Solitudine digitale
dramma nazionale

Esiste un luogo comune secondo il quale gli italiani sarebbero socievoli e aperti, perché vivono in un Paese baciato dal sole. Niente di più falso. Un’analisi pubblicata da Eurostat, l’Ufficio statistico dell’Unione Europea, indica che gli italiani sono il popolo che si sente più solo. In media, nell’Ue la quota di persone con più di 16 anni, che non ha nessuno a cui chiedere aiuto in caso di bisogno, è il 6 per cento (nel 2015). In Italia è il 13. La quota di coloro che, invece, non hanno nessuno con cui discutere questioni personali è, ancora, il 6 per cento nell’intera Unione Europea e il 12 in Italia, superata in questo caso solo dalla Francia, al 12,3.

La statistica elaborata a Bruxelles sorprende, perché gli italiani sono considerati un popolo con forti legami famigliari e ricche connessioni personali. Più degli abitanti dei Paesi del Nord. Invece, pare che ci sentiamo più soli.

Perché? Lo spiega Claudio Mencacci, presidente della Società Italiana di Psichiatria: «L’isolamento è legato al non poter chiedere aiuto al proprio vicino di casa». Perché la perdurante crisi economica, accompagnata dalla diffusa sensazione di insicurezza, accrescono soltanto la diffidenza reciproca. «Quando spostiamo l’attenzione sul sentimento di solitudine – continua Mencacci – dobbiamo tenere conto che veniamo da un mondo di stretti nodi familiari. Siamo passati da realtà molto circoscritte a realtà decisamente più allargate. L’allentamento delle reti sociali, la perdita del senso di solidarietà e l’aumento dell’individualismo sono fenomeni più recenti nel nostro Paese rispetto ad altri Stati europei». Questo spiegherebbe perché gli italiani di oggi si sentano più soli. «Sta aumentando – aggiunge lo studioso – la percezione della solitudine, legata all’idea, che coltivavamo, di essere un Paese ipersolidale, quando invece siamo un popolo che festeggia solo quando vince la Nazionale». Anche se l’aumento di patologie, come ansia e depressione, è superiore nel resto d’Europa che in Italia, secondo lo psichiatra siamo un popolo che spesso enfatizza le proprie emozioni e passa da situazioni di grande emotività a una tendenza a lamentarsi e manifestare molto di più le problematiche rispetto alle soluzioni.

Le comunità reali sono sostituite da quelle virtuali. «Le “community” sono l’esempio tangibile di come le persone desiderino più vedersi nella virtualità che nella realtà. Non sono comunità di per sé solidali se non a parole – chiosa l’esperto – spesso giudicano o criticano, ma tolgono alla critica quella variazione empatica o emotiva che può essere colta nei suoi aspetti positivi. Nel virtuale si percepisce solo il senso crudo delle parole. La comunità virtuale – conclude il presidente della Società Italiana di Psichiatria – non risolve la necessità di una solidarietà reale, basata su presenza, ascolto, contatto, insomma su tutto quanto ci consola e ci aiuta».

Per quanto riguarda le nuove generazioni, le tecnologie informatiche digitali non solo distraggono e compromettono la concentrazione e l’attenzione. Tra i giovani si registra una crescente perdita di empatia, tanto maggiore quanto più tempo trascorrono davanti ai vari schermi. Per una maggiore longevità, poi, non c’è niente di più salutare della partecipazione attiva alla comunità reale. La vita digitale nuoce alla nostra convivenza sociale. Le relazioni umane mantenute solo attraverso e-mail o Facebook non devono e non possono sostituire il contatto reale con le persone.

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