Il segreto della nostra operosità sta nella “passione” per il lavoro

Dopo il Covid come è cambiata l’etica del lavoro nei nostri territori? E’ ancora il “fare” e l’intrapresa che caratterizzano l’essere bergamaschi oggi?

Nuove sfide, ma anche nuove opportunità

Bergamo sta forse perdendo la sua identificazione con il lavoro? No, ma certo qualcosa sta cambiando. L’indagine in corso sul territorio – condotta da L’Eco insieme all’Università di Bergamo – cerca proprio di intercettare questi cambiamenti. «Lavorare come un bergamasco», era lo slogan di un tempo. Ma vale ancora oggi? E sarà ancora così nel futuro?

Il mondo sta cambiando velocemente, e anche qui il Covid è stato uno spartiacque, accelerando dinamiche che esistevano già, ma rimanevano sotto traccia, in primis la forte accelerazione alla digitalizzazione e la ricerca di nuovi processi produttivi e di lavoro. Nuove sfide, ma anche nuove opportunità, alle quali le imprese bergamasche stanno nel complesso rispondendo bene, dimostrando capacità di reazione dopo gli anni neri della pandemia.

Le spinte al cambiamento si vedono anche rispetto alla filiera produttiva, spiega Alessandro Medolago Albani, titolare con i fratelli della PIECO, una ditta di Terno d’Isola specializzata nel settore della depurazione dell’acqua e protezione ambientale. «Dopo la pandemia – dice - la filiera produttiva si è accorciata tantissimo: prima si faceva riferimento anche a fornitori esteri molto distanti, ora si cerca una filiera molto corta, con minori impatti sui trasporti e soprattutto al riparo da influenze esterne. Può creare nuove opportunità per artigiani e piccole e medie imprese in grado di supportare la grande impresa. Soprattutto per meccanica, metalmeccanica e meccanica di precisione che sembravano, prima del Covid, soffrire molto per la concorrenza cinese o estera. E molte aziende hanno saputo cogliere questa opportunità».

Come ha reagito Bergamo?

«Io penso che il nostro territorio abbia grandissime potenzialità nel tessuto artigiano e della piccola industria, proprio perché ci sono, ancora oggi, delle competenze che altri territori o non hanno mai avuto o negli anni hanno perso. Non dimentichiamoci poi che la nostra provincia, nel corso dei decenni ha sempre subito piccole o grandi crisi, sapendosi poi reinventare e adattarsi in tempi rapidi e veloci, anche rispetto a situazioni di mercato differenti.

Se poi guardiamo al carattere bergamasco, troviamo magari una difficoltà di comunicazione, ma scopriamo anche che è un grande ascoltatore. Quindi molte volte è più bravo di altri ad ascoltare le esigenze dei clienti e poi del mercato: magari deve migliorare, e lo dovrà fare, dal punto di vista della comunicazione, ma arriva prima di altri a determinate soluzioni».

Il bergamasco s’identifica ancora con l’operosità, l’attaccamento al lavoro?

«Penso proprio di sì. Sono convinto che nel nostro dna il lavoro, insieme alla famiglia, sia sempre stato al primo posto. E anche dando delle priorità a questo lavoro e traendone anche soddisfazione. Mi spiego: credo che se trasferiamo il messaggio che il bergamasco è solo un lavoratore e basta, questa è una distorsione della realtà. Il vantaggio dei nostri conterranei è che all’interno di quest’operosità hanno messo anche la ricerca di una soddisfazione, di una gratificazione del prodotto finito. È questo che sicuramente fa la differenza rispetto ad altri territori: ci caratterizza la ricerca della passione, il cercare la meticolosità in quello che si fa, che è poi anche un ripagare delle fatiche che derivano dalle giornate o dalle ore spese nell’attività lavorativa».

Ma è sempre stato così? E sta cambiando qualcosa adesso?

«Credo sia sempre stato così. Questo tipo di approccio o l’hai o non l’hai. E guardandoci indietro, nelle situazioni in cui siamo stati messi alla prova, è un elemento che è sempre uscito, portando vantaggi e benefici.

È un tipo di approccio che poi si ripercuote sulla qualità del tuo lavoro, di come lo percepisci e di come lo vivi. Lo stesso lavoro fatto con passione e soddisfazione può impiegare lo stesso numero di ore, ma a livello di ritorno l’impatto di fatica che il lavoratore ne ha, è completamente diverso».

Le aziende si devono riadattare?

«Secondo me in parte si sono già riadattate. Stanno capendo che devono mettere il lavoratore nelle condizioni di poter operare nel migliore dei modi: e questo è un aspetto forse poco considerato in passato, ma sicuramente oggi al centro dell’attenzione di tutti. Cresce la consapevolezza che il lavoratore è la cosa più preziosa che un’azienda possa avere. E oggi non puoi più permetterti di impostare un’attività lavorativa che non tenga conto anche del benessere del lavoratore».

Qual è oggi la difficoltà più grande?

«Sta nel poter avere a disposizione quelle risorse, quelle opportunità di addetti che poi siano in grado di accompagnare l’imprenditore in questa visione.

E qui va citato il ruolo della scuola. Perché negli anni passati la scuola si è mossa molto verso quello che era un mondo più di marketing, più d’immagine o un mondo, diciamo, meno concreto rispetto alla produzione. Tant’è che se oggi guardiamo la disponibilità di lavoro nel settore del marketing, abbiamo l’imbarazzo della scelta. Di giovani rampanti che si propongono per nuovi siti internet, nuovi approcci di marketing ne abbiamo veramente tanti, ma oggi si fa più che mai fatica a trovare tecnici che abbiano un’esperienza non concentrata in un settore, ma un’esperienza trasversale, che possa toccare più sfaccettature. Oggi più che mai, con l’intelligenza artificiale, che è sempre più parte del nostro tessuto sociale, avere la possibilità di tecnici preparati che poi possano anche entrare nella parte di programmazione, diventa fondamentale. Dobbiamo colmare questa lacuna di una scuola molto distante dal mondo reale del lavoro o, più che distante, molto in ritardo rispetto a quella che oggi è l’esigenza del mondo del lavoro. Probabilmente fra qualche anno la scuola lo capirà e si adatterà, però potrebbe essere troppo tardi. Questo è il vero problema».
(a cura di Claudia Esposito)

“Solo lavorando insieme, sapremo vincere la sfida digitale”

Gianluigi Viscardi è un noto imprenditore, da tempo impegnato nei processi di ammodernamento del mondo industriale e produttivo. Fondatore di Cosberg, azienda di Terno d’Isola attiva nella meccatronica e nell’automazione, è da sempre attivo anche nel mondo associativo, vissuto in prima linea sia a livello locale che nazionale.

Attualmente è Presidente del Cluster Fabbrica Intelligente Nazionale, Presidente del Consorzio per la Meccatronica Intellimech ed è responsabile del Coordinamento nazionale della rete dei Digital Innovation Hub (Dih) di Confindustria.

Anche nel dialogo con Viscardi è inevitabile partire dal tema dei cambiamenti nel mondo del lavoro nel post-pandemia: «Sicuramente - ci dice - dopo il Covid è cambiato il modo di lavorare. Ma non perchè sono uscite nuove tecnologie: esisteva già tutto, ma non lo usavamo. Sto parlando di videoconferenze, il potersi collegare a distanza, lo smart working. La pandemia ci ha obbligati a farlo.

Sembra sia stata un’era fa, invece sono passati solo quattro anni. Ma tutto è cambiato, anche il sistema produttivo. Perché? Le filiere erano lunghe: uno poteva aspettare quello che arrivava dalla Cina, o da altri Paesi. Adesso siamo tornati ad avere filiere corte: vuol dire che dobbiamo produrre non solo dove costa meno, ma dove è più veloce avere il materiale. Questo è quello che si sta facendo. E per il tessuto produttivo bergamasco questo può essere un bene, perché noi abbiamo tanti artigiani, tante piccole imprese con queste caratteristiche innovative».

Creare valore per la propria azienda attraverso la tecnologia: questa è la sfida principale che le imprese devono affrontare oggi, un passaggio che però non è scontato né immediato. E che richiede, aggiunge Viscardi, un cambio di mentalità in chi fa impresa oggi: «Digitalizzare: questa è la vera sfida che abbiamo nelle piccole e medie imprese dopo la pandemia, bisogna digitalizzare. Però per poterlo fare devi avere delle persone e bisogna cercarle (a parte che non si trovano, ma questo è un altro argomento ancora...).

Prima l’imprenditore era abituato a comprare un tornio. Compravo un tornio, compravo il capannone e per quarant’anni ero a posto. Nell’era della digitalizzazione non è che compro un software e vado avanti vent’anni. Se non investo tutti gli anni per tenerlo aggiornato, l’anno dopo crolla tutto. È proprio una cultura del lavoro, anche da parte degli imprenditori, che deve completamente cambiare».

Gli intangibili: il vero patrimonio

Si collega qui il tema caro a Viscardi, quello della gestione della conoscenza aziendale, per consentire all’impresa di mantenere all’interno il «know how» creato dal capitale umano («è il vero valore delle imprese»), rendendolo al servizio di chi opera in azienda ed eliminando il rischio legato alla perdita e o al cambio di personale.

È il riconoscimento del patrimonio intangibile (quello che non si vede) di una realtà imprenditoriale: «Siamo da sempre abituati, e lo sono anche le banche, a valutare l’impresa dal valore dei capannoni, dei torni, delle macchine, mentre il 40% del capitale è intangibile, e lo sarà sempre più. Si tratta della conoscenza delle persone che lavorano per quel progetto aziendale, che lo sviluppano e lo trasmettono ai giovani, la stessa conoscenza che software e sistemi di intelligenza artificiale ci aiutano a racchiudere e tenere in azienda, senza perdere know how».

Si tratta di un’attività che si è concretizzata soprattutto con le realtà dei DIH, i Digital innovation hub, realtà che sulla trasformazione digitale «sono come il medico di base dell’imprenditore, e su questo - prosegue Viscardi - ho lavorato molto: sono stato il presidente della Lombardia, sono ora il coordinatore nazionale. Attraverso queste realtà visitiamo la tua azienda. Ti dico come sei messo, com’è il tuo mercato e provo a darti una ricetta: guarda che sei qui, devi arrivare là, ma devi farlo per gradi, prima questa pillola, poi questa.È un vero e proprio percorso che devi fare. Le società di consulenza si fanno pagare molto per questo..., noi lo offriamo gratis. Ci sono così 2200 imprese a livello nazionale a cui abbiamo dato un percorso per aiutare l’imprenditore nella sfida digitale. Bisogna aiutare chi fa impresa su questi aspetti, anche le associazioni di categoria dovrebbero farlo, e comunque questo sta già accadendo nel mondo del lavoro».

Da soli non si va da nessuna parte

Ma vale ancora oggi l’equazione «bergamaschi uguale lavoratori»? Ci identifichiamo ancora con il fare, con l’operosità?

«Sicuramente noi siamo quelli del fare - conclude Viscardi -. Anche se le cose stanno un po’ cambiando, perché questo abbassare la testa e lavorare ostacola un po’ la necessità di metterci insieme per lavorare meglio. E da soli non si va da nessuna parte. Lo vedo anche nel nostro territorio, con la realtà di Intellimech (che conta ora 54 imprese). Ogni mese ci confrontiamo, parliamo di tecnologia; ci coordiniamo e cresciamo tutti insieme.

Per competere con l’estero, con l’Europa, dobbiamo metterci insieme. Anche fra realtà piccole, medie e grandi. Adesso, con la tecnologia, anche un piccolo artigiano, se è ben preparato con il suo prodotto già digitalizzato, può entrare in filiera non in funzione del costo, ma in funzione del valore che porta. Quindi, siamo sicuramente dei grandi lavoratori: dobbiamo però essere più uniti per avere più risultati.

Faccio un altro esempio su cui stiamo lavorando anche con Confindustria. Ogni territorio ora, bene o male, s’identifica in un distretto. Bergamo che distretto ha? Edile, tessile, gomma, meccanica... E questo non è bello, perché se fai tutto non sei specializzato, non hai l’etichetta del ‹‹mi serve qualcosa, devo andare lì››. Questo è un tema che stiamo portando avanti. Sicuramente siamo un territorio di alta tecnologia. Abbiamo una grande università, abbiamo il Point di Dalmine, il Kilometro rosso..., però occorre fare in modo che si collabori tutti insieme. Ecco, la mia missione è proprio mettere insieme le aziende, il territorio per fare progetti comuni».
(a cura di Claudia Esposito)

Non limitarti a leggere

Sui temi del lavoro come della famiglia, della vita religiosa e della partecipazione politica in queste settimane è in corso in Bergamasca una grande indagine sociologica, voluta da L’Eco di Bergamo e in collaborazione con i sociologi dell’Università di Bergamo.

Per capire come e quanto siamo cambiati negli ultimi anni.

Per questo i collaboratori de L’Eco stanno realizzando tante interviste, incontrando testimoni della vita delle nostre comunità. Accompagniamo l’indagine con diversi contributi, ospitando sulle pagine e sul sito de L’Eco pareri, domande e riflessioni. Insieme al contributo di chi, bergamasco, oggi vive e lavora all’estero.

Ma soprattutto chiediamo anche a te di comunicarci il tuo pensiero. Vogliamo conoscere le tue idee, per costruire insieme a te una “missione” per il territorio bergamasco. Puoi scrivere a: [email protected]

Bergamo senza confini

Ogni settimana uno spazio riservato ai tanti bergamaschi in giro per il mondo, e che si confrontano con valori ed esperienze diverse. Le loro proposte e riflessioni sono un contributo alla nostra indagine.

L’ontano di zio Cecco: come Ermanno Olmi racconterebbe oggi la nostra terra?
Marco Cremaschi, da Parigi

A fine anni Settanta, quando ancora non avevo vent’anni, andai a vedere L’albero degli zoccoli di Olmi: all’epoca furono organizzate proiezioni per scuole, associazioni, quartieri e quelle proiezioni videro un vero movimento di popolo. Per chi non l’avesse presente, l’Albero degli zoccoli inanella episodi di cronaca quasi documentaristica della vita agricola alla fine del XIX secolo nella Bassa. Nell’episodio eponimo, la famiglia di braccianti è cacciata dal padrone dei terreni quando il padre taglia di nascosto un ontano per fare un paio di zoccoli al figlio. Il film era registrato in bergamasco da attori non professionisti, con sottotitoli in italiano per il grande pubblico.

Il film mi colpì e ha in parte orientato le mie scelte professionali e la mia nascente sensibilità per la questione ambientale. Si tratta certamente di una grande opera, ma soprattutto di un tributo ai valori del lavoro, valori nei quali non solo mi riconoscevo d’istinto, ma che avevo condiviso concretamente anche nella sfera affettiva: li riconoscevo nelle rughe del viso degli zii della cascina di Calcinate, ma anche nella misura e precisione da falegname dello zio Cecco, come nei giganteschi movimenti delle mani dei cugini fabbri e industriali. Anche durante la ricostruzione del Friuli ho imparato dai volontari degli Alpini come il buon lavoro risulti dalla sapiente integrazione tra attrezzi e manipolazione.

Alcuni aspetti di quella narrativa mi lasciarono perplesso e mi interrogano tuttora. Il primo riguarda le radici culturali della Bergamasca. Per chiarezza, lo esprimo in bianco e nero: il nostro passato, la nostra cultura, è quella del lavoro nelle campagne o nell’industria? La forza del film di Olmi stava nella cosmica inattualità di erigere un monumento alla civiltà degli umili delle campagne al momento in cui tramontava l’era industriale che quelle campagne aveva sconfitto e violentato, e quei valori cancellato.

La contraddizione è palese e a me è apparso chiaro nel tempo che era una chiave importante di comprensione della Bergamasca. Non più rurale (per quanto sempre un poco), mai davvero industriale (nel senso della grande impresa), una terra che ha saputo mettere insieme le virtù ma anche i difetti di due mondi diversi.

Il secondo aspetto che mi sconcertava era la continuità del richiamo alla fatica, in campagna come in città. Il meno che si possa dire è che la celebrazione del lavoro nell’etos bergamasco è pervasiva e onnipresente e che il passaggio dal mondo agricolo a quello industriale l’ha addirittura rafforzata. Basta ascoltare le canzoni di Luciano Ravasio per averne conferma. Ma sotto questo richiamo sono presenti elementi diversi: la necessità cieca e dolorosa di lavorare, ma anche un saper fare preciso e orgoglioso, e infine una resistenza incallita alla natura e alle avversità che rasenta talvolta l’avversione. Meno chiara e più problematica è la posizione di altre sfere dell’agire che paiono meno corrispondere all’etos popolare che Olmi celebra: l’ingegno, il discorso o il commercio, per esempio. Dove sono questi valori nell’etos popolare, al di là della furbizia di un Bertoldo, non mi è mai stato chiaro.

Ma tutto questo è materia per specialisti, mi si obietterà. D’accordo. Quello che mi preoccupa, oggi come allora, è se tali richiami alle radici e alla fatica nella cultura nella quale sono cresciuto tengono ancora.

Il meno che si possa dire è che sono stati messi a dura prova dal mondo globalizzato e mercificato che ha fatto seguito alla rivoluzione industriale. Se sobrietà e accortezza sono sopravvissute al passaggio dalla cascina alla filanda, e poi dalla filanda alla manifattura o al cantiere, l’impressione di chi arriva da fuori è che poco sia sopravvissuto all’era della finanza. Il paesaggio della provincia e delle valli è costellato da nuove cattedrali: l’Orio Center, la logistica di Amazon o peggio ancora, totem che mandano messaggi eretici rispetto ai valori che il film di Olmi celebra e che sono oggi ancora più inattuali. Azzardo che la propagazione del Covid è stata resa possibile da questa confusione di coordinate etico-produttive: ci si vede al bar come i paesani di un tempo ma si prende l’aereo come hipster californiani, salvo confondere scale geografiche ed etichette di comportamento.

Di nuovo, ripenso a Olmi e mi chiedo quale sarebbe oggi la narrazione utile a una terra agricola, industriale e globalizzata quando si profila una rivoluzione digitale che cambierà la geopolitica globale. Non è escluso che, come in altri casi, quegli stessi valori tornino di attualità: la transizione ecologica per esempio ne risulterebbe rafforzata: ma scordiamoci la nostalgia che non sarebbe un buon suggerimento e rischierebbe di celare le nuove sfide. L’equazione per rivitalizzare la misura e la sobrietà di zio Cecco può risultare complessa, ma il suo esempio può guidare l’arte di fabbricare zoccoli senza abbattere ulteriori alberi.
Marco Cremaschi
(docente di Urbanistica a Sciences Po - Parigi)

© RIPRODUZIONE RISERVATA