disposti a cambiare anche il nostro modo di fare e credo che alla fine questo porti un beneficio ad entrambi. Credo che il cambiamento sia una necessità, non una volontà dal punto di vista dell’azienda». (Imprenditore)

Un tema fondamentale emerge chiaramente dalle parole degli intervistati: la “riscoperta dell’umano” nel mondo del lavoro. Certo, non vale per tutte le realtà del lavoro attuale, ma nelle storie che abbiamo ascoltato il rapporto di lavoro non è più semplicemente transazionale, basato cioè sull’equazione prestazione-stipendio. Si tratta, piuttosto, di una relazione tra persone che condividono obiettivi comuni e collaborano per raggiungerli insieme. La flessibilità, la conciliazione tra vita familiare e lavorativa e il welfare aziendale non sono più percepiti come concessioni, ma come elementi generativi, capaci di migliorare sia il benessere dei dipendenti sia l’efficienza dell’impresa.

Parola a Loredana Sciolla

Abbiamo incontrato Loredana Sciolla, professoressa emerita di Sociologia all’Università di Torino, famosa a livello internazionale per i suoi studi sull’identità sociale e le sue trasformazioni.

«Bergamaschi gran lavoratori» è senza dubbio lo stereotipo più rappresentativo dell’identità orobica. Ma oggi è ancora così? Siamo ancora legati a immagini stereotipate dei bergamaschi e delle bergamasche, nonostante l’attuale cambiamento?

Per rispondere a questo dubbio, partiamo da una premessa, chiedendoci cosa è l’identità. «Possiamo pensare all’identità - spiega Sciolla - come la concezione che ognuno ha di sé stesso, la capacità di auto-riconoscersi, che si struttura in base al riconoscimento da parte degli altri con cui interagiamo. Ciò vale sia per l’identità personale sia per l’identità di un gruppo, in questo caso, ad esempio, l’identità degli italiani. Anche quest’ultima è una costruzione sociale, formata da come la maggioranza della popolazione percepisce sé stessa in rapporto a come viene riconosciuta e percepita dagli altri».

Nel modo in cui ci percepiamo e siamo percepiti, gli stereotipi culturali hanno allora un ruolo fondamentale. Perché? «Riguardano soprattutto il modo in cui ci vedono gli altri - continua la prof.ssa Sciolla - ma si riflettono almeno in parte anche sul modo in cui rappresentiamo noi stessi. È così per tutte le popolazioni, con due differenze per quanto concerne gli italiani. La prima riguarda il fatto che gli stereotipi più diffusi sul nostro conto sono per la maggior parte negativi. Siamo visti soprattutto come un popolo di cinici, individualisti, incuranti del bene pubblico, inclini al clientelismo, troppo attaccati alla mamma e alla famiglia, disorganizzati, chiacchieroni e voltagabbana».

Anche se percepiti in modo positivo, gli stereotipi rischiano di limitare la nostra capacità di riflettere sulla nostra identità sociale, di nascondere altri aspetti importanti. Un esempio è «la creatività, uno stereotipo positivo che ci viene riconosciuto, è perlopiù declinato attraverso l’ambigua “arte di arrangiarsi”. La seconda particolarità consiste nel fatto che, diversamente da quanto avviene per le popolazioni degli altri Paesi, gli italiani tendono a percepirsi e ad autorappresentarsi nello stesso modo negativo con cui sono visti dall’esterno. Questi stereotipi sono generalmente accettati dagli stessi italiani che mostrano di avere un’immagine di sé stessi nient’affatto lusinghiera».

Chiedersi quale sia idea del lavoro tra gli abitanti della nostra provincia, soprattutto dopo l’esperienza che abbiamo vissuto a causa della pandemia da Covid-19, è un modo per guardare oltre agli stereotipi ed evitare il rischio di confinarci in un’immagine limitante di ciò che siamo e possiamo essere. Soprattutto rispetto alle nuove generazioni, che più che mai hanno necessità di confrontarsi con il mondo reale.

L’isolamento forzato, l’indebolirsi delle relazioni sociali reali e l’espandersi delle relazioni digitali hanno portato numerose conseguenze sull’identità e hanno reso più difficoltoso quel riconoscimento reciproco che è alla base di tutti i processi identitari. I “like” sono una forma di sbiadito riconoscimento, dove manca il dialogo e l’argomentazione. L’identità rischia di diventare più solitaria, più debole, più simile alle immagini postate sui social che reclamano un’autenticità che non esiste se non come retorica. Un’identità, che si discosta significativamente dal racconto che abbiamo ascoltato dagli intervistati e dalle intervistate nel corso della ricerca che rivelano un nuovo immaginario bergamasco del lavoro.

Non limitarti a leggere

Sui temi del lavoro come della famiglia, della vita religiosa e della partecipazione politica in queste settimane è in corso in Bergamasca una grande indagine sociologica, voluta da L’Eco di Bergamo e in collaborazione con i sociologi dell’Università di Bergamo. Per capire come e quanto siamo cambiati negli ultimi anni. Per questo i collaboratori de L’Eco stanno realizzando tante interviste, incontrando testimoni della vita delle nostre comunità. Accompagniamo l’indagine con diversi contributi, ospitando sulle pagine e sul sito de L’Eco pareri, domande e riflessioni. Insieme al contributo di chi, bergamasco, oggi vive e lavora all’estero.

Ma soprattutto chiediamo anche a te di comunicarci il tuo pensiero. Vogliamo conoscere le tue idee, per costruire insieme a te una “missione” per il territorio bergamasco. Puoi scrivere a: [email protected]

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