La logistica nella Bassa e le nuove sfide per il lavoro

Innovazione, flessibilità, sostenibilità. Appunti per capire come le trasformazioni in atto nella società bergamasca.

Intervista a Francesco Corna, segretario della Cisl bergamasca

Lo smart working è solo la punta dell’iceberg. Sono molteplici i cambiamenti nel mondo del lavoro che la pandemia ha accelerato fortemente, rendendoli più evidenti e diffusi. Lavoro remoto e ibrido, digitalizzazione e automazione, benessere dei dipendenti, flessibilità oraria, formazione... Si tratta di cambiamenti che stanno ridefinendo il panorama del lavoro e avranno implicazioni a lungo termine per le aziende, i lavoratori e le politiche pubbliche.

Le organizzazioni devono adattarsi a nuovi modelli operativi, investire in tecnologie avanzate e promuovere una cultura aziendale che valorizzi flessibilità e benessere. I lavoratori devono essere pronti a imparare continuamente e adattarsi a nuove modalità di lavoro. Governi e istituzioni devono aggiornare le politiche per proteggere i lavoratori e garantire che le transizioni siano eque e sostenibili.

Su questo dialoghiamo con Francesco Corna, segretario della Cisl bergamasca. Per lui a cambiare è lo stesso modo di approcciarsi al lavoro, soprattutto nelle nuove generazioni: «Cambiano le priorità – dice Corna –, soprattutto in chi vive in una situazione stabile dal punto di vista economico, come può essere la nostra provincia. Emergono priorità nuove, che un tempo erano più sottotraccia. Come posso seguire la mia famiglia? Quanto sono vicino? Quanto posso crescere, viaggiare, studiare? Tutti elementi che, sottolinea il sindacalista, prima avevano una scala diversa nelle priorità delle persone».

Cambia l’immagine del bergamasco legato alla cultura del lavoro e del fare?

«Diciamo che c’è un’attenzione diversa, soprattutto nei più giovani. Oggi un nostro giovane istruito che ha possibilità, che ha mercato anche fuori dall’Italia, che ha delle competenze spendibili, ha un approccio un po’ diverso al lavoro: quanto posso crescere, come posso gestire il mio tempo libero, la mia vita, le mie passioni. Questo è un aspetto nuovo, rispetto alle vecchie generazioni che han dovuto approcciarsi al lavoro come bisogno. Forse era cambiato anche prima, magari non c’eravamo accorti. Ce ne accorgiamo di più oggi, anche perché abbiamo pochi giovani. Ed è questo il problema vero, il problema dei problemi, che abbiamo a Bergamo come in tutta Italia: denatalità e invecchiamento. Così le difficoltà maggiori a reperire il personale sono ovviamente in quelle attività che si svolgono anche di sabato e domenica, e nelle festività. Dove uno preferisce dedicarsi anche alla famiglia e gestire al meglio il proprio tempo libero».

Le imprese come reagiscono a queste difficoltà?

«In vari modi: cercando di fare un po’ di scouting, dando qualche soldo in più. Quelle più strutturate, o di dimensioni sovranazionali, stanno facendo delle Academy all’estero, formano personale all’estero per poi portarlo qui. Le aziende non si possono chiamare fuori. Bisogna che il sistema, lo stiamo dicendo da tempo come sindacato, attui accoglienza e integrazione, pensando ai futuri italiani che arriveranno da fuori. Io cito sempre l’esempio dei nostri minatori, quando nel dopoguerra ci fu l’accordo tra Belgio e Italia. Loro ci davano il carbone, noi fornivamo la manodopera. Queste persone venivano accolte nelle loro scuole, avevano a disposizione casette di mattoncini rossi. Per tanti nostri imprenditori non è così: sono solo forza lavoro e per tutto il resto deve provvedere lo Stato».

Occorre lavorare per un’integrazione reale...

«Ciascuno deve fare la propria parte, cioè è il sistema che deve realizzare anche l’integrazione. E creare l’accoglienza che vuol dire casa, vuol dire poter dare servizi alle famiglie, perché poi queste famiglie... Creare una rete di accoglienza e di integrazione di cui dobbiamo farci carico tutti. E questo vale ancor più nella Bassa Bergamasca, con l’ultimo fenomeno che si è sviluppato tantissimo: la logistica. È un fenomeno di sviluppo recente, arrivato dopo tutti gli altri, e quindi la manodopera non c’era perché noi eravamo già in una situazione di occupazione pressoché satura. Ecco che allora parliamo di tanti lavoratori che vengono da fuori dall’Italia o quasi».

Questi sono i nuovi bergamaschi ?

«Saranno i nuovi Bergamaschi. Tenendo conto che è una situazione normale, tanti prima di noi l’hanno vissuta... Noi abbiamo qualche milione di italiani in Argentina, ma se andiamo a vedere cosa è successo nell’800, troviamo che oltre 40 milioni di europei sono andati in Australia, America Latina, America del Nord... Oggi noi ci dobbiamo occupare di questo problema in via prioritaria, perché la nostra bassa pianura è diventata il polo logistico dell’Alta Italia. Lì vanno a confluire una serie di situazioni che sono i collegamenti stradali e ferroviari col porto di Genova e di Ferrara e il collegamento sulla Brennero e l’ubicazione baricentrica nella regione più popolosa e produttiva d’Italia che è la Lombardia. Quindi nella pianura bergamasca sta crescendo il polo logistico più grande dell’Italia del Nord, con degli insediamenti veramente enormi. E con l’occupazione di migliaia di persone, e cambierà perciò anche la demografia e la vita di questi paesi... Tutti noi ci dobbiamo attrezzare a questo. Dobbiamo stare attenti che non sia uno sviluppo che distrugge solo il territorio più fertile della nostra provincia e poi lascia cattedrali nel deserto. Uno sviluppo che deve servire anche al nostro territorio. Ecco, questa è la preoccupazione che abbiamo rispetto al nuovo sviluppo che si sta imponendo nella pianura bergamasca».

(a cura di Gianbattista Rodolfi)

«Sommersi da carta e burocrazia: A farne le spese è il nostro lavoro»

Anche il lavoro dei medici, in trincea durante il periodo drammatico del Covid, sta cambiando. Non parliamo qui degli aspetti strutturali del sistema sanitario, che vede una cronica carenza del personale, sia medico che infermieristico, e sulla quale si levano frequenti gridi di allarme: la preoccupazione è forte, soprattutto nelle Regioni del Nord, dove questa carenza di personale è molto alta. Quello che vorremmo capire è come si è modificato, soprattutto dopo la pandemia, il lavoro stesso del medico di famiglia, una figura che nel sistema sanitario nazionale riveste un’importanza fondamentale per la salute dei cittadini: con la sua presenza capillare sul territorio e grazie al rapporto di fiducia che instaura con i pazienti, dovrebbe infatti rappresentarne il punto di riferimento centrale.

Ne parliamo con Magda Rossini, da tanti anni medico di base a Scanzorosciate. Anche con lei è inevitabile partire dai cambiamenti avvenuti dopo la pandemia. Il primo dato è che sono mutate le aspettative dei pazienti, che ora hanno richieste più pressanti: si aspettano cioè un accesso immediato e costante alle cure mediche, anche attraverso piattaforme digitali.

«Nel periodo Covid - dice la dottoressa Rossini - io come tantissimi miei colleghi, lavoravamo 24 ore su 24 perchè l’emergenza ce lo imponeva. Ora la richiesta di avere sempre il medico reperibile è rimasta, anche quando il medico non è in servizio o non è necessaria: l’uso del cellulare, whatsapp, mail, permette all’utenza di scrivere ad ogni ora e in qualsiasi giorno della settimana. Nella pratica quotidiana, visto che siamo usciti dalla situazione di emergenza, ci sarebbero delle regole da rispettare come per tutti i lavori. Siamo in ambulatorio per visitare i pazienti negli orari dedicati alle visite, c’è il servizio di segreteria per la ricezione di ripetizione ricette e richieste appuntamenti; è garantita l’assistenza medica per le urgenze nelle giornate pre-festive e festive attraverso il servizio di continuità assistenziale. Abbiamo una richiesta raddoppiata di interventi per l’aumento del numero di pazienti in carico, data la mancanza di medici sul territorio. Un carico di lavoro maggiore va ad incidere sul tempo dedicato ad ogni paziente».

Può farci degli esempi di questa minore pazienza?

«C’è chi telefona alla segretaria, la quale dice: “L’appuntamento per la visione degli esami è tra cinque giorni”; la risposta: “No, la dottoressa mi deve vedere subito”. Abbiamo moltissime mail e messaggi a cui rispondere ogni giorno, che richiedono tempo ed attenzione. Il risultato è un carico di lavoro che qualche volta può diventare insostenibile. Aumentato anche dalla crescente quantità di burocrazia che potrebbe invece essere alleggerita. Non possiamo sottrarre tempo prezioso alla cura dei pazienti - ci dice Rossini - perchè siamo sommersi da burocrazia come stilare piani terapeutici, fare prescrizioni che non vengono fatte dai colleghi specialisti, passare ore a recuperare l’invio di ricette non spedite tramite il SISS perchè ormai da mesi si blocca continuamente. Spesso si sente dire in giro che i medici lavorano 15 ore alla settimana, posso invece assicurare che lavoriamo molto ma molto di più. Chi ci paga le ore aggiuntive? E, soprattutto, quanto è prezioso il nostro tempo?».

C’è qualcosa che potrebbe essere migliorato?

«C’è ad esempio la possibilità che alcuni referti vengano messi direttamente a disposizione, e da anni lo chiediamo a Regione Lombardia. Quando noi prescriviamo una radiografia del torace, chiediamo che questa venga poi inserita, con il consenso del paziente, nella cartella sanitaria. Sarebbe un recupero di tempo, per arrivare ad una diagnosi ed una cura anche più veloce per il paziente. Perchè non si fa? Non credo sia solo per via della privacy, credo che ci sia invece una non disponibilità del sistema informatico della Regione. In altre Regioni le cosa funzionano un po’ diversamente...».

Sul tema generale del lavoro, i bergamaschi si identificano con il fare, l’operosità. È ancora così oggi?

«I bergamaschi sono sempre stati, per natura, dei gran lavoratori, e questo valore si è trasmesso anche alle nuove generazioni. I giovani bergamaschi, penso a questo Comune, durante il Covid si sono dimostrati bravissimi, volenterosi. Noi medici dell’ambulatorio non ci siamo mai sentiti soli, nel periodo Covid siamo stati aiutati dal nostro Sindaco, dalla Protezione Civile, dal personale del servizio sociale, da tanti giovani volontari che portavano ricette e medicinali a casa di pazienti ammalati. Una solidarietà giovanile che vedo proseguire anche oggi, per esempio nell’ambito della Protezione Civile. I giovani di oggi, oltre al fare e all’operosità, desiderano crescere ma anche avere una retribuzione adeguata. I giovani di oggi danno importanza anche alla loro salute richiedendo una vita meno stressante e maggiore tempo libero».

E guardando ai giovani che si avvicinano alla professione medica?

«Chi fa il medico deve avere una grande voglia di farlo. Io sono tutor di giovani medici che si stanno formando, vedo anche i tirocinanti della scuola di specializzazione. Tutti entusiasti, con una grande voglia di fare i dottori, ma molto dispiaciuti del carico burocratico che va sempre più aumentando. Aprire uno studio medico oggi significa sostenere molte spese per l’affitto, la segretaria, l’infermiera, l’arredamento, etc. Le spese sono elevate e gli stipendi sono sempre più bassi rispetto agli altri paesi europei. Servono più investimenti perchè i giovani non scelgano l’estero e vanno potenziate le risorse per i medici di famiglia, dando anche maggior valore al ruolo di medico, primo riferimento per i cittadini. Credo che tutti i medici vogliano tornare a fare il proprio lavoro in condizioni dignitose».

(a cura di Pietro Giudici)

Non limitarti a leggere

Sui temi del lavoro come della famiglia, della vita religiosa e della partecipazione politica in queste settimane è in corso in Bergamasca una grande indagine sociologica, voluta da L’Eco di Bergamo e in collaborazione con i sociologi dell’Università di Bergamo. Per capire come e quanto siamo cambiati negli ultimi anni.

Per questo i collaboratori de L’Eco stanno realizzando tante interviste, incontrando testimoni della vita delle nostre comunità. Accompagniamo l’indagine con diversi contributi, ospitando sulle pagine e sul sito de L’Eco pareri, domande e riflessioni. Insieme al contributo di chi, bergamasco, oggi vive e lavora all’estero.

Ma soprattutto chiediamo anche a te di comunicarci il tuo pensiero. Vogliamo conoscere le tue idee, per costruire insieme a te una “missione” per il territorio bergamasco. Puoi scrivere a: [email protected]

Bergamo senza confini

Ogni settimana uno spazio riservato ai tanti bergamaschi in giro per il mondo, e che si confrontano con valori ed esperienze diverse. Le loro proposte e riflessioni sono un contributo alla nostra indagine.

Un viaggio nel mondo che termina ritrovando sé stessi (Andrea, Singapore)

Vorrei augurare un buongiorno a chiunque fosse alla lettura di questo trafiletto: comunque, dovunque tu sia. E un buon viaggio, non serve che vi spostiate. Questo mentre vi racconto del viaggio mio che muove su binari trasversali piuttosto che paralleli. Con fermate che hanno visto alla partenza un comune ragazzo italiano, di 27 anni, dal Comune di Ponte San Pietro. Forte di lamenti contro il ponte di quello che ormai non è più presente ma passato.

Con la discesa a fermate veloci, ignote, curiose. Del ragazzo che dapprima incontra l’ang moh nei suoi anni a Singapore, poi il gaijin fra le tappe in Asia e il Giappone, e infine l’expat nel viaggio nell’emisfero australe verso la ricerca dell’uomo. Fra carrozze di passeggeri di diverso colore, suono, dimensione. Sconosciuti prima, rispettati in punta di piedi nel relazionarsi con le differenti azioni, professioni, comunioni. Lungo un viaggio che una fine non ha; perchè il biglietto della vita ha sì un prezzo che prevede una scadenza, eppure non si vede né si conosce.

Un ragazzo comune che si riempie la pelle di stoffe a maglie incrociate, filati di tessuti, tessere speciali , che vanno più in profondità degli aghi di tatuatori.

Quando lasciai l’Italia per Singapore, registrai un breve video mentre correvo come Rocky Balboa, saltando sulle scale di quella che era e ancora è una delle mie «Philadelphia». Quel giorno scrissi un post al me stesso più giovane, o forse a questo me stesso di oggi.

Iniziai con: «Gli addii fanno schifo». Correre fa schifo, radersi la barba fa schifo. Tutte cose delle quali dico facciano schifo eppure le continuo a compiere a frequenze quasi quotidiane. Noi italiani spesso appariamo strani nei nostri costumi, irriverenti nelle movenze, buffi nelle comunicazioni agli occhi impreparati dello «straniero»; con il nostro gesticolare, le espressioni ramificate fra dialetti, empiriche peculiarità millenarie. Sto lasciando una nazione, una professione, una casa, una famiglia; sto lasciando un capitolo ma soltanto per voltare una pagina. Ancora preferisco l’adattatore universale alla Schuko, ma ho imparato gli Shikos del sumo e non solo gli squats. Puo capitare di fare acquisti in un negozio chiamato Mini Sou e ritrovarsi con l’acquisto di un’anima più grande. Dopo aver passato anni a controllare le etichette che riportano «made in China» e tu ci leggi «straordinario», non «economico». Annusando tartine all’ananas, sorseggiando tè di Ceylon con lo zenzero, polvere di cannella che pizzica il gusto come fanno le freccette dritte al cuore. Ti guardi allo specchio, leggi fra i tuoi tatuaggi. Non corro questa volta, ancora provato dall’ultima maratona alla Tower di Seoul, in Corea. Ma ancora salto gradino dopo gradino, di quella che oggi è un’altra mia nuova «Philadelphia». Ero partito perché sentivo la mia Bergamo chiudersi in me stesso, limitare la freschezza dei venti e rarefare l’aria disponibile. Invece era solo il primo processo utile a raffinare la persona. Mi concentravo sulla Bergamo che appannava l’orizzonte, quando invece mi spronava a dipanare la rotta verso il me stesso futuro.

La mia prima «Philadelphia» si è da sempre chiamata Bergamo. E nel viaggio, il ragazzo incontra se stesso a ogni apertura di carrozza nella discesa dell’ang moh, del gaijin, dell’expat. In un viaggio che non termina con l’espatriato ma con la ricerca dell’uomo. Che può vagare, conoscere, ritornare a casa. Perchè in fondo il viaggio dona al ragazzo occhi per vedere l’uomo che già c’è e soggiorna tra le radici di casa.
Andrea Bonanomi (Singapore)

Il mio essere «bergamasco» negli Stati Uniti (Giovanni, Usa)

Sono nato a Gandino nel 1965 da mia mamma, originaria del paese e mio papà, esule istriano, arrivato a Gandino nel ’47 e prontamente accettato in paese, dopo le molte peripezie che ormai tutti, o quasi, conoscono. Lo scorso 19 marzo ho festeggiato 30 anni di permanenza negli Usa e anche il giro di boa per quanto riguarda la mia età: adesso più della metà della mia vita è stata vissuta qui in America.

Cosa mi manca maggiormente? In primis il buonsenso tipico di noi bergamaschi e la conseguente praticità per risolvere i piccoli e i grandi problemi: qui il ritmo è diverso e ogni tanto mi viene da dire «Dai docà! Entrega sö!...».

Il mio «essere bergamasco» si riflette tutti i giorni nelle piccole cose, da quando mi sveglio alla mattina, a quando cerco di mettermi nei panni di chi mi espone un problema, mostrandogli un punto di vista che, a detta di molti locali, appartiene solo a noi bergamaschi e, culminando nel gran finale, la fede calcistica nell’Atalanta perchè si nasce e si muore nerazzurri e si festeggia e si soffre con la Dea anche se si è lontani.

I limiti di noi bergamaschi sono sempre gli stessi da quando mi sono trasferito, siccome certe cose e certi comportamenti sono molto radicati e forse cambieranno nel corso di qualche secolo: la diffidenza e la mancanza di ascolto causata forse dalla paura del cambiamento che, secondo molti, potrebbe cancellare la nostra identità.

Un cambiamento in peggio è anche il fatto che molti giovani non parlano più il nostro dialetto: questo io lo vedo come un pericolo di estinzione di molti valori positivi che purtroppo la gente non sta realizzando.

Il dialetto lo parlo tuttora - ne parlo tre: il gandinese, il bergamasco di città e l’istriano, siccome sono stato allevato dai nonni in tenera età, avendo imparato l’italiano a scuola. La lingua italiana la curo sempre leggendo libri e giornali italiani per paura di finire come certi altri italiani in America, che cominciano a parlare un miscuglio tra inglese, italiano e dialetto fortemente sgrammaticati.
Giovanni Principe (Usa)

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