Essere genitori oggi, alle prese con nuove fragilità. Ma chi aiuta la famiglia?

Nuovi bisogni bussano alle porte delle famiglie. Come non lasciarle sole? Le incognite sul futuro del nostro welfare.

Il welfare in Bergamasca: il 2024 sarà un anno cruciale

di Iorio Riva
sociologo – Direttore SC Network sociali, Ats Bergamo

Le famiglie nell’età dell’incertezza

Il sistema di welfare è attraversato da un complesso di mutamenti sociali, economici, demografici ed epidemiologici che si sono venuti accumulando in questi ultimi decenni con l’emergere dei fenomeni della longevità e della denatalità, di profili di salute con crescenti cronicità, con l’aumento esponenziale delle famiglie unipersonali.

L’evoluzione dei modelli familiari, quindi, insieme ai cambiamenti sociali e tecnologici hanno contribuito a creare un contesto in cui emerge una sensazione di incertezza e vulnerabilità diffusa. La famiglia esercita numerose funzioni di utilità sociale ed è la realtà grazie alla quale la società realizza la propria comunità e oggi, nel nostro Paese, riveste un fondamentale ruolo di welfare “sostitutivo” rappresentando per i suoi componenti un pilastro fondamentale sul piano educativo, affettivo ma anche sociale, economico e di cura.

Questi elementi sono confermati anche dai dati: secondo quanto elaborato dal Cerved - Centro Regionale Veneto Elaborazione, ed. 2022, il volume della spesa delle famiglie italiane per le prestazioni di welfare (istruzione, cultura, lavoro, previdenza, salute, assistenza anziani e familiari) è stata di 136,6 miliardi, mediamente 5.317 euro a famiglia. Di queste, due aree: la salute con 38,8 miliardi e l’assistenza agli anziani ed ai fragili con 29,4 miliardi assorbono da sole il 50% della spesa di welfare delle famiglie.

Tutto ciò avviene in presenza di politiche pubbliche che si caratterizzano, secondo alcuni autori, nelle “tre G”: Geografica, è ben nota la differenziazione di offerta di servizi nei diversi territori; Generazionale, con sostegni indirizzati prevalentemente agli anziani più che alle famiglie con figli; di Genere, con un’asimmetria ancora marcata nei carichi familiari e di cura tra donna e uomo.

La situazione in Bergamasca

Il nostro livello locale non è esente da questi fenomeni epocali e, pur con sostanziali differenze territoriali a livello provinciale, la famiglia composta da 1 persona è la componente numerica maggioritaria (circa 140.000) per cui serve un’attenzione alta da parte dei servizi sociali ai fenomeni di povertà relazionale, mentre quasi 350.000 persone presentano una patologia cronica con un’attivazione importante di servizi sanitari in ottica preventiva e curativa.

In questo contesto, il 2024 sarà un anno cruciale per il sistema sociosanitario ed i servizi sociali. Regione Lombardia ha infatti stabilito che dovranno essere sviluppate ed allineate in senso integrato due programmazioni triennali 2025-27: i Piani di Zona per il sociale negli Ambiti territoriali dei Comuni associati e i Piani di sviluppo dei Poli territoriali dei Distretti sociosanitari delle Asst. Per la nostra provincia, oltre che la descrizione dell’offerta sociale nei 14 Ambiti e nei 243 Comuni e lo sviluppo dei servizi sociosanitari territoriali delle nostre 3 Asst e dei 9 Distretti a loro afferenti, si tratta anche di programmare e implementare le strutture previste dal Pnrr, quali Case e Ospedali di Comunità, oltre alle Centrali Operative Territoriali, che dopo un primo periodo di sperimentazione dovrebbero nel triennio trovare un deciso sviluppo in senso territoriale e di prossimità alle comunità locali.

Anche Ats seguirà l’indagine L’Eco di Bergamo-Università

Fondamentale per queste organizzazioni sarà costruire la programmazione partendo dalla conoscenza e incrociando possibilmente dati epidemiologici di tipo sanitario e sociale con quelli documentativi e narrativi di famiglie e comunità ed è per questo che seguiremo con attenzione la ricerca e l’ascolto che Università e L’Eco di Bergamo stanno sviluppando sul territorio.

Siamo consapevoli di come negli anni l’evoluzione della società e delle conoscenze abbiano portato una profonda trasformazione nella relazione tra Istituzioni, servizi, professionisti e persone. Dalla nascita del welfare state e dal suo sviluppo sono nati i servizi pubblici essenziali (previdenza, sanità, sociale…), quello che definiamo, ancora oggi, il primo welfare, dove le persone sono definite “utenti” dei servizi che offrono risposte a dei bisogni standardizzati.

A partire dagli anni Settanta, con la crisi sociale ed economica, si è sviluppato il secondo welfare, così definito perché temporalmente successivo al primo, caratterizzato da un mix di protezioni e investimenti sociali complementari al finanziamento pubblico dei servizi (welfare aziendale, fondazioni, organismi del terzo settore...). Una parte delle persone oltre che utenti divengono così “clienti”, in quanto dotate di potere d’acquisto: esse esercitano in modo autonomo la scelta di un servizio o la soddisfazione di un bisogno acquistando le prestazioni nei limiti dell’offerta pubblica o privata disponibile.

Tutto questo fino ai giorni nostri, in cui i cittadini non si limitano a consumare i servizi o a scegliere quelli che preferiscono, ma esprimono, in molti casi, la volontà di partecipare a definire con i servizi ed i professionisti i piani d’azione relativi alla propria esigenza, segnalando non solo i bisogni ma anche le aspettative. In questa direzione, penso che temporalmente stiamo sperimentando un terzo welfare, quello della società contemporanea, vissuto dall’individuo e dalle famiglie che, non ritrovandosi in dimensioni collettive, affrontano all’interno delle proprie case bisogni e possibilità.

Nuove sfide con il Terzo welfare

Un terzo welfare molecolare e polverizzato e quindi non rappresentato, ma con un impatto rilevante in termini sociali ed economici per sanità, servizi sociali e comunità locali. Tutto ciò in un contesto sociale, globale, tecnologico e comunicativo segnato dall’ansiogena necessità e aspettativa di risolvere in fretta i problemi delle persone, che aumentano di numero, complessità e non possono essere eliminati. Qui si gioca la partita: la risposta un tempo sarebbe stata costruire nuovi servizi sociali, sanitari, di welfare, specialisti a cui affidare questi bisogni emergenti. Il problema è che, già oggi, questi stessi servizi sono oberati di situazioni irrisolvibili a fronte di un mandato istituzionale che li richiama all’universalità delle prestazioni ed a bisogni che, probabilmente, richiedono nuove mappe di lettura. La capacità di adattamento e la resilienza delle nostre famiglie, pur ridotte di numero, rappresentano una risorsa preziosa, ma sollevano molti interrogativi sulla sostenibilità di un welfare famigliare “fai da te” nel lungo termine. La sfida della programmazione del welfare locale nel 2024 e dei servizi per la triennalità prossima è sostenere ed integrare maggiormente i sistemi familiari con politiche sociosanitarie e sociali più inclusive e capaci di rispondere alle esigenze dei cittadini in un contesto in rapida evoluzione.

Famiglie in difficoltà: l’esperienza di chi opera sul territorio

Genitori sempre più fragili? Certamente sì. Un fenomeno complesso e con varie motivazioni, ma si tratta di un dato di fatto condiviso: nella società contemporanea la fatica e le fragilità dell’essere genitori sono fortemente aumentate. Una crisi che il Covid ha poi fatto esplodere, portando alcuni nuclei ad uno sbandamento ancora più forte, e portandone altri a sviluppare dinamiche di iper-protettività.

Certamente le famiglie oggi sono più sole, e andrebbero maggiormente sostenute ed aiutate. «Manca una comunità che supporta – ci dice Maria Grazia Gasparini, una vita intera come educatrice ed ora coordinatore pedagogico territoriale nell’Ambito Isola Bergamasca e Bassa Val San Martino, e coordinatrice del Centro per la famiglia -. I l senso di comunità, una volta, era diffuso. È vero, sono cambiate anche le regole, ma una volta se non potevi andare a prendere il bambino a scuola chiamavi la vicina di casa. Adesso tante famiglie non hanno più il supporto familiare, e parlo anche delle “nostre” famiglie, autoctone. Le famiglie straniere, pur senza aiuto familiare, hanno però il supporto della loro comunità, tra di loro si aiutano… La comunità oggi per vari motivi è sfilacciata, spesso assente. Oggi le famiglie hanno un bisogno maggiore di essere accompagnate quando sono in difficoltà».

Il Covid come ha accentuato questa situazione di sbandamento?

Con l’incertezza. Ha aumentato l’incertezza in generale. Anche se io aggiungo che è ora di lasciare il “post Covid”alle spalle. Il Covid, sì, è stato una catastrofe, ha tracciato una linea netta che ha diviso le comunità spazzando via i rapporti sociali. Ancora tantissime riunioni si fanno on line e se non le fai on line la gente non partecipa… Ma io mi chiedo il perché: sono bastati due anni a distruggere qualsiasi comunicazione sociale?
Voglio dire che ci sono delle situazioni che sono diventate anche degli alibi. E per questo io insisto per avere gli incontri formativi in presenza».

Forse sono cambiati anche i tempi delle famiglie?

Di sicuro, e anche i tempi della conciliazione vita/lavoro. Ho una mamma ad esempio, che ieri faceva fatica a trovare il tempo per telefonarmi per confermare l’iscrizione ad un corso. Mi dice che mi avrebbe chiamata in un secondo momento e non l’ho più sentita per tutto il giorno… Chi ha il lavoro ultimamente fa i salti mortali per far quadrare tutto.

Quali conseguenze per la famiglia?

La famiglia sempre più spesso delega ai servizi (nido, scuola, spazi ricreativi, oratorio) l’educazione dei propri figli, entrando in conflitto quando emergono delle criticità perché non si riesce più a trovare la mediazione.

Quindi non è più la famiglia che protegge oggi: sono diventati i servizi il luogo di protezione…

La famiglia protegge fin dove può e con gli strumenti che ha, e questo dipende molto da com’è strutturata.
Quando poi in famiglia ci sono dei problemi la relazione con l’esterno è spesso confusa e a volte aggressiva. La famiglia protegge, a volte in modo esagerato, e se questo accade c’è sempre un problema alla base, o di rapporto tra genitori, o di rapporto tra genitori e figli. E allora in quel caso scatta la protezione assoluta perché si alzano muri a volte invalicabili.

Da una parte abbiamo la delega, dall’altra parte abbiamo la protezione assoluta. A volte prevale l’una, a volte l’altra. Ma in entrambi i casi mancano la pazienza e l’ascolto, si agisce di impulso, giusto o sbagliato che sia.

E insieme alla delega, rimane il bisogno reale di un sostegno...

Sì, di sostegno: alcune famiglie proprio non ce la fanno.Ci sono mamme che ti dicono ‹‹io non ce la faccio più››, anche per quanto riguarda gli aspetti più semplici e di normale gestione familiare… I nonni,quando non lavorano, sono un grande aiuto anche economico,ma non possono essere l’unico sostegno.

Ma tutte queste ansie e paure non c’erano anche prima nei nuclei familiari?

Io ho insegnato per 43 anni alla scuola materna. Con alcuni genitori, ora nonni di alcuni bambini che ho avuto negli ultimi anni, mi sono trovata spesso a riflettere sul loro atteggiamento genitoriale e concordavamo come l’ansia e l’insicurezza dei figli fosse spesso ingiustificata.

E tutta questa ansia che ripercussioni ha sulla vita familiare?

Scattano conflitti per tutto. Io ho visto famiglie con genitori giovani non riuscire a gestire il conflitto ed arrivare alla separazione velocemente. In passato facevano più fatica, lavoravano su se stessi, ci pensavano, arrivavano a separarsi dopo un lungo percorso. Adesso non ci mettono niente, dalla sera alla mattina.
Quindi c’è davvero un grosso lavoro da fare sulla famiglia. Ma c’è anche un grande lavoro che deve fare la comunità: occorre tessere di nuovo una trama sociale dove intrecciare i bisogni con le relazioni e le esigenze con le risposte, recuperando il senso di aiuto reciproco: la resilienza.

(a cura di Claudia Esposito)

Non limitarti a leggere

Sui temi della famiglia, del lavoro, della vita religiosa e della partecipazione in queste settimane è in corso in Bergamasca una grande indagine sociologica, voluta da L’Eco di Bergamo e in collaborazione con i sociologi dell’Università di Bergamo.

Per capire come e quanto siamo cambiati negli ultimi anni.

Per questo i collaboratori de L’Eco stanno realizzando tante interviste, incontrando testimoni della vita delle nostre comunità. Accompagniamo l’indagine con diversi contributi, ospitando sulle pagine e sul sito de L’Eco pareri, domande e riflessioni. Insieme al contributo di chi, bergamasco, oggi vive e lavora all’estero.

Chiediamo anche a te di comunicarci il tuo pensiero. Vogliamo conoscere le tue idee, per costruire insieme a te una “missione” per il territorio bergamasco. Puoi scrivere a: [email protected]

Bergamo senza confini

Ogni settimana uno spazio riservato ai tanti bergamaschi in giro per il mondo, e che si confrontano con valori ed esperienze diverse. Le loro proposte e riflessioni sono un contributo alla nostra indagine.

«Cambiare lavoro puntando alla crescita personale»
Agnese, da Stoccolma (Svezia)

Premessa: ho vissuto dal 2008 al 2018 in Svizzera, e dal 2018 ad oggi sono in Svezia.
Io sento molto le mie radici italiane, che non so se definire bergamasche: nel senso, quando si è all’estero è sufficiente dire che si è italiani...: anche a Bergamo, come tutta l’Italia, rappresentiamo un po’ il Sud dell’Europa, con i suoi pregi e difetti. Ho un master in architettura al Politecnico, e ho cercato di laurearmi a tempo record per andarmene all’estero. Pochi mesi di lavoro in uno studio molto rinomato mi sono bastati per capire che non volevo lavorare 10-12 ore al giorno sottopagata.

Ecco: il tradizionalismo dell’Italia ha molti pregi ma anche molti difetti, purtroppo. Tra i pregi ci sono i valori della famiglia e dell’impegno. Il sacrificio è un valore neutro. I difetti sono le gabbie, gli schemi, i giudizi facili. Ho cercato di “liberarmi” da questi schemi il prima possibile, e ora posso dire che fare quello che mi rende felice in ogni fase della vita è la cosa più importante. Ho trovato un lavoro in Svizzera, paradiso dell’architettura, salario alto, vicina all’Italia. Mi sono specializzata nella direzione lavori: l’architetto non è solo un lavoro di ufficio, è anche un lavoro dinamico.

Un altro aspetto essenziale della mia vita è lo sport, che mi ha insegnato costanza, impegno, disciplina, ed ha rappresentato sempre un importante lato della mia vita sociale: perché lo sport unisce, a volte per tutta la vita!

Il 2018 ha rappresentato una soglia importante: due figli, e la decisione di trasferirmi con la mia famiglia a Stoccolma, in Svezia (mio marito è svedese). Due culture a confronto in una sola famiglia (con tre lingue parlate in casa: italiano, francese e svedese); interessante ma non sempre semplice.

Sono ripartita da zero di nuovo in Svezia (non a 20 ma a 35 anni): nuova lingua, contesto, trova lavoro, fai la mamma, sport.... Non soddisfatta del limitato ruolo degli architetti in Svezia (che non seguono i progetti in cantiere) decido che non mi va, e cambio professione nel giro di sei mesi. Studi intensivi per ottenere una licenza come “personal trainer”. Lo sport è sempre stata la mia più grande passione, e ho deciso di volerla condividere e di ispirare le persone ad una vita sana. E anche questo aspetto (vita sana, movimento) è troppo sottovalutato in Italia.

Ovviamente, commento comune: “ma butti via la tua laurea?”, “ma quanto guadagnerai?”, “ma guarda che non hai 20 anni”. La verità è che il cambiamento di carriera è una cosa quasi mai sentita in Italia, fa paura a tutti: imbocchiamo una strada e ce la siamo tatuati tutta la vita, contenti o meno: vero? Ebbene, stare all’estero mi ha offerto flessibilità mentale, mentre la ricerca della felicità è una scelta personale e caratteriale.

Cosa ne pensano gli altri? Non mi interessa, ho sviluppato una certa autonomia di pensiero. Anche se talvolta il commento di qualche amica, che mi dice: “Agnese sei un uragano”, oppure “complimenti, hai tutta la mia ammirazione” mi fa piacere. Perché attraverso i social cerco di comunicare positività, energia, e voglia di fare (a tutti, ma in particolare alle donne!): perché la felicità è una cosa semplice, ovunque, se lo si vuole!

Sicuramente da brava bergamasca mi so rimboccare le maniche in tutte le situazioni. Il sacrificio: ecco, in quanto mamma non sacrifico la mia vita per i miei figli, perché loro non vogliono questo. Come non ho mai sacrificato la mia vita personale per il lavoro. Prendo il tempo necessario per occuparmi di me stessa, e per lo sport soprattutto, perché offre salute mentale e fisica.

Un giorno un amico italiano con cui ero in bici una domenica mattina, a Stoccolma, mi disse: “Eh, in Italia non so se una mamma si prenderebbe la mattina, dalla famiglia, per andare in bici...”. Io gli rispondo: “Certo, però un uomo lo farebbe, vero?”. Non lo so, la società in Italia mi sembra ancora molto patriarcale: per la generazione dei miei genitori la cosa era normale, ma anche ora non so se le cose sono davvero cambiate.

Mi piace la mia professione attuale, ho partita iva, lavoro a contatto con le persone: se lavoro fatturo, se mi prendo più vacanze fatturo di meno. Decido quante ore dedicare al lavoro e quante alla famiglia. Cerco di andare in Italia spesso, perché i miei genitori in particolare mi mancano, e voglio che i miei figli conoscano tutta la mia grande famiglia. Ogni volta che ci andiamo sento l’amore, la generosità e la condivisione. A volte qui al Nord tutto ciò mi manca.

Carriera, lavoro, chiamiamoli come vogliamo: vedo queste cose legate alla propria crescita. Interpreto la carriera come un percorso di sviluppo personale, dove ciò che è interessante non è l’arrivo, ma il percorso in sé: in questo periodo rifletto su alcuni ambiti in cui specializzarmi, non perché ”richiesti dal mercato”, ma perchè sono problemi di cui pochi si occupano, cose un po’ tabù di cui non si parla abbastanza. E voglio aiutare le persone affette da questi problemi.

Famiglia: come dicevo un punto importante per me, che non sento così forte al nord... Ai miei figli mancano i nonni materni, i cugini. Lassù hanno gli amichetti della scuola, oppure i vicini. Ma non è lo stesso.

La religione. Stessa cosa: sono cattolica poco praticante. La religione secondo me ad una generazione come la mia ha dato molti valori, ma un po’ troppo tradizionalismo. Sicuramente i miei figli avranno da noi genitori i valori, non i tabù.

Partecipazione politica: il mio tallone d’achille, non me ne mi interesso. Lo so, è sbagliato. Purtroppo la politica mi è sempre sembrata una sorta di “circo”... Però sono molto sensibile a temi come l’immigrazione, in un mondo in cui non so se esistono ancora i confini e le frontiere. Io stessa sono un’immigrata, o no? Credo fortemente nell’integrazione, ovvero nella capacità di adattamento di una persona, e nella capacità di accoglienza dall’altro lato. Credo che parlare la lingua del paese in cui si abita sia essenziale, seppur questa lingua sia difficile (per me le lingue difficili non sono le lingue europee, ma quelle asiatiche).

Insomma, credo nella volontà, di volere e di fare. Tutti i contributi, tutti i passi verso il cambiamento, seppur piccoli, uno dopo l’altro cambiano qualcosa: rappresentano passi per scalare una montagna.

Sono contenta di vivere all’estero, non so se ce la farei a tornare in Italia (ora come ora). Ma in futuro chissà: mi accontento di re-rimpatriare 2 o 3 volte all’anno. Forse sogno una vita a metà, tra estero e Italia. Chissà se ce la farò...
Agnese Signorelli (Stoccolma)

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