La storia di Omar, volontario in Ruanda:
«Lavoro e gran cuore dei bergamaschi qui convivono»

Numerose le lettere che ci arrivano da chi vive all’estero. Sono contributi che ci fanno comprendere meglio il dna dei bergamaschi.

Bergamo Senza Confini

Questa settimana lo spazio di Missione Bergamo è interamente dedicato ai tanti bergamaschi in giro per il mondo. Parlando di se stessi, raccontano anche di noi, di quello che eravamo e forse ancora siamo.

Quanto ci riconosciamo nelle loro storie? Come ad esempio in quella di Omar, volontario da 15 anni in Ruanda. Si tratta solo di originali eccezioni o in qualche modo sono collegate alla stoffa che ci caratterizza? Sono domande a cui proverà a rispondere anche l’indagine sociologica che L’Eco sta compiendo in questi mesi con l’Università di Bergamo. Per capire meglio chi siamo diventati e dove vogliamo andare.

«Quel legame particolare tra Bergamo e il Ruanda»
Omar, da Kigali (Ruanda)

Alla domanda di dove sei, rispondo in maniera diversa secondo l’occasione. Posso rispondere «sono italiano», se me lo chiedono persone locali. Se invece sono italiani, che incontro qui in Ruanda, dico «sono dell’Atalanta», e la risposta, quasi sempre scontata, è «Ah, Bergamo..., ma Bergum de suta o de sura?» pronunciata in una maniera cannibalizzata che un po’ mi irrita perché la considero come un’offesa al nostro dialetto, e allora rispondo in bergamasco: «Bèrghem de sura o Bèrghem de sòta!»

Ma la loro è solo una maniera simpatica per dire che in realtà conoscono Bergamo e questo fa solo che piacere, e poi inseriscono spesso un bel “pòta” nel discorso.

Mi chiamo Omar Fiordalisio, da oltre 15 anni vivo in Ruanda, un piccolo paese dell’Est Africa, zona dei grandi laghi. Lavoro per l’Ong Movimento per la lotta contro la fame nel mondo (MLFM) di Lodi, di cui sono rappresentante nel Paese e responsabile di un progetto AICS (Agenzia Italiana per la Cooperazione e Sviluppo). Sono originario di Cologno al Serio, nella Bassa Bergamasca.

In Ruanda c’è un pezzo del cuore di Bergamo

Devo fare una piccola premessa circa il rapporto profondo che esiste tra Bergamo e il Ruanda: se nel mondo siamo famosi per la nostra dedizione al lavoro oppure per la grande generosità in campo sociale, qui le troviamo accoppiate.

Menziono Antonia Locatelli (Fuipiano Valle Imagna, 16 novembre 1937 – Nyamata, 10 marzo 1992): fu assassinata dopo aver salvato migliaia di persone e aver successivamente avvisato la stampa internazionale di quello che stava avvenendo e che poi porterà al genocidio del 1994.

Oppure Giuliano Berizzi, assassinato (in circostanze mai chiarite definitivamente) il 6 ottobre 2001, volontario bergamasco di Alzano Lombardo che si occupava dei bambini di strada: in sua memoria è stata fondata l’Associazione Giuliano N’Abana ( in ruandese “Giuliano per i bambini”) che per molti anni ha supportato progetti di sviluppo e anche la nostra Ong.

Ancora ricordo Padre Mario Maria Falconi, della Valle Cavallina: anche lui ha salvato migliaia di persone durante il genocidio del 1994 ed è stato premiato più volte dall’attuale Presidente Ruandese come “Giusto del Ruanda” ricevendo diverse onorificenze.

O ancora Rino Berlendis, classe 1937, alpino di Zogno e «alpino dell’anno 2015», cofondatore della Fondazione Rilima Augere Onlus: da sempre sostiene il Centro Santa Maria di Rilima in Rwanda, che è un ospedale di chirurgia ortopedica e di riabilitazione per bambini, con la Curva Nord dell’Atalanta, che, sempre attraverso Rino, ha promosso negli anni diversi eventi di raccolta fondi e donato decine di migliaia di euro a sostegno del Centro Ortopedico.

Ultima ma non ultima voglio menzionare l’Associazione Missiomundi capitanata da Giovanni Galbiati, per tutti Nanni, e insieme a lui i tanti volontari sparsi in Bergamasca, che dal 1987 hanno contribuito con la loro esperienza in campo elettrico e idrico a realizzare molti progetti di sviluppo nel Paese delle Mille Colline. Proprio con loro anch’io sono arrivato in Ruanda nel 2008, per la costruzione di una linea elettrica MT 30’000 V di 18 chilometri.

Nota bene: Nanni ha già compiuto 96 anni, e tutt’oggi viaggia per portare la sua infinita esperienza, e non si tratta solo di viaggi semplici...: nell’ultimo anno è venuto due volte in Ruanda per andare poi in Repubblica Democratica del Congo, quindi un viaggio di 16/17 ore da Nembo a Kigali, poi un altro volo verso il confine tra Ruanda e il Congo, poi altre ore di fuori strada.

Insomma, se dovessi dire a qualcuno di scrivere un libro d’avventura, direi: scrivete la storia di Nanni, un Uomo con la U maiuscola, esempio di forza e coraggio, oltre che di altruismo!

Sui 4 temi della vostra indagine

Una premessa lunga, ma doverosa, che ci introduce anche ai 4 temi dell’indagine sociale che avete promosso: famiglia, mondo del lavoro, vita religiosa, partecipazione politica.

- La famiglia. Quando delle persone partono per un viaggio o decidono di restare in un Paese in via di sviluppo, per la famiglia (e per sé stessi) è sempre un sacrificio, una preoccupazione, la mancanza di una persona che si sente solo via telefono e nei viaggi di rientro: e quindi anche tutta la famiglia ne è coinvolta. Ma il termine famiglia, non si ferma ai legami di parentela: nella famiglia possono, devono, rientrare anche una cerchia di amicizie che consideriamo tali, ed io in questo mi ritengo molto fortunato: di amici in Italia, a Bergamo, ne ho molti e cerco di incontrarne il più possibile durante i miei rientri annuali.

- Il mondo del lavoro, perché le persone che migrano spesso hanno esperienze lavorative, studi, competenze, da poter mettere al servizio di altri, ma nel caso dei cooperanti, spesso (ma non è scontato) c’è una ulteriore componente emotiva e sociale, quella di lavorare in contesti dove realizzare, come nel mio caso, delle infrastrutture, porta con sé un forte valore aggiunto. Ancora oggi mi emoziono, se faccio un video quando apriamo delle nuove fontane di un acquedotto, mi sentirete singhiozzare, con gli occhi lucidi... spesso dico che smetterò di fare questo lavoro, quando smetterò di emozionarmi per quello che faccio, e tornerò a fare solo delle costruzioni fredde, proprio come il cemento.

- La vita religiosa. Soprattutto quando si tratta di missionari, la spinta è anche religiosa, ciò non toglie che anche molte persone, non consacrate, abbiano una forte motivazione anche di questo tipo, forse deluderò qualcuno, ma non è il mio caso.

- Infine la partecipazione politica, potrebbe sembrare la risposta più difficile, o la più semplice se si sminuisce il senso «principe» della politica dicendo «io non faccio politica!». In realtà, più o meno consci, tutto è politica, non quella dei partiti, ma Politica Sociale, quella che potrebbe farci decidere se restare in Italia/Bergamo o migrare, quella che ci consente di avere un lavoro dignitoso, di curarci se siamo malati, di far studiare i nostri figli, di sostenere o di sopperire a mancanze delle leggi o delle politiche sociali... Che bello sarebbe un mondo dove non ci fosse bisogno di Associazioni, Ong, Fondazioni... sarebbe un mondo dove le politiche sociali già si occupano di tutto.

Purtroppo però non è cosi, e spesso la politica si occupa del proprio giardinetto e di tenerlo il più possibile verde, non guardando molto più in là di questo. E allora non dovremmo nemmeno più essere «Bergamaschi», ma cittadini del mondo, e sperare e credere, essere certi che «un altro mondo è possibile» e fare tutto il possibile per renderlo possibile!

Durante il covid come gli alpini bergamaschi

Durante la pandemia, Bergamo è diventata suo malgrado, la città italiana più menzionata dalle cronache, anche all’estero. I camion militari con le salme li vedevamo anche in Ruanda, notizie come «hanno smesso di suonare le campane a morto» oppure «si sentono solo sirene di ambulanze», le pagine dei necrologi sempre più numerose, le zone di Nembro e Alzano, dove ho molti amici di una certa età, tra le più colpite, i conoscenti morti... Resilienza, una parola quasi sconosciuta, è diventata la parola d’ordine assieme a «Berghem mola mia».

Qui in Ruanda non c’era ancora il virus, ma ci preparavamo, sembrava inevitabile, e cosi è stato. Negli incontri istituzionali, ministeri, distretti, centri sanitari che mi conoscono, sapevano che ero italiano e di Bergamo, e poi la sede della nostra Ong è a Lodi, dove si sono registrati i primi casi, e quindi mi chiedevano di amici e parenti, di come si stava affrontando la pandemia, cosa sarebbe potuto accadere in Ruanda se in un paese sviluppato come l’Italia morivano migliaia di persone, nei PVS cosa sarebbe successo, e infine cosa sarebbe stato dopo.

Quando la pandemia è arrivata anche da noi, ho preso l’esempio degli alpini bergamaschi che in una settimana, tramite centinaia di lavoratori volontari, hanno reso operativo l’Ospedale della fiera, non hanno mollato. In quel momento io stavo lavorando al più grande progetto mai realizzato dalla nostra Ong, un acquedotto di 170 chilometri in una zona rurale, comprendeva 3 Centri Sanitari e 5 piccole strutture sanitarie di base, insieme a 16 scuole. L’urgenza è diventata dare acqua a questi centri che assieme avevano un bacino di utenti di oltre 70.000 persone, senz’acqua e con casi positivi che aumentavano; nelle zone rurali non ci sono terapie intensive o camere isolate, le attrezzature, l’ossigeno, dispositivi di protezione.

Come Ong Movimento per la lotta contro la fame nel mondo abbiamo lanciato immediatamente una raccolta fondi in Italia, ci siamo coordinati con le autorità competenti, ricevuto permessi speciali per poterci muovere nonostante il lockdown. E subito abbiamo studiato e modificato il cronoprogramma del progetto/cantiere, dando la priorità assoluta agli ospedali.

Così reimpostiamo lo studio, diametri e portate delle condotte, veniamo autorizzati dal ministero della Salute del Ruanda e dal Ministero delle Infrastrutture a riaprire il cantiere che nel frattempo era stato fermato, e in due settimane riusciamo a portare acqua anche all’ospedale più lontano, a circa 30 Km dalla stazione di pompaggio.

Mancano però materiali, allora in accordo con MLFM, faccio avanti e dietro dalla capitale alla zona d’intervento del progetto, trasporto DPI negli ospedali, RGB (Rwanda Governance Board) mi contatta per dirmi che ho la priorità nella lista delle vaccinazioni in quanto ritenuto «persona a rischio ed in prima fila», questa era la dicitura, ed il giorno dopo vengo vaccinato.

Passiamo alcune settimane davvero difficili: quando rientro a casa in famiglia, ho una zona di «decontaminazione», una stanza e un bagno staccati che dedichiamo al lavaggio dei panni, cambio abiti, doccia, tutto il possibile per lasciare fuori il virus. Poi piano piano tutto è passato e siamo tornati alla normalità.

Al confine con il Ruanda abbiamo passato i due o tre anni precedenti al Covid con un’altra malattia, anche peggiore per mortalità, l’Ebola. Grazie alle restrizioni messe in atto, non è mai entrata nel Paese delle mille Colline, ma questo ha consentito di avere un piano d’azione qualora si fossero registrati dei casi, e lo stesso piano è stato messo in atto al primo caso confermato di Covid. La cosa che più ci ha stupiti è che un paio di milioni di studenti che si trovavano nei licei e lì dormivano, nel giro di 10 giorni, con tutta la popolazione chiusa in quarantena, sono stati riaccompagnati a casa con pullman pubblici e privati, direttamente dalle scuole a casa senza fare soste per evitare contatti. Una cosa tanto incredibile quanto lodevole.

Anche qui in Ruanda si tifa Atalanta

Ultimo capitolo, soprattutto se parliamo di Bergamo e di bergamaschi, da sempre, ma soprattutto in questo periodo, è l’Atalanta.

Ho passato tutta la mia gioventù fino a quando sono partito per il Ruanda, ad andare a vedere la Dea, a Bergamo ed in trasferta, con la Curva Nord dove in quegli anni si faceva molto casino… Ma come si dice «ultras nella vita, non solo alla partita», e quindi mi ritengo sempre un ultras dell’Atalanta, ed in questi anni sono molte le soddisfazioni che ci sta dando. Qui in Ruanda, dopo la vittoria con il Liverpool, si dice che sia una squadra americana di Atlanta, perché per essere così forte, deve per forza venire dall’America...

Inoltre qui si segue moltissimo il campionato inglese. Tra italiani, abbiamo il gruppo whatsapp “Italiani in Ruanda”, e diciamocelo pure, l’Atalanta è amata un po’ da tutti, è una “provinciale” che sa vincere e convincere, e per noi bergamaschi che viviamo in Ruanda è una bella soddisfazione. Oltre a me infatti ci sono Consuelo di Martinengo, che è la responsabile di un Centro per ragazzini con disabilità, Arianna di Bergamo città con la nostra Ong in Servizio civile, e supporta una scuola in una zona rurale seguendo in modo particolare un ragazzino autistico, insieme a Padre Mario Maria Falconi che ho ricordato all’inizio e che viene dalla Valle Cavallina.

E se qualcuno volesse conoscere di più la nostra Ong, o sostenerne i progetti, il sito è www.mlfm.it. Un saluto a tutti voi!
Omar Fiordalisio (Kigali, Ruanda)

«Ho applicato la resilienza che nasce dalle nostre radici»
Daniele, da Stoccolma (Svezia)

Qualche giorno fa mi sono trovato a discutere la paternità di Luna Rossa con un amico, con fervore difendevo le radici bergamasche di uno scafo eccezionale, linee mozzafiato, una livrea unica..., anche se io non so nemmeno da che parte si guidi una barca. Questo é essere bergamaschi.

Ma partiamo dall’inizio: mi chiamo Daniele, vivo ormai da 6 anni a Stoccolma e mi occupo di arrampicata, di navigazione nemmeno l’ombra. In questi sei anni é cambiata molto la mia ottica di vedere argomenti come la famiglia, il lavoro, la società in cui vivo e me stesso.

Il filo conduttore che é rimasto sono le mie radici, il sapere da dove si é venuti e la consapevolezza di una solida base non solo familiare, ma di una coesione culturale che mi ha dato un’identitá che va oltre il classico «Pòta».

Quando ho deciso di trasferirmi in Svezia e raggiungere la mia compagna, le prime raccomandazioni fattemi dalla nonna sono state «Pica e badil!» . Un incoraggiamento di altri tempi che mi ha saputo ricordare che con il sudore della fronte, qualsiasi imprevisto/problema sarebbe stato risolvibile e che, senza fatica, un futuro non si costruisce.

Preso il consiglio al balzo, mi sono cimentato nel lavoro, prima in una azienda italiana e poi in una svedese. Se nella prima l’integrarsi é stato quasi immediato, anche se con un lavoro mai fatto, nella seconda il divario é stato netto. Nell’azienda svedese, dove lavoro tuttora, il mio chiassoso vociare era sicuramente fuori luogo. Nelle riunioni la sintonia del gruppo é scandita dal condividere idee e progetti in rispettoso silenzio e cordialmente argomentate e attuate.

Il momento più atteso é il caffè, bevuto seduti, e se possibile, con una fetta di torta. Dopo la prima volta che mi sono ritrovato da solo a lavorare, mi è stato spiegato cosa significhi la parola pausa e il valore non del caffè, ma bensì di un momento di riflessione sul lavoro svolto e da fare. Non dando per scontato che l’atto di riposare é parte del lavoro.

Concetti così nell’essenza di noi bergamaschi non si sono mai visti, il «mola mia liú» che porta alla sciatica cronica da ponteggio é sicuramente qualcosa che bisognerebbe rivedere.

Un evento significativo della mia vita in Svezia é stata la nascita di mia figlia Anna due anni fa, e la necessità di dover instaurare in lei il sentimento e l’attaccamento a un luogo di origine a lei sconosciuto. Un luogo dove nonni, nonne, zii e cugini si trovano e dove lei, pur indossando già magliette della Dea, si sentirà straniera.

L’idea di conferire una appartenenza culturale attraverso dialetti e diete a base di polenta e burro, é sicuramente qualcosa in cui mi cimenterò, ricordandole sempre che «pá e nüs, maiá de spüs, nüs e pá, maiá de cá».

C’è sicuramente da sottolineare, come la maggior parte dei lettori saprà, che la Svezia ha un welfare elevatissimo per quanto riguarda la famiglia. I genitori sono il fulcro di tutto, con il risvolto che una volta diventati nonni non si ha più l’obbligo di sopperire a mancanze strutturali statali, quali asili nido/materne/malattie/, ma semplicemente si può vivere una seconda giovinezza in Spagna a carico della pensione.

Ormai dopo diversi anni vissuti in un altro contesto sociale inizio a capire le dinamiche, che se ad un primo sguardo risultano snob o egoistiche, in realtà rivelano un sottofondo sociale riservato e propenso alla coltivazione di interessi, passioni e obbiettivi personali senza la pressione del giudizio gridato o dell’invadenza di consigli non richiesti.

Una cultura simile a quella bergamasca a livello di elogi e complimenti, molto umile nei meriti e conquiste, sempre pronta a puntare a fare meglio senza risparmiarsi l’autocritica.

Vivendo qui ho applicato la resilienza, fondamento della cultura bergamasca. L’etica di porsi per primi nel risolvere i problemi ed essere disponibili a fare il primo passo avanti, caratteristiche scontate per noi bergamaschi ma sicuramente rilevanti oggi come oggi.

I progetti per il futuro sono di vivere qui con la mia famiglia, sapendo che alle spalle possiamo sempre contare sul valore più importante della cultura bergamasca, la famiglia. Quella con la F maiuscola, quella con la polenta della nonna e con le domeniche con i cugini in montagna, quella che con schiettezza e amore mette il sale in zucca.

Qualcuno mi disse che essere bergamasco è racchiuso nel detto «püra de nisú, schefe de negöt», che dire ... Pòta!
Daniele Stucchi
(Stoccolma)

Altri contributi arrivati:

Ci aprono le porte con fiducia

Una cosa posso dirla: Bergamo nel mondo è sinonimo di lavoro e serietà, sarà stato il cabaret del muratore, ma scarpe grosse cervello fino sono il motivo per cui ci aprono le porte con fiducia.

La Polonia è un paese diffidente per cultura e storia, ma è stata affascinata dalla nostra cucina a base di casunsei e scarpinoc. Ora siamo in Spagna a Marbella, Costa del sol, e funziona come in Polonia. Chi ha visto e conosciuto Bergamo non la dimentica più: adesso possiamo dire che siamo di Bergamo, non più di Milano perché più conosciuta. Grazie.
Dario Todeschini
(Marbella, Spagna)

Un esempio durante la pandemia

A Bergamo ci sono le mie radici di nascita ed appartenenza. La linfa delle radici bergamasche è per me cemento liquido di valori, di tradizioni, della predisposizione alla determinazione ed al sacrificio fisico e spirituale.

Durante il Covid l’umiltà e la resilienza bergamasca si sono distinte anche nel dolore e la tenace resistenza della città ha ispirato ed insegnato il coraggio di andare avanti a molti altri, anche all’estero. Un caro saluto.
Fulvio Della Volta
(New York)

Non limitarti a leggere

Sui temi del lavoro come della famiglia, della vita religiosa e della partecipazione politica in queste settimane è in corso in Bergamasca una grande indagine sociologica, voluta da L’Eco di Bergamo e in collaborazione con i sociologi dell’Università di Bergamo. Per capire come e quanto siamo cambiati negli ultimi anni.

I contributi che pubblichiamo, che ci arrivano da chi vive all’estero, accompagnano questa indagine.

Ma soprattutto chiediamo anche a te di comunicarci il tuo pensiero. Vogliamo conoscere le tue idee, per costruire insieme a te una “missione” per il territorio bergamasco. Puoi scrivere a: [email protected]

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