Missione Bergamo / Bergamo Città
Giovedì 11 Luglio 2024
Genitori troppo amici, non sanno dire di no
Dialogo a tutto campo, a volte provocatorio, su come cambia la famiglia e sulle nuove sfide nell’essere genitori oggi
Intervista a Fabrizio Zelaschi, pediatra in alta Val Seriana
Tante sono le sfide che la famiglia si trova ad affrontare oggi. Viviamo in una società sempre più complessa: le famiglie non solo cambiano forme e assumono aspetti svariati, ma mutano anche i valori nel modo di vivere la genitorialità.
I criteri di riferimento educativi delle generazioni appena precedenti alla nostra sono spesso molto differenti da quelli di oggi. E poi l’enorme tema della rivoluzione tecnologica in atto: spesso i nostri figli conoscono il mondo attraverso lo smartphone più che dalla realtà vissuta in prima persona. Inevitabile la confusione in chi è chiamato a vivere il compito - impegnativo ma affascinante - di essere padre e madre, e sono tanti gli interrogativi che
sorgono nell’accompagnare la crescita dei propri figli.
A partire da qui si snoda il dialogo con il dottor Fabrizio Zelaschi, che in oltre 30 anni di attività, come medico pediatra, ha visto crescere generazioni di bambini e incontrato i loro genitori. Il suo studio è a Rovetta, dove insieme ad alcuni colleghi offre un servizio a tutti i 24 Comuni dell’alta Val Seriana. Anche se caratterizzata da queste grandi trasformazioni, avvenute nel corso degli ultimi decenni, «la famiglia – ci dice Zelaschi – è comunque ancora un punto di riferimento . È una famiglia su cui si può contare. Ed è anche una famiglia più serena rispetto a 10 o 20 anni fa, perché c’è una maggior sicurezza economica. È ancora collegata con la famiglia progenitrice, quindi con i nonni, gli anziani, anche se, allo stesso tempo, si è fatta più moderna e molto più aperta all’evoluzione della società».
Qual è il problema principale che osservate, nella quotidianità del vostro lavoro come pediatri?
È una famiglia che ha paura ad assumersi le responsabilità nell’individuare e risolvere determinati problemi che sorgono nel processo educativo. È cresciuta la delega. Questi compiti educativi vengono cioè demandati ad altri. Per cui entrano in campo psicologi, assistenti sociali, che entrano in queste famiglie per far emergere determinati problemi che sono spesso legati al rapporto famiglia-figlio.
Non dimentichiamo poi che la famiglia sta cambiando conformazione: ci sono le famiglie monogenitoriali, le affidatarie, le miste, le famiglie ricombinate con due o tre figli...: emergono problemi anche di ruolo, meno presenti nella famiglia classica di trent’anni fa.
Rispetto a quel modello di famiglia cosa è cambiato?
Noi siamo passati da un’educazione “normativa”, con la famiglia che dava delle regole, delle norme sull’educazione, sul rispetto, etc..., ad una conduzione familiare di tipo affettivo. Si cerca soprattutto di accontentare il figlio attraverso il dialogo, per non far crescere ansia nel bambino, per non perdere fondamentalmente il suo affetto. Perché se tu dici qualcosa a tuo figlio, lui può anche arrabbiarsi e ribellarsi.
Il problema è dire “no”?
Il problema non è solo dire no, ma è anche il rimprovero banale che non viene più recepito dal ragazzo. Allora fondamentalmente non si rimprovera più, perchè non ci si vuole assumere la responsabilità di rimproverarlo.
Io lo vedo tutti i giorni in studio quando la mamma dice al bambino: “non toccare, perché il dottore ti sgrida”. Eh, no: non è il dottore che ti deve sgridare, è un compito della mamma. Il dottore sta zitto perché non vuole interferire in questo, e magari ci scherza su... Però è la mamma che deve intervenire e dire: tu questo non lo fai.
E questa dinamica diffusa nei genitori, che problemi comporta?
Il problema è che l’evitare di dire no, evitare di essere il genitore che ti dà una guida, ti impartisce determinate regole fondamentali, ti porta poi a fare un po’ tutto da te, come adolescente. E se poi non arrivi ad ottenere quello che tu vuoi, cadi nella depressione, perché tu, ragazzo, pensi di non essere all’altezza, di non soddisfare le esigenze della società o anche della famiglia.
E questo è il motivo per cui tanti ragazzi oggi ricorrono all’aiuto di uno psicologo: si tratta di un fenomeno aumentato tantissimo negli ultimi 4-5 anni.
Solitamente si pensa che questo ricorso allo psicologo sia dovuto al post pandemia...
No. Si tratta di un problema che, ad esempio io come pediatra, sto evidenziando da almeno dieci anni. Perchè nella nostra società è proprio cambiato il modo di percepire il rapporto genitore/figlio, secondo un modello che spinge noi adulti ad essere sempre più simili ai nostri ragazzi. Cercando di avere con loro un rapporto di tipo paritario, per evitare la loro delusione.
Noi siamo diventati non più genitori, ma degli amici. Ma un ragazzo di 9-10 anni cosa se ne fa di un amico, di uno pseudo-amico, se questo non riesce a impartire determinate regole, dei principi fondamentali riguardo il rispetto, l’educazione, cose anche banali che i genitori dovrebbero fare. È questo il problema.
Certo, la pandemia ha aggravato questa situazione, ma questo non è un discorso degli ultimi quattro anni, questa trasformazione è iniziata molto tempo fa.
Può farci qualche esempio?
Allora, io sono qua da trent’anni. Una volta se il papà, la mamma o il nonno ti diceva “no” era “no”. “Non toccare” e il bambino non toccava. Di fronte a un raffreddore, dicevi: “Signora, il bambino ha il raffreddore, dopo verrà la tosse, è una situazione da gestire un attimino…”. E questo avveniva da parte dei genitori, senza troppi problemi.
Adesso se il bambino ha un po’ di tosse e un minimo problema di salute, io non mi assumo la responsabilità, ma vado subito a cercare il “dottor Google” e vedo che c’è una lista infinita di malattie che possono dare il raffreddore... Ma non cerco di intervenire con la mia testa, di capire di cosa si tratta. Il problema diventa subito di mio figlio e del pediatra che deve risolvere il problema. Se il bambino si ammala di chi è la colpa? Del pediatra.
Ma questo non accade solo in campo sanitario, accade anche nella scuola: se il bambino va male a scuola di chi è la colpa? È degli insegnanti che non insegnano bene, dell’animatore che è cambiato, etc... È quella che a volte io chiamo la “filosofia dello scaricabarile”. Perché non si vuole avere, non si vuole assumere una responsabilità precisa.
E prevale allora la logica del demandare...
Sì, siamo sempre più portati a demandare. Sembra una forma di educazione nata per non deludere il bambino: perchè altrimenti gli tarpo le ali, non lascio esprimere il suo io, e via dicendo. Però questo è profondamente sbagliato, perché viene a mancare una figura di riferimento importantissima. Perchè il genitore non deve essere solamente colui che ti impone delle regole, ma deve essere anche la memoria, l’esperienza concreta; deve essere “tu papà, hai già attraversato questo periodo, questo momento, hai già fatto questo: cosa mi dici?”
Ecco, questo non succede più, o succede più raramente. Perché si lascia al figlio la capacità di decidere troppo, su tutto. Il problema è che questi ragazzi, lasciati un po’ a se stessi, poi a 14 anni sono delusi da loro stessi e devono ricorrere allo psicologo.
Altro tema: come la rivoluzione tecnologica ha influito sulle famiglie e sul rapporto tra generazioni?
È innegabile che ognuno mangia con lo smartphone sul tavolo. E il web è entrato prepotentemente nelle famiglie italiane, forse in modo esagerato. Da un lato è inevitabile, perchè anche la scuola, il tempo libero, tutto è legato al web. Bisogna però cercare di limitare, di creare anche in questo caso delle regole e noi non possiamo dare regole a nostro figlio sul non utilizzare almeno a tavola il cellulare quando siamo i primi che tra una forchettata e l’altra diamo una risposta a Whatsapp.
Dobbiamo dire alle famiglie – ed è un impegno che porteremo avanti anche noi, proprio come pediatri - di limitare l’uso, di regolare l’uso del web, dell’elettronica. Questo è un aspetto di fondamentale importanza, perché sta togliendo, a molti ragazzi, la creatività. I nostri figli ultimamente preferiscono stare coricati sul divano con il cellulare piuttosto che andare fuori a giocare. Ma la vita si impara per strada, nella realtà, non sul web...
Nei bambini che visita in studio nota quest’uso sbagliato della tecnologia?
Assolutamente. L’ho detto ieri pomeriggio ad una mamma: “lei non si deve preoccupare del raffreddore di suo figlio. Lei si deve preoccupare del fatto che suo figlio a tre anni sappia andare su Youtube e cercarsi i cartoni animati”.
Questo è il suo compito, perché il raffreddore di suo figlio porterà la tosse, e in una settimana passerà. Il fatto che suo figlio a tre anni (e lei ne sia anche orgogliosa) vada da solo su Youtube..., questo no. Ecco, bisogna darsi una regolata.
Quali sono le fragilità che vede emergere all’interno delle famiglie?
La paura, la fragilità maggiore è la paura che qualcosa di esterno possa penetrare nella campana di vetro che ho costruito per proteggere mio figlio. Innanzitutto per la salute, certo, e questo soprattutto nel post pandemia. Ma anche la paura verso gli altri, per il timore che le altre persone possano influire negativamente.
E altre criticità che vedo aumentare sono poi nelle famiglie che si riformano dopo una separazione.
La famiglia non è più allora il luogo dove sentirsi protetti?
Non lo è più, almeno in modo diffuso. Meno male che ci sono i nonni, e allora diventa una famiglia più allargata. E allora ecco che dai nonni ci si rifugia spesso e volentieri.
I nonni diventano come dei complici positivi: ti insegnano a cucinare, ti raccontano delle storie, magari reali, di quello che capitava a loro da bambini. I nonni ti permettono di crescere.
La famiglia allargata è quindi una cosa positiva?
Assolutamente positiva. Perché i nonni spesso e volentieri possono dare una cosa che i genitori non danno più ai figli, che è il tempo.
Che sfide dovranno affrontare le famiglie nel futuro?
Certamente ci saranno internet e questa benedetta intelligenza artificiale, che adesso entrerà anche nei cellulari... E dobbiamo stare molto attenti perché ci potrebbe sostituire in molte decisioni: anziché prenderle noi come famiglia le prenderà il cellulare. E poi tutto quello che ci offrirà la società, tutti i vari cambiamenti che ultimamente avvengono, e che si sono accelerati nel post pandemia.
In tutto questo sarà decisivo il tornare a darci delle regole, perchè oggi, noi genitori, queste regole non siamo più capaci di darle. Abbiamo paura, paura dei nostri figli.
In che senso?
Abbiamo paura di deluderli, abbiamo paura che loro non ci vogliano più bene, perché in fondo a noi serve il loro amore.
(a cura di Antonella Savoldelli)
Non limitarti a leggere
Sui temi del lavoro come della famiglia, della vita religiosa e della partecipazione politica in queste settimane è in corso in Bergamasca una grande indagine sociologica, voluta da L’Eco di Bergamo e in collaborazione con i sociologi dell’Università di Bergamo.
Per capire come e quanto siamo cambiati negli ultimi anni. Per questo i collaboratori de L’Eco stanno realizzando tante interviste, incontrando testimoni della vita delle nostre comunità. Accompagniamo l’indagine con diversi contributi, ospitando sulle pagine e sul sito de L’Eco pareri, domande e riflessioni. Insieme al contributo di chi, bergamasco, oggi vive e lavora all’estero.
Ma soprattutto chiediamo anche a te di comunicarci il tuo pensiero. Vogliamo conoscere le tue idee, per costruire insieme a te una “missione” per il territorio bergamasco. Puoi scrivere a: [email protected]
Bergamo senza confini
Ogni settimana uno spazio riservato ai tanti bergamaschi in giro per il mondo, e che si confrontano con valori ed esperienze diverse. Le loro proposte e riflessioni sono un contributo alla nostra indagine.
«Bergamo è unica: non date per scontata la sua bellezza» (Alessandro, Taiwan)
Sono nato a Seriate e sono cresciuto tra il lago d’Iseo, Pedrengo e Bergamo. A Bergamo ho studiato alla scuola primaria Montessori e poi al Collegio Sant’Alessandro. Finite le superiori, ho lasciato l’Italia, meta la Svizzera, dove ho iniziato il mio percorso d’internazionalizzazione.
Era il 2000, un momento più unico che raro. Mi occupo di architettura e l’inizio del millennio è stato per la disciplina un periodo magico. Il capitale investito nella progettazione era esorbitante e gli effetti si potevano ben vedere ad occhio nudo. Al di là di quella spensieratezza che accompagnava il mio provenire da una famiglia di architetti di nuova borghesia, la disciplina stessa era borghese e tutti i giorni fiorivano progetti di grande bellezza così come “architetti star”. Non si poteva che venir attratti dal “luccicare” di questo lavoro, soprattutto se lo si conosceva già in famiglia.
Finita l’università è poi arrivato il tempo del master di secondo livello. Io vi sono arrivato un po’ spinto dalla motivazione di un sostanzioso premio di laurea ma soprattutto grazie a un’incrollabile sostegno famigliare. Mi sono dunque trasferito in Olanda e da lì è cominciato per me un girovagare in Paesi europei, animato da un momento disciplinare che, nonostante la crisi economica, ha retto fino al 2011. Ad ogni modo, ero ormai inserito nelle dinamiche accademiche di settore e queste mi hanno portato nel 2014 ad insegnare e lavorare a Taiwan, quasi dall’altra parte del mondo rispetto Bergamo. Ci sono arrivato per curiosità e nella speranza di trovar fortuna in un mondo cinese che mi sembrava l’ultimo “Paese estero” rimasto al mondo e altrettanto l’ultimo luogo tanto moderno quanto lontano da quel grigiore post-crisi che sentivo in Europa.
Tessere nuovi rapporti
Qui, dopo una decade, mi sono quasi ambientato. Certo, ho avuto alti e bassi, ma soprattutto la fortuna di tessere una rete sociale, una vera e propria ricchezza per me. Lo è sotto diversi punti di vista, e specialmente perchè costruita con persone molto distanti da me per usi, cultura ed educazione. La lontananza da casa la sento, in alcuni giorni, in maniera feroce, anche perchè negli ultimi anni problemi di salute hanno colpito mia madre e la famiglia inevitabilmente sta invecchiando. Nonostante ciò, il trovarsi accomunati con chi è palesemente diverso è qualcosa che non solo anima il lavoro: è una “cosa bella” e della quale non ci si può che sorprendere ogni giorno.È un aspetto che ti addolcisce le fatiche della vita. Lo dico con parole semplici, forse banali, ma esprime una realtà che non saprei dire diversamente.
Adesso dirò invece una banalità per davvero, ma: sobrietà, spirito di lavoro, abnegazione ed una certa pragmaticità hanno sicuramente aiutato a tessere questa rete. Hanno giocato in relazione al mio stare in un mondo così distante; certo, un mondo capace di essere aperto alla diversità (e di questo talvolta ancora mi sorprendo), ma bisognoso di rispetto e di interlocutori capaci di mettere in dubbio se stessi, prima e molto più che sfornare tecnicismi.
Vi assicuro che ci sono milioni di cose che diamo per scontate e scontate non sono. E con questo non parlo della mozzarella che non c’è tutti i giorni al supermercato o la lavatrice che va solo ad acqua fredda. Nemmeno del fatto che qui vestirsi formali è poi spesso superfluo, sebbene le formalità la facciano talvolta da padrone. Non parlo neppure di come siano costruite le piazze ed i marciapiedi di Taipei, che niente hanno a che vedere con quello a cui noi siamo abituati.
La fortuna che abbiamo
Vi parlo invece del fatto che Bergamo, la Bergamasca ed il nostro paesaggio sono belli da morire e come tali ci lasciano impresso un segno profondo. Certo, ogni luogo del mondo è bello a modo suo ma quello che abbiamo a Bergamo è un’eredità che non è scontato che ogni posto sulla Terra abbia.
Taipei, la città principale a Taiwan, ha una storia che per gran parte sta dentro due secoli. Il paesaggio di Taiwan ha una storia ancora più breve. E pensate che io ritengo i taiwanesi fortunati perchè sebbene la loro storia sia breve, almeno è dibattuta e dunque ricca. Anche se non sempre è una “grande storia”, nonostante Taipei sia una città globale, a tratti futuristica, qui è ancora tutto da fare e questo è sia un male che un bene.
Ecco, di questo mi sono reso conto, della fortuna infinita che noi italiani abbiamo ed allo stesso tempo del peso infinito che le nostre città e paesaggi ci “regalano”. È difficile staccarsi da loro, è impossibile prendersene cura. Ciò che abbiamo è un bene immenso ed allo stesso tempo un po’ un male.
Forse mi sono reso conto di questo grazie a quelle caratteristiche che si suol dire essere dei bergamaschi. Che queste siano veramente nel cuore dei bergamaschi, non lo so... Ciò che vi posso dire però è che mi hanno aiutato a dialogare con ciò che è diverso, rispettarlo senza adorarlo, restando orgoglioso della propria provenienza senza deprecare il resto, e scoprendo che si può trarre forza per “non mollare” da quest’incontro. Ripeto, non so se questi pensieri siano veramente bergamaschi. Ma possono aiutarci a “tirare avanti”. O almeno così hanno fatto con me.
Alessandro Martinelli (Taiwan)
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