Missione Bergamo / Valle Seriana
Giovedì 28 Settembre 2023
Dobbiamo recuperare il seme della fraternità
La radice della enorme capacità di cura dimostrata da Bergamo durante l’esplosione del Covid è data dal persistere di un’alleanza intergenerazionale che ha fatto da veicolo carsico di valori che negli anni recenti sembravano cancellati dall’individualismo tipico della società secolarizzata. Abbiamo allora assistito al riemergere di una «città che educa», radice di quella «città che cura» che tutti hanno ammirato. A distanza di tre anni, che cosa abbiamo imparato da quell’esperienza? La questione educativa si ripropone oggi in tutta la sua urgenza anche di fronte al malessere che dal Covid in poi i giovani sperimentano. Ne abbiamo parlato con Ivo Lizzola, professore di Pedagogia generale e sociale all’università di Bergamo.
Ivo Lizzola, professore di Pedagogia generale e sociale all’università di Bergamo, è probabilmente l’intellettuale che più è entrato nelle viscere della comunità bergamasca negli ultimi trent’anni. Vive a un tiro di schioppo dall’ospedale di Alzano Lombardo e per questo si è trovato nel bel mezzo del ciclone che ha devastato prima la Val Seriana e poi tutta la nostra provincia nell’anno orribile tra il 2020 e il 2021.
Ha accompagnato le nostre angosce di quei giorni con numerosi interventi già dal marzo 2020, molti pubblicati su L’Eco di Bergamo, incoraggiandoci a far vincere la forza della nostra umanità, ad offrire la nostra cura ai sofferenti e ai soli, a guardare oltre il buio della morte.
Educatore di lungo corso e studioso di educazione sa bene che non sono solo i più giovani a necessitare di guida, ma che anche le comunità hanno bisogno di essere educate e che la gran parte delle dinamiche sociali si giocano nell’osmosi tra generazioni. Come è successo nei mesi dell’epidemia acuta di Covid-19 a Bergamo. Si è perciò dedicato anima e corpo all’educazione sociale della nostra provincia e così ha maturato una conoscenza dei bergamaschi rara.
Con lui iniziamo il percorso di Missione Bergamo. Un lungo dialogo che inizia proprio da una raffigurazione delle caratteristiche del nostro territorio oggi, tre anni dopo il Covid.
Bergamo è anche cura e attenzione alle fragilità
«Bergamo è l’impresa, il lavoro, ma è anche la cura e l’attenzione alle fragilità - esordisce Lizzola -. È l’eccellenza sanitaria e un’incredibile capacità di tessitura, di forme, di assistenza. Bergamo è tante cose diverse, non è localismo soltanto, non avremmo avuto tanti missionari e tanti giovani nella cooperazione internazionale come quelli che abbiamo avuto nei decenni scorsi, fosse solo localismo. Bergamo è tante cose diverse nella sua storia, anche adesso è tante cose diverse, per cui può avere all’interno un bagaglio forte di storie, di testimonianze, di sogni, di esperienze, di avventure, che possono dar fiducia nella possibilità di pensare a una missione»
Che cosa ci ha insegnato la tragica esperienza del Covid?
«È stato un apprendimento della vita dell’umano, né più né meno. Abbiamo visto che la vita, le relazioni, le forme della responsabilità reciproca e il riconoscimento vivevano una torsione, un approfondimento, un riorientamento fortissimo. La vita cercava vita proprio nel momento in cui vigevano le separazioni e la paura della relazione, eppure ci si posizionava in modo che la vita potesse in qualche modo sostenersi, ci si faceva responsabili e prossimi quasi prima di volerlo».
«Si accettava di chiedere aiuto ad esempio, cosa che per i bergamaschi non è semplice...»
Si accettava di chiedere aiuto ad esempio, cosa che per i bergamaschi non è semplice, con una sincerità che in parte era dovuta alla necessità, ma in parte era anche il riconoscimento che fragilità cerca fragilità, che la fraternità è tra donne e uomini fragili, vulnerabili, che giocano qualche anno insieme. E su questo si è costruita poi organizzazione, decisione, alcuni amministratori hanno costruito un senso dell’esercizio del loro potere; alcuni curati, alcuni parroci hanno ridisegnato una pastorale nella distanza e nella necessità di farsi presenti, addirittura di chiamare a delle presenze faticosissime le persone, in gesti molto feriali e molto concreti. Stili di vita che prendevano forma in modo nuovo e diventavano stili di vita profetica, di vita sbilanciata oltre, di vita più essenziale».
Ma tutto questo ha retto nel tempo? Dopo tre anni lo possiamo verificare.
«Ora, a tre anni di distanza, noi dobbiamo scegliere se tutto ciò era eccezionale»
«Ora, a tre anni di distanza, noi dobbiamo scegliere se tutto ciò era eccezionale, dovuto alla necessità, allora chiudiamo quella parentesi, oppure se quello che abbiamo vissuto è stato un disvelamento. Cioè se ha rivelato la presenza nella vita della comunità bergamasca di stili, pratiche, cultura politica che saranno decisive per affrontare le grandi soglie dei problemi nei quali siamo già e che diventeranno sempre più evidenti nel prossimo futuro. Allora dobbiamo lavorare a recuperare il senso di questo disvelamento e a farne una grande occasione di elaborazione culturale, formativa e politica».
Che cosa impedisce un simile lavoro?
«In questi tre anni si è reimposta la guerra, si è reimposto il conflitto e pare prevalere un forte desiderio di anestetizzazione delle grandi questioni della vita, della morte, del rapporto tra le generazioni e del rapporto col futuro. La guerra rischia di essere funzionale a questa anestetizzazione, perché torna la costruzione del nemico, l’uso di una economia di guerra, la necessità di vivere da separati, di costruire nuove gerarchie, di costruire delle irresponsabilità rispetto a delle responsabilità più grandi. Viviamo questo, allora direi che a distanza di tre anni, il seme di allora va recuperato come anticipo di futuro, va recuperato appunto nel senso di quella vita che cercava vita, da fragili responsabili».
È possibile oggi, in un’era di continui sommovimenti, in cui si è voluto abbattere i confini geografici e culturali, salvo poi difenderli con le armi, che un territorio di provincia possa darsi un obiettivo comune, una missione, appunto?
«La prima virtù che bisognerà coltivare è l’umiltà»
«È possibile, non è facile. La prima virtù che bisognerà coltivare è l’umiltà. Umiltà vuol dire, per esempio, non pensare che ci siano dei saperi, dei saperi teorici o dei saperi di esperienza già capaci da loro stessi di produrre la lettura, la soluzione e la proposta. Questa cosa sarà possibile neanche raccogliendo uno, due o tre dei quali noi abbiamo più stima e reverenza. È possibile individuare una missione soprattutto se si avrà la pazienza e l’umiltà di aprire dei luoghi di dialogo culturale, di racconto di esperienze profonde, di confronto tra letture e osservazioni di ciò che sta cambiando e di chi stiamo diventando, a cui partecipino tanti soggetti diversi. Una sorta di tessitura di una conoscenza condivisa e compartecipata, da cui piano piano emerga un pensiero strategico, umile, fatto di richiami di responsabilità serie, con una attenzione continua ai figli. Sì, con un’attenzione continua ai figli. Perché un’attenzione continua ai figli è quella che ti chiede di essere generoso, di essere sincero, sì, di essere un po’ debordante, di guardare oltre»
Lei così dicendo sta descrivendo un processo, una modalità, gli attori che possono contribuire alla definizione di una missione. Ma secondo lei si può già intravedere la meta di questo percorso?
«Non è solo metodo. In questo caso è metodo fondato su degli elementi di valore, di cultura ben precisi, descrivere un processo di questo tipo è già una scelta antropologica e anche politica. Dice che per esempio la relazione è più importante dell’individuo e però la persona singola è preziosissima e non c’è relazione che possa soffocarla».
«Individuare una missione per Bergamo non è una questione intellettuale, è una questione di indagine delle tensioni profonde e migliori»
«Perché individuare una missione per Bergamo non è una questione intellettuale, è una questione di indagine delle tensioni profonde e migliori che vivono nelle donne e negli uomini che fanno la storia di questa nostra terra, che ormai è una terra collegata subito all’Europa, al Mediterraneo, al mondo. E se la “missione Bergamo” è questo, non può che emergere piano piano come formazione alla capacità di governare insieme i processi e a sostenere quei processi che scegliamo come i più preziosi da salvaguardare perché vogliamo consegnarli ai nostri figli e ai nostri nipoti».
Che cos’è per lei una missione?
«Missione ha un doppio significato. Missione è partire portando una testimonianza di umanità, possibile anche in luoghi di grande difficoltà. E missione è l’avventura verso il nuovo, lo sconosciuto. Per me è missione quella che riesce a tenere insieme il meglio di queste due dimensioni: aprire strade preservando valori. Per esempio Bergamo porterà sempre dentro
il valore del nessuno escluso e il valore, dato che è una realtà segnata dalla povertà da tanto tempo, dell’accoglienza e dalla condivisione. E, siccome è stata una terra anche di Colleoni, ma prevalentemente di soldati e di contadini mandati a fronte, un grande bisogno di pace e la grande lezione degli alpini di Nikolaievska, delle solidarietà dentro la pressione della guerra e la non augurabilità della guerra. Bergamo ha dentro queste cose, nel suo Dna. Pensiamo a come Bergamo sente con forza le dimensioni di sofferenza, anche lontane! Perché Bergamo, più di altre province, di altre terre, sente questo».
È interessante che a Bergamo quasi non esista l’industria delle armi...
«Se ci fosse ci sarebbero subito, secondo me, una resistenza etica e culturale. Dopodiché non è che non ci siano connessioni tra le banche, tra le industrie, eccetera, però è un esempio giusto della cultura bergamasca».
Nell’ultimo decennio sono stati fatti diversi progetti per il futuro di Bergamo, anche molto strutturati, molto articolati, veramente di grande qualità, ma in nessuno si trova la definizione di una missione. Perché?
«Sì, so bene di questi progetti. In essi era già deciso prima il modello di sviluppo nel quale disegnare quelle ricerche e quei tavoli, non era arrivata la crisi ancora al punto tale, nei conflitti internazionali, nell’insostenibilità del rapporto economia-finanza, non era ancora arrivata ad evidenza così grande la questione dei sistemi intelligenti, delle nuove tecnologie, dei saperi, delle tecnoscienze, il tema della sostenibilità, la crisi non era arrivata a un punto tale per dare a un progetto come quello che mi pare si voglia costruire adesso il senso di un’azione di responsabilità verso le generazioni future».
«Qui non si tratta più di innovare, qui si tratta di iniziare, qui si tratta di iniziare un attraversamento con il meglio dei saperi, dei poteri...»
«Quei progetti avevano già definito l’orizzonte culturale, che era quello fondamentalmente dell’innovazione. Qui non si tratta più di innovare, qui si tratta di iniziare, qui si tratta di iniziare un attraversamento con il meglio dei saperi, dei poteri, delle possibilità, delle consapevolezze, delle culture, per attraversare questo momento di profondissimo conflitto, di grande disorientamento e di necessità di ridisegno del rapporto con la natura e con gli altri. Siamo alle fondamenta».
Quando ha detto che la pandemia è stato un anticipo di futuro, lei ha usato l’espressione «momento di disvelamento del futuro»: quali possono essere, secondo lei i soggetti che possono farsi carico di questo disvelamento, di questo accompagnamento?
«Sono i soggetti che fanno la vita e la vita di relazione, tendenzialmente possono essere tutti i soggetti, però mi aspetto che lo siano soprattutto quelli che progettano futuro e costruiscono relazioni. Sicuramente i soggetti del lavoro, dell’impresa e dell’uso dei saperi dentro i servizi. Ma non lo sono automaticamente: dipende se si riscoprono come luoghi di responsabilità verso il futuro e di responsabilità rispetto a cosa produrre, come produrlo e produrlo in modo sostenibile, quale qualità della vita, quale mondo a venire, da preservare e coltivare per le generazioni a venire».
«Nel tessuto economico bergamasco e nel rapporto tra novità tecnologica organizzativa, forme dell’impresa, c’è una flessibilità e anche una coscienza culturale e morale sufficiente»
«Secondo me nel tessuto economico bergamasco e nel rapporto tra novità tecnologica organizzativa, forme dell’impresa, c’è una flessibilità e anche una coscienza culturale e morale sufficiente in molte componenti per farle capaci di questo. In questo si collega una tradizione fortissima bergamasca, dell’impresa sociale, dell’impresa cooperativa, ma anche della responsabilità sociale d’impresa, anche di imprese grosse e significative, è una memoria che può essere e deve essere rideclinata oggi. E penso a tutti i soggetti del lavoro, non solo i soggetti dell’impresa, che instaurino un rapporto diverso probabilmente tra lavoro e impresa, e un senso del profitto che sia responsabile e ricercato come strumento per operare un’economia di futuro e non viceversa, non l’economia dei beni fungibili e vendibili comunque, no. Un’economia dei beni responsabili, dei beni comuni».
Veniamo a un secondo soggetto.
«L’altro soggetto è sicuramente il soggetto della formazione e della cultura, e metto insieme le due cose. Noi da un po’ di anni pensiamo alla formazione come percorsi per immettere nella vita economica prevalentemente e nella vita sociale i giovani che crescono e credo che questa cosa valesse per la generazione precedente. Oggi fare formazione vuol dire decidere per il futuro, indagare dei saperi e delle discipline che vanno studiati bene, le dimensioni di responsabilità che comportano, lo dico con uno slogan: abbiamo sempre pensato che sapere è potere e quindi più sapere, più affrancamento personale, più dinamica sociale virtuosa. Direi che siamo in una stagione in cui sapere è apertura di possibilità e anche dovere, e anche obbligazione, e anche scelta, scelta responsabile, sapere è potere e dovere. Il sapere comporta un posizionamento responsabile del mondo, l’uso di una tecnica ti chiede un posizionamento».
«Ormai chi riflette seriamente sulla scuola e chi riflette anche su come preparare il mondo dei giovani alle dinamiche economiche e sociali presenti e future, sostiene che non è tanto la direzione degli specialismi e delle strumentalità quella che deve segnare esclusivamente la nuova proposta, ma è questa stagione di una consapevolezza seria della portata dei propri gesti, che poi devono essere fatti bene, ovviamente. Questo cambia lo scenario».
«Allora le scuole devono entrare continuamente in relazione con tutti i luoghi in cui le donne e gli uomini producono vita, producono cultura, producono valori e andare a indagarli e interrogarli. D’altronde questi bambini, questi preadolescenti e questi adolescenti hanno diritto di portare agli adulti le loro domande, nei luoghi di vita degli adulti, nelle istituzioni, nei servizi e nelle imprese, le loro domande rispetto a quale futuro viene consegnato in mano loro affinché loro ne siano responsabili. È più un esodo, un passaggio, una transizione quella a cui prepararli, per cui la scuola ha un ruolo importante».
E fuori, sul territorio, chi vede come soggetto in grado di accompagnare il futuro di Bergamo?
«Durante la fase acuta della pandemia, abbiamo visto le comunità cristiane giocare un ruolo importantissimo»
«Durante la fase acuta della pandemia, abbiamo visto le comunità cristiane giocare un ruolo importantissimo. In quella modalità particolare di riavvicinamento e di riapprossimazione delle storie degli uni e degli altri, di rielaborazione del senso profondo quando sei di fronte alla morte, la qualità dei gesti, delle consegne, dei racconti, delle narrazioni, della testimonianza, di ciò davvero in cui credi, della fede, diventano decisive. E le comunità cristiane che sono riuscite ad ospitare questa domanda hanno ritrovato delle forme di nuova vita, di nuova capacità di farsi vicino all’avventura umana, di accoglierla all’interno dei linguaggi, della parola».
«Le comunità cristiane sono state sorprendentemente uno dei luoghi più capaci di raccogliere l’eccedenza, la generosità, la forza di sperare contro la disperazione, la forza di tenere la vita anche accompagnando il morire, che non è una cosa da poco, non è una cosa da poco, lo facevi per tutti, non lo facevi solo per i cristiani. E lì i cristiani hanno trovato questa comunanza d’avventura con tutte le donne e gli uomini di buona volontà, avrebbe detto il nostro Papa, scoprendo che alla fine appunto la ricerca, la ricerca del senso e soprattutto della presenza in vita, è interna ad ognuno, proprio ad ognuno».
Chi ancora possiamo citare?
«Alla fine cito le case. Potrei dire la famiglia, le famiglie, però anche quelle famiglie di famiglie, quelle fraternità tra famiglie che sono nate allora e che già percorrono la sostenibilità di vita di tanti, anche al di là della pandemia, anche da prima. Queste accoglienze, queste adozioni, queste capacità di ritessere vita a partire proprio dalle relazioni fondamentali di fraternità, di genitorialità, nelle quali appunto c’è tanta dedizione, cura, affidamento, molta responsabilità. Nasce un senso del denaro, un senso dei beni molto diverso, una capacità di condivisione, una capacità di cura e coltivazione: anche questo è un luogo importante, le grandi trasformazioni avverranno nelle profezie delle vite quotidiane».
Colpisce che abbia messo come primo soggetto di questo percorso di educazione l’impresa. Questo è un fatto molto interessante che anche che altri hanno sottolineato, che va però a colpire una concezione molto diversa dell’attività d’impresa. Che anche l’impresa abbia un ruolo educativo non è più scontato, anzi probabilmente non lo è affatto, molto spesso si ha a che fare con manager molto istruiti, molto competenti, molto skillati, ma la capacità di cogliere le sfumature umane che avevano probabilmente i vecchi imprenditori, si fa più fatica a coglierla. Che consigli darebbe lei agli imprenditori che si trovano anche giocoforza a dover recuperare questo ruolo, fosse solo perché devono formare dei giovani che si fa sempre più fatica a trovare. Cosa direbbe lei a questi imprenditori?
«Mi auguro che le culture di impresa si riconoscano come diverse, anche molto contraddittorie tra loro...»
«Io mi auguro che le culture di impresa si riconoscano come diverse, anche molto contraddittorie tra loro e aprano dei sani conflitti e dei sani dibattiti profondi al loro interno. Tendenzialmente si presenta il mondo dell’impresa e dell’economia come governato da logiche, prima di tutto autonome. Già questo è discutibilissimo, è una specie di mondo circoscritto che pensa di essere autosussistente e di non dover dichiarare il senso di quel che fa nessuno: in azienda si fa così, perché è la funzionalità e l’organizzazione che lo chiede, punto. Funzionalità e organizzazione sono decise da donne e da uomini, in rapporto con l’ambiente, con la memoria, con il futuro da costruire».
«È umano, è umano, l’impresa deve chiedersi i suoi fondamenti e le sue direzioni. C’è voluta una pandemia per scoprire nei luoghi dell’impresa la densità delle presenze umane e il valore delle persone, c’è voluta una pandemia? In alcune imprese no, sicuramente c’era già da prima, ma in quei giorni si sono imposti con una forza grande i progetti di vita delle persone, sono entrati in gioco, sono stati ascoltati.
Da lì dentro io mi aspetto che parta un dibattito, una ricerca molto forte. Non è un buon segnale che sia incredibilmente aumentata la distanza tra la quantità di risorse che viene tenuta dal management rispetto a quella che viene distribuita per il lavoratore, tema che viene spesso richiamato in questo periodo. È sintomo forse di una finalizzazione, di un senso del lavoro distorti?
Moltissimi giovani oggi, e non per forza solo quelli universitari, quando scelgono le loro esperienze e entrano in questi percorsi discontinui di lavoro non per forza spesi sul territorio, a volte sì, a volte spesi in Europa o nel mondo o a volte paradossalmente spesi nel recupero di una economia di montagna, di nicchia, di qualità, in collegamento però con il mondo - portano dentro di sé continuamente la domanda: cosa vale nella mia vita, chi sto diventando, che mondo sto costruendo».
«Se fai nascere un figlio adesso, ovunque tu lo faccia nascere: il problema del futuro del pianeta, dell’equilibrio della biosfera, del mondo da consegnare e il problema di come gestire i conflitti e i grandi scontri d’interesse, te lo poni subito, ma te lo poni da dentro le vite quotidiane. E c’entra moltissimo con il lavoro e il tuo progetto di vita, c’è un rapporto nuovo tra progetto di vita e lavoro in tantissimi. Questa cosa, le culture di impresa, ma anche le culture di rappresentanza sindacale, le culture politiche la assumono come grande questione? Sono disponibili ad aprire luoghi di riflessione, di dibattito pubblico per arrivare a scelte coraggiose di allocazioni di risorse e di vincoli da mettere nell’uso delle risorse, nell’accumulo dei beni, nei riorientamenti delle gestioni dei territori a partire da queste domande?».
Per una singolare coincidenza, con la pandemia tutti si sono accorti dell’importanza dei giovani. Bergamo ne soffre la mancanza sia in termini demografici, sia in termini economici, sia in termini culturali e valoriali. Lizzola ha una pratica di lungo corso con i giovani. Chi sono i giovani bergamaschi di oggi?
«Anche i trentenni di oggi sono nati negli anni 90 e il mondo era già cambiato»
«I giovani bergamaschi di oggi sono giovani che sono nati da dentro la grande trasformazione. Anche i trentenni di oggi sono nati negli anni 90 e il mondo era già cambiato, era caduto il muro di Berlino, avrebbero vissuto dopo il terrorismo e i “grandi scontri di civiltà” (bruttissima espressione, infelice, brutta, distruttiva). Hanno vissuto la grande crisi del 2008, hanno vissuto queste transizioni continuamente aperte, hanno vissuto dentro il tempo dell’incertezza e del futuro da ridisegnare».
«Hanno vissuto anche delle dimensioni importanti, di un nuovo rapporto con il mondo, con il futuro d’altri, e nuove capacità tecnologiche, pensiamo agli agenti intelligenti che sono entrati nelle vite nostre, nei servizi, nel lavoro. Sono giovani che però sono nati in Bergamasca, hanno potuto ancora tutto sommato vivere dentro dei contesti sufficientemente provinciali, non storditi dall’immediata presenza dentro la grande metropoli che è subito il mondo. Sì, il mondo era subito anche qui, anche nelle alte valli, però c’erano le comunità, c’erano le tradizioni che reggevano, c’era una modalità attenta di vivere nella famiglia e tra le famiglie, c’erano esperienze associative molto importanti, c’erano, ci sono, ci sono state nella loro vita pur con tutte le trasformazioni».
«E poi dentro tutto questo, i giovani bergamaschi sono diventati molto diversi tra loro, noi parliamo di giovani e poi appena li incontriamo troviamo tanti mondi giovanili, le giovinezze sono profondamente diverse. E quindi bisogna stare attenti di chi parliamo quando parliamo dei giovani. Poi i giovani bergamaschi sono quelli che nella prova hanno fatto quello che hanno fatto durante la pandemia, i giovani bergamaschi sono quelli che studiano e vanno in Europa, sono nati con Orio, sono nati nella grande metropoli lombarda, subito collegata all’Europa. Che lo accettino o meno sono subito giovani europei. Le loro scuole li mandano immediatamente in giro per l’Europa, anche quelle della formazione professionale, anche gli istituti tecnici. Ho presente alcune esperienze del preside Pacati all’Istituto professionale Pesenti, prima, adesso sta continuando l’esperienza al Caniana, il Caniana della professoressa Agostinelli, e l’Alberghiero, eccetera. Portano i ragazzi durante il percorso subito in Europa, fanno respirare un panorama, una presenza, un disegno di orizzonti per i progetti di vita e forse anche un senso di responsabilità nuovi. Sono giovani interessanti, molto legati alla terra, e capaci di abitare altrove e anche quelli che vanno altrove, come dire, una tenuta delle relazioni con la terra di partenza ce l’hanno».
«Sono giovani che potrebbero valorizzare moltissimo questi aspetti. Sono partiti e nati in una terra in cui la cura, la cura delle fragilità, le solidarietà, l’attenzione alle disabilità, la cura per le terre lontane, la cooperazione internazionale, i servizi civili internazionali sono molto diffusi. Cioè: è una terra così, Bergamo, i giovani, negli oratori, nei paesi, nelle reti familiari respirano questo. Terra di emigrazione, terra di responsabilità, terra di dedizioni, moltissimo lavoro bergamasco di generazione in generazione, è dedizione. Vedono le dedizioni dei nonni e dei genitori per permetter loro di studiare o di avere i primi piccoli appartamenti con altri se devono spostarsi per il lavoro, per l’università, queste garanzie reciproche tra generazioni le vivono nelle pratiche, e quindi restano dentro di loro. Sento molti colleghi stranieri dei paesi del Sud del mondo che riconoscono uno stile particolare dei giovani della nostra terra, in questa capacità di attenzione specifica ai bisogni dell’altro e un’incredibile capacità di riprogettazione in contesti difficili, questa capacità di progettare a partire dai dati di realtà.
Riusciamo a valorizzare del tutto queste potenzialità?
«Ai miei studenti dico: voi dovete prendervi in mano la vita, anche se questo vi costasse aprire dei fronti di conflitto rispetto alle generazioni precedenti»
«Non lo so, è una sfida adulta questa, da un lato, e dall’altro però, come dico anche ai miei studenti e studentesse: voi dovete prendervi in mano la vita, anche se questo vi costasse aprire dei fronti di conflitto rispetto alle generazioni precedenti, delle discontinuità forti, non potete continuamente lamentarvi di quello che vi è stato consegnato. Ci sono generazioni di giovani che hanno avuto dalla generazione precedente le macerie di una guerra e hanno fatto una ricostruzione, più volte nella storia e anche nelle nostre comunità. Quindi io al giovane dico: fate la vita giovane che prende anche le distanze, prende l’iniziativa, si organizza e molti lo fanno. Anche qui le responsabilità reciproche tra le generazioni sono anche le responsabilità del vivere una buona distanza e un buon conflitto, mi verrebbe da dire».
«La lezione di Fulvio Manara, il mio collega che è mancato pochi anni fa: un buon conflitto tra le generazioni è decisivo, ma deve essere messo in atto da tutte e due le parti. Non deve essere distruttivo, ovviamente, deve essere un confronto di futuro, d’apertura».
Dove sono i luoghi in cui ciò avviene?
«Quando i miei studenti universitari, ma anche gli studenti del Caniana, vanno in carcere per costruire dei percorsi di apprendimento-servizio, vanno a insegnare alle persone detenute l’uso di abilità che loro hanno, che questi adulti o giovani adulti in condizioni di esecuzione penale non hanno, svolgono un servizio civile che allo stesso tempo a loro serve come apprendimento o servizio, i loro professori usano questo come occasione formativa di approfondimento, questa è una buona scuola».
«O quando i miei studenti entrano in carcere e vanno a fare i gruppi riparativi molto delicati e impegnativi, sono educatori e psicologi tra l’altro, ed entrano con forza nelle rielaborazioni delle biografie, delle relazioni, delle prefigurazioni del proprio rapporto rispetto al reato, alle vittime, alla comunità indebolita. Quando fanno questo si assumono la responsabilità di riflettere su cosa è giustizia, su quali sono le radici che portano le persone a diventare autori di reato o a ritrovarsi vittime e a come ricostruire la relazione dopo che questo è avvenuto, come recuperare spazi di vita, di responsabilità tra le vite».
«Quando i giovani entrano in contatto col carcere sono anche molto portati a elaborare una posizione critica, di rielaborazione, di proposta anche avanzata»
«Quando fanno questo certo che sono anche molto portati a elaborare una posizione critica, di rielaborazione, di proposta anche avanzata rispetto al senso comune diffuso: magari erano arrivati all’inizio portando un po’ quello sbrigativo giustizialismo che è nella cultura diffusa rispetto all’esecuzione penale. Portano questo come portato del senso comune diffuso, anche delle reattività che noi abbiamo, si scontrano con questa realtà perché sono chiamati ad un gioco di responsabilità professionale e civile, elaborano un’altra visione e entrano in un altro paradigma della giustizia e cominciano a sostenerlo: aprono in molti casi una dialettica con un mondo adulto che spesso invece è portatore di una visione diversa; chiedono che l’istituzione, anche l’istituzione carceraria, l’istituzione dell’esecuzione penale esterna, cambino e diventino più flessibili e capaci di aprire spazi per esperienze di questo tipo, perché vedono che sono esperienze che entrano in profondità cambiano le persone, le richiamano alla responsabilità. Questo secondo me è tenere attiva una buona dinamica, un buon conflitto, che fa la democrazia, che aiuta la relazione tra le generazioni».
A questo proposito come vede il fatto che ai giovani del nostro territorio è chiesto, tra i tanti compiti a cui sono chiamati e forse anche gravati, anche di essere il luogo dell’integrazione degli immigrati, che è un tema che sta diventando molto rilevante nella società bergamasca dal punto di vista statistico, ma anche dal punto di vista culturale, religioso, educativo?
«Non vanno fatte semplificazioni su questo tema, e non vanno prese scorciatoie molto rapide. Però anche qui, i nostri giovani che sono molto impegnati a cambiare la propria storia, mentre sono dentro un periodo in cui sta cambiando la storia, si trovano molto in sintonia con le avventure di giovani migranti, che anche loro stanno costruendo la propria storia. Con delle discontinuità, delle avventure, delle ricerche di fraternità, di relazioni: non sono i giovani che stanno creando problemi rispetto alle migrazioni. Ma questo tema della migrazione è un tema antropologico profondo e i giovani lo vivono profondamente come questione loro: loro stanno migrando da dentro i loro percorsi identitari e in questo si riconoscono tra loro, molto più di quello che riescono a fare gli adulti. Il viversi rivali nel conquistare il futuro è più una costruzione di una rappresentazione esterna rispetto alle vite quotidiane, alle vite concrete, alle vite dentro i luoghi di lavoro. Poi certo, continuando ad insistere a produrre rappresentazioni, queste hanno un effetto anche nelle dinamiche sociali e personali, però come sappiamo bene l’effetto delle rappresentazioni è più forte in chi non fa esperienza diretta della diversità. Chi la fa l’esperienza diretta rispetto a quelle rappresentazioni è immunizzato, chi va alle scuole superiori e soprattutto in certe scuole superiori, è subito immunizzato da questo punto di vista».
«A volte si ha la sensazione di assistere a una specie di “stato nascente” di un mondo a venire»
«Da questo punto di vista mi aspetto molto, molto di positivo. Io ho delle aule in università, da 15 anni a questa parte, profondamente segnate da una quantità di origini diversissime tra loro, e nelle quali partono a volte dei dibattiti, delle ricerche, delle riflessioni su quello che avviene nel mondo, che sono sorprendenti, in cui si ha bisogno di ascoltare cosa dice l’altro proprio perché è altro, perché anche lui è un po’ sperduto dentro gli orientamenti, bisogna sentire cosa viene dalla sua radice, da lui che viene da una terra diversa, una religione diversa, e proprio per la diversità io ho bisogno di lui o di lei. E questa cosa è sorprendente, a volte si ha la sensazione di assistere a una specie di “stato nascente” di un mondo a venire».
Il fenomeno delle baby gang che è un fenomeno tipicamente metropolitano, a Milano è diventata un’emergenza da parecchio, sembra che si stia diffondendo anche a Bergamo. Si tratta di fatti di estrema marginalità, quindi rilevanti dal punto di vista della considerazione educativa e complessiva dei giovani, oppure sono una spia di qualcosa per cui bisogna attuare una correzione di rotta?
«Io penso che siano tutte e due le cose. C’è, come dire, una fisiologica esposizione di alcuni mondi, di giovanissimi a itinerari di devianza e di marginalità nei quali si vede una relazione molto rarefatta tra questi mondi adolescenziali e il mondo adulto. Sono effetti spesso di crisi familiari, di crisi della scuola stessa, delle istituzioni aggregative, dell’incapacità di noi adulti di trovare già dall’infanzia agganci con storie familiari davvero molto faticate, molto legate alla solitudine in cui per esempio l’educazione emotiva non è avvenuta, l’incontro con l’altro nel segno della cura della relazione non è maturato, in cui il rapporto con la forza, con la violenza ha dato luogo a una sorta di atrofia dell’interiorità».
«C’è sicuramente questo aspetto e questo chiede un competente intervento nei loro contesti familiari, i loro contesti sociali, e mescolato, intrecciato a degli interventi di attenzione, di controllo, di contenimento, ma ci vuole una modulazione attenta tra queste due dimensioni. Poi c’è l’altro aspetto, quello del segnale d’altro. Le vite delle adolescenze non sono tutte uguali, è un arcipelago quello di cui stiamo parlando. In particolare noi stiamo parlando di poche isole di un arcipelago ben più grande, ma appunto quelle isole lì vivono davvero delle forme di socializzazione, di costruzione dell’identità, un senso dell’appartenenza che sfugge un po’ il mondo adulto. Non per forza sono devianti, però nella loro chiusura, rischiano di fare spazio anche a delle dinamiche di contrapposizione, di costruzione del nemico e dell’altro, di anomia, cioè di non sensibilità rispetto al valore importante della norma che ci lega in convivenza».
«A volte sono anche dell’identità de-territorializzate, non per forza sono legate alle culture d’origine, solo in parte sono legate a provenienze, nazionalità, culture, appartenenze territoriali, spesso dei genitori. Spesso sono assolutamente realtà mescolate da questo punto di vista e la grande questione che ci pongono è quella di come riportarle dentro un riconoscimento di sé in relazione ad altri. Da questo punto di vista la scuola ma anche le politiche giovanili ma anche gli oratori, le politiche territoriali possono giocare un ruolo importantissimo nel momento in cui sanno trovare delle forme di accostamento che rispettino con delicatezza le identità e i movimenti di ricerca che sono presenti in queste aree fatte anche di grandi solidarietà interne. È un paradosso. Dure nel rapporto con il fuori, queste realtà vivono a volte delle forme di gratuità all’interno e di solidarietà molto forti. Bisogna accostarli attenti al loro mondo per tradurlo in parola, in racconto, in riconoscimento dentro il gioco sociale. Questa cosa, quando avviene, è capace di riportare parti consistenti di ragazzi, che rischiano di andare anche un po’ alla deriva, ad essere risorse importanti dentro le storie educative delle scuole, e addirittura dentro le vite sociali di quartieri, di città, ma anche di paesi dell’hinterland e metropolitano. A me non piace baby gang come definizione, questa è una definizione molto adulta che è già molto giudicante e semplificante. Può andar bene in alcuni epifenomeni in cui loro manifestano se stessi, ma non coglie nulla poi di tutta la vita che sta dentro e attorno».
«Dovremmo essere preoccupati di questo più che di etichettare e di liquidare coi daspo»
«Ma queste sono forme di vita giovanissima che noi non riusciamo a leggere, a contattare del tutto, dovremmo essere preoccupati di questo più che di etichettare e di liquidare coi daspo. No, no, questi ragazzi non possiamo liquidarli, è il nostro futuro, mi verrebbe quasi da dire, dobbiamo amarli, dobbiamo preoccuparci anzitutto di incontrarli».
Chi può farsi carico di questa azione visto che molto spesso le famiglie sono assenti in questo caso, perfino la scuola perché molti di questi ragazzi non vanno nemmeno a scuola, non hanno interesse di quel tipo, chi può raggiungerli per fare questo percorso che lei auspica?
«Tutti i mondi che sono contigui e che loro incrociano. Per esempio, loro hanno un grandissimo interesse musicale, ci sono luoghi di produzione musicale dentro ai quali ci sono spesso giovani un po’ più grandi o anche adulti, che hanno la possibilità di avvicinarli. Ci sono giovani educatori che danno vita a forme di incontro e di micro coinvolgimento leggero, dentro dinamiche di ascolto, di chiamate in gioco leggere su alcuni momenti di ritualità, momenti espressivi. Se lasci solo l’iniziativa ai rave è un conto, ma ci sono tante gradazioni intermedie per non arrivare lì, nei quali puoi creare gli agganci.
«Non sottovalutiamo la scuola, perché è vero che la scuola può essere un luogo in cui si allarga ulteriormente la distanza dal mondo adulto. Ma...»
E non sottovalutiamo la scuola, perché è vero che la scuola può essere un luogo in cui si allarga ulteriormente la distanza dal mondo adulto, quando la scuola è solo giudicante, fatta di inclusione e esclusione dura. Ma quando invece il contatto avviene e la scuola è flessibile e si aprono degli spazi di presa di parola e di riconoscimento, l’effetto è grandioso. La scuola può giocare sia l’una cosa che l’altra. Le politiche territoriali possono giocare l’una cosa e l’altra. Addirittura tutto il borderline di comportamenti ai limiti della legalità o preoccupanti che vengono intercettati anche dalle forze dell’ordine, dai magistrati minorili e dalle comunità. O da chi entra in gioco non per forza con la comunità ma con microprogetti di messa alla prova o di accompagnamento educativo con una certa sorveglianza, i centri diurni, quelli giovanili, in cui vengono inviati dai servizi sociali, perché qui è un lavoro proprio sul confine tra servizi sociali e servizi della giustizia minorile».
«Non è che mancano i luoghi, vanno rinforzati, vanno resi consapevoli»
«Vi arrivano e vi trovano dei luoghi in cui possono raccogliersi, esprimersi, trovano personale competente che gli fa visitare il mondo in un altro modo, che gli fa scoprire delle dimensioni di valorizzazione diverse dalle loro. Non è che mancano i luoghi, vanno rinforzati, vanno resi consapevoli, non puoi pensare che il solo tipo d’intervento siano le politiche educative che sono collegate al lavoro delle strutture di controllo e della magistratura minorile. Ci sono tutta una serie di gradazioni precedenti per arrivare lì, sulle quali puoi formare tanto, tante persone. Puoi formare tanti volontari, ma anche tanti operatori sociali. Puoi formare il personale delle cooperative, gli insegnanti, puoi formare anche tutta una rete di capi reparto e le rappresentanze sindacali nelle aziende, delle realtà lavorative nelle quali alcuni di questi ragazzi un po’ più grandi, entrano per i primi tirocini lavorativi e incontrano persone che hanno cura di loro, altrimenti si rischia che vengono buttati fuori da queste esperienze molto presto e ne trovino motivo in più per sentirsi tagliati fuori. Si può fare molto».
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