La voce della comunità cristiana bergamasca

Come sta cambiando la vita religiosa nelle nostre comunità? Come sta cercando di muoversi la comunità cristiana bergamasca e, più in generale la Chiesa, nel mondo attuale di oggi? I sociologi dell’Università di Bergamo rileggono le trasformazioni in atto e ci raccontano le sfide del presente e che ci attendono nei risultati della nostra indagine sociologica.

Eccoci al nostro ultimo appuntamento, nel quale anticipiamo i risultati dell’indagine sociologica promossa da «L’Eco» e Università di Bergamo. Il progetto di Missione Bergamo torna nei primi mesi del 2025 per la presentazione completa dell’indagine, condividere le riflessioni sul nostro futuro e per proseguire insieme questo viaggio.

Famiglia, lavoro, senso civico. E ora la vita religiosa. Le sfide del mondo d’oggi I tempi stanno cambiando, cantava Bob Dylan. Le interviste realizzate con testimoni significativi della comunità cristiana bergamasca riportano sia la difficoltà di «stare al passo con i tempi» sia la necessità di essere all’altezza delle sfide della contemporaneità, per rispondere ai bisogni di spiritualità e di senso profondo che ancora caratterizzano il vissuto ma che non trovano più risposta nelle tradizionali forme di partecipazione alla vita religiosa e spirituale. Il legame tra religiosità, ovvero il bisogno umano di trascendenza e di credere, e religione, che altro non è che la manifestazione istituzionale del sacro e del divino, è ciò che contraddistingue la fede cristiana sembra essersi incrinato.

Elisabetta Pedrali, insegnante di religione, ci spiega cosa è la Chiesa per lei e come la relazione è per lei il modo di vivere la Chiesa.

«Buongiorno, sono una cittadina di Palazzolo: sono bresciana e appartengo alla Diocesi di Brescia. Abito, però, sulla sponda bergamasca del fiume, la vecchia Mura. E vorrei condividere la mia riflessione sulla missionarietà della Chiesa locale a partire proprio da questa mia esperienza al confine. Sono una formatrice presso un Centro di formazione per operatori del benessere, informatica e logistica. Il 90% dei miei alunni e alunne non sono di origini italiane. In classe ho un po’ di Africa, soprattutto magrebini, e tanta Albania. Con un pizzico di India e di Romania. I miei studenti sono Sikh, Musulmani, Cattolici, Ortodossi o non credenti, come dicono loro. Sono un’insegnante di religione cattolica. E mamma di una famiglia XXL che accoglie bimbi, donne e ragazzi feriti n ell’anima. Questa mia molteplice appartenenza mi permette di vivere in frontiera, alla periferia. E ciò che lega ed attraversa tutto è la relazione intesa come cura, ascolto, incontro, dialogo. Sono sempre stata curiosa, mi piace conoscere ciò che è diverso da me. Con questo spirito entro in classe e mi appassiono al dialogo interreligioso de facto. I miei due alunni più brillanti sono una ragazza sikh e un giovane musulmano. Vogliono capire, spiegare, sapere, contestare cosa dice la Bibbia, come vive un Cristiano. Gli adolescenti italiani, invece, hanno bisogno di sfogare la rabbia, la delusione, lo smarrimento. Hanno ricevuto i Sacramenti, però ai genitori separati e con nuovi legami non fu permesso ricevere l’Eucarestia durante la loro prima Comunione. Perché? Nei loro sguardi leggo una sete di Amore, intravedo un profondo desiderio di coerenza ed essenzialità. Nelle alunne più grandi trovo la gioia di dare una mano, di rendere più bella la vita altrui con una messa in piega e una manicure fatta come Dio comanda! Ai piccoletti della Logistica appassionano le testimonianze dei volontari che in Caritas o in Croce Rossa donano tempo gratuitamente. E con loro esco dalle mura scolastiche per re-immergermi in parrocchia. Un quartiere, fatto di relazioni, chiacchiere, sorrisi. Ovunque, in questo tempo post pandemia, sento sulla pelle un intenso bisogno di contatto. Si vuole abbandonare lo smartphone per ritornare a fare festa al bar, con l’apericena, o per correre allenandosi per la maratona. La Chiesa in uscita è per me accostare con tatto le persone che ogni giorno incontro fuori dal mio letto. A cerchi concentrici, da mio marito fino alla sconosciuta che incrocio per strada e a cui sorrido. È il tempo della gentilezza. La mia icona è diventata Maria, un’immagine mariana che ho scoperto alla stazione centrale di Milano. Una Madonna semplice, in cammino. E qui arrivo al punto: mi sento parte di una Chiesa che mette al centro Cristo guardandolo con gli occhi di Sua madre. Lo sente nella capriola e nel battito di ali di farfalla nel suo ventre, embrione. Lo nutre e coccola neonato nato fuori da Betlemme. Lo cerca preadolescente mentre sta scoprendo la propria identità e missione. Lo invita a fare il primo miracolo durante un matrimonio. Lo guarda da sotto, ai piedi della Croce. E lo riaccoglie tra le braccia, cadavere. Fino a diventare la Madre della Chiesa nascente. Ecco, per me il mio modo di essere partecipe alla Chiesa del terzo millennio è essere semplicemente donna. Donna sposa, donna mamma, donna lavoratrice. Fieramente donna! Grazie per quest’opportunità di esprimere anche il mio frammento nell’Infinito».

Oggi la Chiesa viene percepita come «una voce tra le altre»: altre religioni, altre forme di spiritualità, altre pratiche rituali, altre parole, altre immagini che convivono nella religiosità contemporanea, in particolare nelle nuove generazioni. Dalle interviste emergono due strategie primarie con cui la comunità cristiana bergamasca (e la Chiesa più in generale) sta cercando di muoversi nel mondo di oggi: la prima riguarda l’enfasi sulle modalità comunicative e la seconda sul coinvolgimento emotivo.

«La Chiesa non dovrebbe aver paura [del cambiamento] ma dire: “Va bene, adesso come lo affronto?” Alla fine provo a ricordarmi che ho davanti delle persone, le accolgo, capisco come poter affrontare le situazioni. Mi viene da dire di non spaventarsi davanti a quello che accade, anche al fatto che le famiglie si trasformano, cambiano, che si presentano così, con i ragazzi che parlano un’altra lingua: non spaventarsi davanti a questo, ma accettare i cambiamenti». (Sacerdote)

Religione: nuove forme e nuovi linguaggi

Sul piano comunicativo, le persone intervistate sottolineano le crescenti difficoltà della religione cattolica di imporsi come riferimento simbolico-valoriale univoco e universale, sia, in termini positivi, per l’affermarsi del dialogo interreligioso, sia, in termini negativi, per l’indebolimento strutturale dei simboli collettivi.

«Il Covid ha aiutato a trovare delle strategie diverse di comunicazione. Secondo me ha aiutato perché con la pandemia ci siamo trovati a dover comunicare in modo diverso con i fedeli. Semplicemente la Santa Messa: io guardavo Bergamo TV con il Vescovo che diceva Messa davanti a 2-3 persone o comunque per la gente perché non si poteva celebrare. Da lì [indica lo smartphone] è nata una sorta di comunicazione attraverso i social che poteva raggiungere più persone. Secondo me ha migliorato questo aspetto perché ci ha aiutato a diventare un po’ più social». (Volontaria)

Emerge l’importanza di esprimere con chiarezza e coerenza l’essenza del messaggio religioso, ma anche di trovare forme e linguaggi in grado di intercettare l’attenzione delle persone (soprattutto dei più giovani). Questo lo si vede anche con la comunicazione istituzionale della Chiesa che ha rinnovato le proprie modalità comunicative tradizionali attingendo ai canali più diffusi nel nostro tempo, i social network, soprattutto dopo il periodo del Covid. Si segnala anche un fiorire di prodotti culturali (ad esempio la serie The Chosen, vista da centinaia di milioni di persone nel mondo) e di app (per la preghiera personale, per il supporto liturgico e molto altro) rivolti alla comunità cristiana, che stanno modificando il rapporto (tradizionalmente diretto e senza mediazioni) tra la Chiesa e i fedeli. Tuttavia, gli esperti di media studies e di comunicazione si stanno tuttora interrogando sull’impatto effettivo che questi dispositivi hanno sui processi identitari e sul coinvolgimento delle persone, soprattutto nel medio e lungo periodo. Sono strumenti che vivono nell’immediatezza dell’esperienza presente e questo può porre non poche difficoltà per un’istituzione come Chiesa, che si confronta con una dottrina e una pratica millenarie.

Per le persone intervistate, la scommessa più importante sembra riguardare la componente emotiva nel rapporto con la popolazione bergamasca. Individualismo, consumismo e un diffuso atteggiamento narcisista contraddistinguono quella che il sociologo inglese Richard Sennett, nel suo ultimo libro, ha definito la società del palcoscenico. Una società, la nostra, in cui è l’appagamento (temporaneo) che deriva dall’essere visti a ripagare (parzialmente) delle fatiche del vivere quotidiano.

Le interviste insistono sulla necessità di costruire legami profondi e duraturi tra le persone se la comunità cristiana vuole continuare a dirsi tale. Come precisa un sacerdote: «La Chiesa oggi deve imparare, noi gente di chiesa, preti compresi, dobbiamo davvero curare molto di più le relazioni. Oggi questo diventa necessario e fondamentale. Possiamo usare i social, sono strumenti utilissimi, ma alla fine è importante curare la relazione con l’individuo, incontrarlo personalmente, fisicamente, non solo attraverso i social. E credo sia importante questo, se la Chiesa non mantiene questo punto decisivo, curare le relazioni, anche il suo celebrare in chiesa perde di significato e di valore. È un po’ la dimensione che ho imparato anche in missione... Curare le relazioni perché da queste relazioni cresca una rete, una rete di partecipazione, di condivisione e serve anche a tirar fuori dalla solitudine tante persone, perché oggi siamo tutti in rete, ma paradossalmente siamo soli».

Legami sostenuti dal coinvolgimento emotivo nell’esperienza quotidiana, mediati dalla figura del sacerdote, sempre più responsabile primario della relazione tra la Chiesa e le comunità territoriali. Non solo ministro della fede, che fonda la propria legittimazione sull’autorevolezza della istituzione religiosa, ma figura capace di sollecitare l’interesse e il coinvolgimento delle comunità, instaurando un dialogo aperto con le persone; in grado di svolgere la missione pastorale e la funzione pedagogica minimizzando quel repertorio normativo proprio del patrimonio secolare della dottrina cristiana, che rischia di essere oggi uno dei principali motivi di allontanamento. Il messaggio è chiaro: la Chiesa del Terzo millennio deve aver cura della relazione con l’altro nel presente e deve saper accogliere la diversità senza paura del cambiamento per tornare a costruire un futuro comune sui valori della fede cristiana. «Vogliamo prenderci cura di tutto, però a volte non ci ricordiamo davvero di quello che vale: cioè, la relazione. Gesù incontrava le persone e le persone seguivano. Gesù si fermava a mangiare con le persone e le persone lo seguivano. Gesù parlava con le persone, che a volte lo seguivano e a volte se ne andavano. Però c’era chiarezza, c’erano proposte. Dovremmo riprendere a fare delle proposte semplici, efficaci, che parlano all’uomo di oggi con gli stessi valori del passato, perché questo non lo possiamo perdere». (Sacerdote)

Molto più facile a dirsi che a farsi, concretamente, ma la sfida è epocale e riguarda il destino stesso dell’Occidente.

Parola a Rita Bichi

Abbiamo chiesto a Rita Bichi, professoressa ordinaria di Sociologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, di aiutarci a capire come la Chiesa e le comunità cristiane stanno affrontando i cambiamenti in corso.

Numerosi studiosi affermano che la nostra società è disincantata e materialista. Quindi il bisogno di trascendenza è morto?

«L’idea di trascendenza, di qualcosa che superi il destino umano, la nostra consapevolezza di essere mortali, questa profonda consapevolezza della propria finitezza che è tipica degli esseri umani, in qualche modo comporta una richiesta di risposta a delle domande di senso, di senso della vita. E questo bisogno esiste ancora oggi. Le domande di senso non sono morte e vengono alla luce soprattutto quando si incontra una persona particolarmente significativa, quando vivi un distacco, quando muore qualcuno dei tuoi cari, quando sei di fronte a una malattia, eccetera. Ci sono dei momenti nella vita in cui ti fermi , c’è una pausa nel fluire della tua vita, ci sono momenti davanti ai quali ti fermi e ti fai domande di senso. Questi momenti ti danno la possibilità di aprirti a cose diverse da quelle della tua quotidianità».

Questo vale anche per le nuove generazioni?

«Queste domande se le fanno anche i giovani. La domanda di senso c’è ancora. Il problema qual è? È che, secondo i giovani, la Chiesa Cattolica non è più in grado di dare le risposte a queste domande. Quindi, banalmente, le cercano altrove. Per esempio, c’è una crescita delle pratiche che provengono dalle religioni orientali. Questo è uno dei motivi, ovviamente. Non è l’unico, ma è uno dei motivi».

Cosa si aspettano le nuove generazioni dalla Chiesa e perché sembra essere così difficile coinvolgerle?

«I giovani vorrebbero essere ascoltati e trovare una Chiesa accogliente. I giovani non accettano più le chiusure della Chiesa sul tema dei diritti, contro qualsiasi cosa che ad esempio riguardi la vita sessuale. Questi temi sono sempre presenti nei discorsi dei giovani, e la vedono come una cosa che non è più accettabile. Anche dalle interviste dei giovani credenti c’è il desiderio di una Chiesa che torni alle radici, che recuperi il messaggio evangelico, cosa che dal loro punto di vista è stata abbandonata. Una Chiesa che si rifaccia, insomma, a ciò che era inizialmente. Mi pare che un richiamo del genere ci sia anche nelle vostre interviste».

Dal vostro osservatorio, come si può affrontare positivamente il cambiamento?

«Dalle nostre ricerche emerge che dove c’è un prete che funziona, i giovani vanno. Cosa vuol dire che un prete funziona? Vuol dire che ascolta i giovani, li ascolta, non li giudica e gli fa fare delle cose, perché i giovani vogliono avere un luogo nel quale ritrovarsi, perché comunque le relazioni per loro sono fondamentali. È vero che passano la maggior parte del tempo online, chiusi nella loro cameretta, eccetera, e questa è una tendenza che è molto più evidente nell’ultima generazione, nella Generazione Alpha che sta crescendo, ma è molto presente anche nella Generazione Z. Le relazioni per loro sono fondamentali in qualsiasi forma si presentino. Con una centralità della famiglia ancora oggi, e soprattutto della figura materna, ma comunque con una grande apertura anche alle figure amicali. Quindi avere un luogo anche fisico dove incontrarsi per loro è importante, però questo luogo deve avere delle caratteristiche, deve essere in grado di attirarli. Dunque, dove c’è un prete che ha questa capacità attrattiva, i giovani ci vanno e seguono. Quanto poi ciò significhi che si sentono appartenenti alla Chiesa Cattolica, è un altro discorso».

Non limitarti a leggere

Sui temi del lavoro come della famiglia, della vita religiosa e della partecipazione politica in queste settimane è in corso in Bergamasca una grande indagine sociologica, voluta da L’Eco di Bergamo e in collaborazione con i sociologi dell’Università di Bergamo. Per capire come e quanto siamo cambiati negli ultimi anni. Per questo i collaboratori de L’Eco stanno realizzando tante interviste, incontrando testimoni della vita delle nostre comunità. Accompagniamo l’indagine con diversi contributi, ospitando sulle pagine e sul sito de L’Eco pareri, domande e riflessioni. Insieme al contributo di chi, bergamasco, oggi vive e lavora all’estero.

Ma soprattutto chiediamo anche a te di comunicarci il tuo pensiero. Vogliamo conoscere le tue idee, per costruire insieme a te una “missione” per il territorio bergamasco. Puoi scrivere a: [email protected]

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