«Con la nostra tenacia rileggiamo l’esperienza imparando dagli errori»

Numerose le lettere che ci arrivano da chi vive all’estero. Storie e riflessioni che, in questo caso, provano a rileggere l’esperienza vissuta nella pandemia.

Bergamo senza confini

Per comprendere i cambiamenti in atto nella nostra società, occorre anche fare i conti con il proprio passato, lontano o recente. Anche se talvolta doloroso. E’ necessario per trovare le direzioni di marcia adeguate per il futuro. È ciò che emerge nei contributi di questa settimana di Missione Bergamo, il cui spazio è interamente dedicato ai tanti bergamaschi in giro per il mondo.

“Quei mesi di infinita odissea
Fabio, da Manosque (Francia)

Sono originario di Boltiere e lavoro all’estero da quasi 20anni. Ho un certo rapporto con L’Eco di Bergamo: i miei genitori sono abbonati da sempre e io, nel corso degli anni, ci sono “finito sopra” alcune volte (maturità, concorsi internazionali vinti e particolari esperienze lavorative).

Vorrei provare a contribuire al vostro progetto “Missione Bergamo”, con il punto di vista di un bergamasco che vive all’estero.

I bergamaschi e il lavoro

Non è un compito facile. Inizio dando la mia definizione su cosa vuol dire essere bergamasco. Chiunque abbia senso del dovere, cultura del lavoro, positiva ostinazione…, può dirsi “bergamasco”, proprio perché tali caratteristiche erano un marchio di fabbrica della gente di Bergamo. È ancora così? Siamo ancora, noi nati a Bergamo, portatori sani di questi valori?

Non ho dati statistici per rispondere in termini assoluti. Mi limito a condividere alcune mie esperienze. Ho lavorato per un’organizzazione europea in Cile (European Southern Observatory) e ora per un’organizzazione internazionale in Francia (Iter). Quotidianamente mi confronto con colleghi provenienti da ogni parte del mondo. Fisicamente sono in Francia ma interagisco direttamente con cinesi, indiani, americani, russi, giapponesi, coreani e ovviamente europei.

Se portassi esperienze e confronti vissuti in Cile avrei gioco facile nel dimostrare la cultura bergamasca del lavoro rispetto alle attitudini sudamericane. Alzo il livello della sfida e mi confronto con l’Asia. Da poco tempo sono responsabile di un gruppo che include anche un ingegnere coreano. Una sera mi raggiunge in ufficio ed enfatizzando con eloquenti espressioni del viso mi dice: «Prima lavoravamo tanto..., ma ora con te corriamo». Il confronto con altri popoli lo chiuderei qui.

Il vero spirito “bergamasco” ha pochi rivali quando si tratta di lavoro. La domanda che dovremmo porci è: senso del dovere, cultura del lavoro, resilienza (“Móla mia”) sono sufficienti? Sono sempre usati nella direzione corretta?

Covid: è importante non dimenticare

Per dare la mia personale risposta mi aiuto descrivendo l’ esperienza di espatriato durante il drammatico periodo del Covid. Premetto che lavoro in Francia ma rientro tutti i fine settimana in Italia (nel pre-Covid viaggiavo in aereo, Marsiglia-Orio).

In aeroporto iniziavo a vedere qualcuno, pochi a dire il vero, con la mascherina che sarebbe diventata famosa e nostra compagna da lì a poco. Pensavo a un’esagerazione. Al lavoro incrociavo gli occhi terrorizzati dei colleghi cinesi. Non erano molto loquaci sull’argomento e qualche serio dubbio mi sorge. Continuo a rientrare tutte le settimane.

Arriviamo a fine febbraio 2020. I cinesi sono sempre più preoccupati, hanno notizie “vere” dalla madre patria. Alcuni stanno ospitando parenti provenienti, per vacanze, dall’ormai famosa Wuhan (ancora non lo sanno ma rimarranno bloccati in Francia per molti mesi).

Io mi muovo sempre in aereo e condivido in auto i viaggi da e per l’aeroporto di Marsiglia con un collega di Codogno. Il 21 febbraio stiamo andando in aeroporto. Mentre guido, chiedo: «Marco, hai visto i titoli del Corriere? Si parla di zona rossa per il tuo paese, rischi di rimanere bloccato e non poter tornare in Francia». Giunti in aeroporto, io prendo l’aereo per Orio, lui mestamente e con senso del dovere torna indietro in bus.

Colleghi cinesi con contatti, diretti e recenti, con gente di Wuhan, Marco e io che andavamo avanti e indietro dalle provincie di Lodi e Bergamo. Lui che, come scopriremo più tardi, condivideva il medico con il famigerato “paziente zero”, io che avevo e ho la moglie che lavora al Papa Giovanni XXIII. A mia insaputa stavo sfidando e dribblando il virus. Trascorro un pensieroso fine settimana a Boltiere e ritorno in Francia.

L’organizzazione per cui lavoro “suggerisce” di restare in Francia. Hanno paura di diffondere il virus. E così restiamo bloccati in Francia, in una zona praticamente senza casi Covid. Dall’altra parte delle Alpi mia moglie, al telefono, mi nasconde la verità e soprattutto le sue paure. Amici mi mandano i video delle preghiere trasmesse dal campanile. Inizio a preoccuparmi seriamente e mi domando cosa ci faccio da solo in Provenza quando invece la mia gente sta soffrendo. Monsieur le Président (Macron) annuncia l’imminente chiusura delle frontiere.

La sera, in corridoio, ci guardiamo in faccia tra noi quattro colleghi italiani e “transfrontalieri”. Decidiamo di abbandonare tutto, anche a costo di essere licenziati. Ci salutiamo: «In bocca al lupo a tutti». Sono contento e preoccupato allo stesso tempo, parto non sapendo quando sarei tornato. Guidando, discuto della nostra repentina ma ferma decisione con l’amico e collega Eugenio. Non lo possiamo immaginare ma non è una telefona come le solite avute in questi anni di pendolarismo. Lui è molto preoccupato per possibili provvedimenti nei nostri confronti, io rispondo che non ci succederà niente. Lui viaggia per raggiungere la famiglia a Pisa. Io sono diretto a Boltiere. Il pensiero di Eugenio con le sue tribolazioni mi commuove anche ora. Non lo rividi più nel suo ufficio in Francia. Resisterà, lavorando in telelavoro, letteralmente fino all’ultimo giorno (!) e alla fine si arrenderà a un male incurabile. Calabrese di nascita aveva da vendere lo spirito di cui si scriveva sopra.

La mia odissea tra Bergamo e la Francia

Io, più a nord, per autostrade e strade insolitamente deserte raggiungo casa. La moglie è felicissima di vedermi ma mi obbliga a una sorta di discutibile quarantena. «Noi stiamo bene, tu anche; meglio non rompere questo equilibrio, per qualche giorno vai a dormire in mansarda». Gli ordini non si discutono e così, felice di aver visto in salute moglie e figli, salgo in mansarda da dove “ascolto” il silenzio, rotto solo dalle autoambulanze da e per il vicino ospedale. Tutto mi sembra diverso e molto strano.

L’atmosfera è pesante. Mi autodenuncio all’Ats, mi chiedono da dove sono rientrato. Ridiamo amaramente confrontando le differenti situazioni (numeri di contagi) tra Bergamo e Francia. Chiamo in municipio mettendomi a disposizione per eventuali compiti di supporto. Sono già organizzati con diversi giovani che danno un generoso aiuto. Contatto i miei capi per capire come organizzare il lavoro in remoto.

Vedo, in televisione, il Vescovo pregare davanti alla statua di Papa Giovanni e mi commuovo. Mi rendo conto che la situazione è proprio critica. Inizio a tossire, la moglie mi guarda sospettosa. «Non ti preoccupare, è la solita allergia», dico credendoci e sperandoci. Non posso chiamare Carlo, il dottore del paese e amico di famiglia, per prescrivere i soliti farmaci. Lo avevano portato via, in ambulanza, direttamente dal suo ambulatorio. Stoicamente non abbandonava i suoi pazienti. Morirà giorni dopo. Disturbo un amico del liceo, un altro medico sempre di nome Carlo. È in trincea e non molla i suoi pazienti. Trova il tempo per visitarmi al telefono, capisce al volo e mi risolve i sintomi dell’allergia. La moglie si tranquillizza.

Sento al telefono qualche amico. Le notizie sono quelle che tutti noi ricevevamo a quel tempo. È morto Tizio, sta male Caio. Mi allarma la situazione dei miei due genitori anziani. In particolare il papà, invalido e bisognoso di assistenza. Le badanti si defilano, rimane però Rosanna (grazie!). Napoletana ma anche lei con lo spirito di cui si diceva.

Dopo il periodo più buio ritorno in Francia e inizia un periodo tragicomico. Ci sono i coprifuoco in Lombardia, in Piemonte, in Francia. Tutti scoordinati. Ogni spostamento è una missione calcolata. Viaggio in auto con un porta listino, con tutti i documenti che dimostrano il mio lavoro in Francia, la residenza, il domicilio, il fatto che ho famiglia in Italia. Prima di giungere al confine mi fermavo e ripassavo le frasi esplicative e gentili da spendere con la polizia francese.

Per mesi, ogni settimana, al confine (direzione Francia), sono sempre (!) stato fermato e interrogato dalla polizia/dogana/gendarmerie francese. La procedura poteva essere semplice o complicata in funzione dell’interrogante. Fortunatamente sono sempre riuscito a passare. Asimmetricamente quando rientravo in Italia, io e tutti gli altri (francesi e non) non siamo mai stati fermati, anche perché non c’era mai nessuno (!) a controllare. Basta questo per capire una delle maggiori differenze tra Francia e Italia. Se ne potrebbe scrivere, ma questa è un’altra storia.

Domande aperte su ciò che è accaduto

Ho raccontato le mie vicende legate al Covid, che sono niente rispetto all’immane tragedia che ha toccato tante famiglie, per ritornare alla domanda se i valori bergamaschi sono indirizzati nella corretta direzione.

Tutti notiamo un gran numero di commemorazioni, celebrazioni, libri che esaltano il sacrificio e la tenacia che hanno fatto da frangi flutti contro l’ondata del virus. Cosa buona e giusta ma forse non basta. Si contano i morti, si raccontano le loro vite e si accusa questo o quello in funzione dello schieramento politico di appartenenza.

Una lucida e fredda tenacia dovremmo anche metterla nel non dimenticare gli evidenti errori commessi a tutti i livelli (in Italia e fuori). Lo spirito bergamasco lo si metta anche nelle indagini e riflessioni prima e dopo degli eventi. Per capire e per giudicare (uomini e istituzioni). Per non farci trovare impreparati una malaugurata prossima volta. La tenacia va messa anche nella speculazione per capire e reagire.

Nel 1963 Richard Feynman (icona di generazioni di fisici e Nobel nel 1965) si chiedeva: «Un’epoca scientifica la nostra?». Una domanda che potremmo porci anche oggi.

Giusto alcuni spunti e domande riguardanti il Covid:

Come è stato possibile non accorgersi del numero anomalo di polmoniti che già a fine 2019 erano presenti in Lombardia?
Come è stata possibile la criminosa sottovalutazione degli eventi cinesi (che non costruiscono ospedali per hobby)?
Che senso aveva la spasmodica e inutile ricerca del paziente zero?
Che valenza poteva avere il numero dei contagi (spiattellato a destra e manca) senza parametrizzarli sul numero dei tamponi effettuati?
Il paese, seconda manifatturiera di Europa, con eccellenze ovunque, costretto a chiedere maschere per respiratori prodotti, con stampanti 3D, da qualche giovane di belle speranze.
Piani pandemici assenti od obsoleti, e mascherine (non astronavi…) insufficienti.

Cosa imparare per il futuro

Meglio fermarsi con questo triste elenco. Siamo onesti: ne abbiamo viste, sentite e fatte di tutti i colori! Si poteva fare meglio e così facendo si sarebbero salvate delle vite umane. Se non possiamo tornare indietro, possiamo però chiederci se abbiamo imparato qualcosa.

Entriamo così in discorsi filosofici e sociologici. Lascio correre e rimarco solo un semplice esempio. Una cosa certa e comprovata (scientifica!) è che la pulizia delle mani aiuta a prevenire le infezioni, quindi dopo un periodo dove abbondavano i distributori di disinfettante, ora, li abbiamo tolti da molti luoghi pubblici e/o peggio non li utilizziamo.

Ai più è sconosciuto Ignác Fülöp Semmelweis (medico ungherese) che nel 1847 scoprì che i medici dovevano lavarsi le mani prima delle visite (sembra strano ma è storia). Salvò molte giovani madri. La sua vita è da conoscere e raccontare. Lui da onorare. Ma a noi importa di gente come Semmelweis e delle scoperte scientifiche? Noi, come certificato da serie statistiche, ci teniamo le tracce di urina e batteri fecali nelle noccioline dell’ aperitivo (tutti si lavano le mano quando escono dal bagno?).

La nostra comunità pur ribollendo di tecnologia non è per niente una società scientifica (con buona pace del grande Feynman e dell’eroico Semmelweis).

I progressi tecnologici che tutti sfruttiamo non si sono evoluti parallelamente alla società. Abbiamo a disposizione, come è giusto che sia, una miriade di gioielli tecnologici ma spesso facciamo fatica a costruirci un giudizio, con basi scientifiche, su argomenti di importanza primaria. Eventi epocali come il Covid necessitano un’analisi lucida e imparziale che in tutta franchezza non mi sembra sia stata fatta. Le qualità “bergamasche” possono aiutare in questo.

Un immenso grazie lo dobbiamo a tutti quelli (dai medici alle mansioni meno qualificate ma non meno importanti) che anche sacrificandosi hanno fronteggiato l’emergenza ma il “mola mia”, ora più che mai, dovrebbe essere rivolto agli insegnanti (quelli validi e stoici) perché continuino nella difficile opera di trasformarci, generazione dopo generazione, se non in una società scientifica almeno in una di buon senso.

Senza scomodare la scienza basta infatti il buon senso per capire che il Covid e le sue conseguenza non sono state una fatalità.
Fabio Somboli (Manosque, Francia)

“Un esempio di resilienza per tutto il mondo”
Simone Francesco Liconti

Ecco il mio contributo a questo vostro progetto di “Missione Bergamo”.

Sono quasi ormai 25 anni che, per la mia professione di musicista e artista lirico, mi trovo spesso all’estero. E la nostalgia di casa, del mio bel paese e di Bergamo, la famiglia, i profumi, i sapori e suoi verdi colli (che amo profondamente visitare quando posso), tutto questo riemerge nella mia memoria, affollando i pensieri proprio per quelle immagini dolci e

armoniose, specie delle domeniche primaverili ed estive, dove tutta la flora è in piena vita.

Il mondo, si sa, non è tutto uguale: in Giappone ad esempio (paese fortemente resiliente e che amo profondamente, sia per la sua civiltà che per le usanze e i costumi) ha un suo particolarissimo fascino, con i fiori di ciliegio, i suoi boschi e foreste, il suo mare e il suo cibo.

Ciò nonostante, non credo cambierei altro paese con l’Italia. Il nostro suolo infatti, lo si ama da subito, ed è invidiato per tante ragioni! È un concentrato autoctono di una grande varietà di terreni, che danno origine a diversi colori, frutti, ortaggi e soprattutto... vino! In nessun altro paese c’è una così gran varietà di vini come in Italia; neppure la Francia, dove ho vissuto per più anni per via del mio lavoro, sia nella zona del Bordeaux sia nella terra di Avignone (terra dei Papi e dei vini) può reggere il confronto.

Neppure l’affascinante Oman, o il Qatar e gli Emirati, per quanto mi abbiano offerto molte soddisfazioni in campo lavorativo ed anche per l’ospitalità, hanno la persuasione e la cultura del nostro Bel Paese. E rifletto su come tutti questi altri Paesi abbiano reagito durante il mal comune causato dalla pandemia del Covid19, e vengo a considerare come il nostro Paese, e Bergamo in particolare, in fatto di resilienza, abbiano molto da insegnare.

Ero in Corea, a Seul, alla fine di dicembre 2019, e già i telegiornali ventilavano alcune ipotesi di influenza subdola che causa morte per polmonite proveniente dalla Cina; ma, ahimè, come sappiamo, giornali e telegiornali cinesi, non divulgarono mai la famigerata notizia!

Mi colpì particolarmente la reazione immediata che la nostra Bergamo ebbe, nel far fronte al problema ormai diffusosi su tutto il territorio bergamasco. I medici, infermieri, personale sanitario, si prodigarono con grande cura nel far fronte a questo misterioso e subdolo intruso, che riusciva ad insidiarsi nei corpi, fragili e non, di molti di noi, causandone in breve tempo la morte. Di fronte a tutto ciò, oggi ne siamo usciti vittoriosi, ma proprio grazie a quegli “angeli” salvatori, che si prodigarono a tal punto da rimetterci la loro stessa vita. Non parlo solo della Bergamasca, ma di ogni regione d’Italia, anche se, è pur vero, che è stato soprattutto il nostro territorio lombardo e bergamasco ad avere la peggio.

In tutta Europa, oggi, dovunque io vada per esibirmi, in Germania, Austria, Inghilterra e Svizzera, sapendo che provengo da Bergamo, mi chiedono ancora come stiamo vivendo, e come sia potuto accadere, che proprio lì, nella mia zona, si sia manifestato in modo cosi violento e drammatico.

Il mio essere “bergamasco” mi ha insegnato, avendo potuto osservare il mondo da molto vicino, e confrontandomi con le diversissime civiltà che lo popolano, che siamo persone coraggiose, generose, e ancor più, molto altruiste, e che, di fronte alle difficoltà più estreme, come appunto quella del Covid19, abbiamo saputo fronteggiare, con enormi rischi, questo momento estremamente difficile, per poi risollevarci, come l’araba fenice, da veri resilienti, ed ora consapevolmente più forti.
M° Simone Francesco Liconti (musicista, tenore)

A Londra per la crescita personale
(Fabio, Gran Bretagna)

Sono molto felice di partecipare al vostro progetto.

Mi sono trasferito a Londra nel 2012 dopo diversi anni di lavoro a Milano. Essere bergamasco aiuta molto in quanto siamo cresciuti con una propensione al lavoro con costante impegno che ci caratterizza e distingue, soprattutto all’estero.

Ho studiato al liceo scientifico di Alzano Lombardo per poi laurearmi al Politecnico di Milano, entrambe le esperienze scolastiche educano al senso pratico e sviluppano la capacità di risolvere i problemi.

Trasferirsi all’estero, soprattutto in città “eccezionali e uniche” come Londra, ha rappresentato per me una occasione unica, insegnando parecchio. Se ne dovessi esprimere il valore aggiunto, in una parola direi “onestà”.

L’onestà si percepisce subito dal fatto che ti senti aiutato dalle istituzioni, e non te le senti contro. Ho lavorato sino dal primo giorno e quando ho ecceduto nel pagamento delle tasse mi è stata accreditata la somma in eccesso senza che io dovessi compilare alcun modulo e in modo automatico da parte del Governo.

Onestà nell’ambiente lavorativo: a Milano lavoravo a partita Iva per lo stesso datore di lavoro che si prendeva tutti i vantaggi del lavoratore “free lance” e del lavoratore dipendente. Eri impiegato o libero professionista a seconda delle occasioni che più facevano comodo a loro.

Questo è il punto sul quale insisto sempre poichè la situazione della partita Iva negli uffici professionali è stato il principale motore che ha portato al mio trasferimento, una situazione comune, quando lavoravo in Italia, ma illegale. Onestà per quanto riguarda la crescita lavorativa che qui è meritocratica al 100%.

La caratteristica di Londra che invece apprezzo maggiormente è che si vive in una città di 10 milioni di abitanti ma sembra di abitare in un piccolo villaggio, circondato da tanto verde e tranquillità.
Fabio Pellizzari (Londra)

Non limitarti a leggere

Sui temi del lavoro come della famiglia, della vita religiosa e della partecipazione politica in queste settimane è in corso in Bergamasca una grande indagine sociologica, voluta da L’Eco di Bergamo e in collaborazione con i sociologi dell’Università di Bergamo. Per capire come e quanto siamo cambiati negli ultimi anni.

I contributi che pubblichiamo, che ci arrivano da chi vive all’estero, accompagnano questa indagine.

M a soprattutto chiediamo anche a te di comunicarci il tuo pensiero. Vogliamo conoscere le tue idee, per costruire insieme a te una “missione” per il territorio bergamasco. Puoi scrivere a: [email protected]

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