L’Italia sempre più
un Paese di anziani

La denatalità in Italia non è un problema, è «il» problema. Qualsiasi programma di governo deve partire da questo punto. L’inverno demografico ha ripercussioni sociali ed economiche in ogni ambito del Paese. Proprio perché così importante, il tema non dovrebbe avere colore politico e sfuggire, invece, dalle strumentalizzazioni che, in passato, hanno impedito di studiare, serenamente, una soluzione. Se non riparte la natalità, l’Italia non avrà un futuro. Occorrono interventi che la favoriscano e riconoscano, nel contempo, il valore sociale della maternità e della famiglia.

La fotografia impietosa del Paese che invecchia viene dal Rapporto sugli indicatori demografici 2017, diffuso dall’Istat. Sono nati 464 mila bambini in Italia l’anno scorso, il numero più basso nell’ultimo secolo e mezzo. Le nascite sono calate, ulteriormente, del due per cento rispetto al 2016. Il numero medio di figli per donna è 1,3. La quota di popolazione tra 0 e 24 anni è scesa al 24 per cento, più bassa di oltre la metà rispetto al 1926, novant’anni fa, quando superava il 50. Da quarant’anni, ormai, non si riesce più a mettere al mondo un numero di bambini sufficiente per assicurare il ricambio generazionale.

Un autentico trauma demografico. Il 1° gennaio 2018 i residenti in Italia con almeno 65 anni erano il 23 per cento. Saranno il 26 tra dieci anni, il 31 nel 2038. Oggi gli ultra 65enni sono 13,5 milioni. Tra vent’anni saranno 18,5, mentre gli ultra 80enni diventeranno oltre 6 milioni; gli ultra 90enni, oggi 700 mila, un milione 200 mila; i centenari, 17 mila oggi, 47 mila.

Si consideri che, nel frattempo, per effetto della denatalità, si perderanno 4 milioni di persone, tra i 20 e i 64 anni, in età lavorativa. Le conseguenze sull’equilibrio dei conti di pensioni e sanità saranno inevitabili. Ci si domanda se esisterà, concretamente, una forza lavoro sufficiente per garantire le risorse necessarie, in un contesto sociale sempre più gerontologico. Un numero inferiore di persone in età lavorativa si troverà a dover sostenere una quantità di anziani ben superiore all’attuale. Chi garantirà le pensioni se diminuiranno i giovani?

Il picco di nati in Italia è stato toccato nel 1964, ben 1.035.000 nostri connazionali, concepiti sulla spinta del benessere, che aveva rivitalizzato le famiglie. Quando tutti i figli del tempo del <baby boom> saranno in pensione, come si reggerà il Paese? C’è qualcuno, in giro per l’Italia, che ci sta, seriamente, pensando e sta studiando un futuro sostenibile? Si rischia, invece, per assecondare politiche volte a conquistare i consensi di un elettorato sempre più anziano, di andare nel senso diametralmente opposto a quello che servirebbe per il futuro del Paese. Senza figli ci si sta avviando verso un progressivo e sempre più rapido declino, non solo sanitario e previdenziale ma economico e sociale.

Una reazione sbagliata alle politiche demagogiche del Ventennio fascista, dal dopoguerra in poi, ha messo al primo posto il reddito individuale rispetto a quello familiare: lo testimoniano le detrazioni fiscali per i figli a carico, rimaste sempre ridicolmente esigue. A parità di salario, il carico economico sostenuto da un nucleo con figli è ben diverso da chi non ne ha. Nessuna politica fiscale ne ha mai tenuto conto davvero. Eppure basterebbe guardarsi attorno. In Europa c’è chi da decenni è riuscito a invertire la rotta, puntando proprio sulla famiglia. Non sarà un caso se, mentre in Italia una culla è additata come un evento, i vicini francesi – non gli australiani – fanno ancora figli. Anche nel resto dei Paesi occidentali il calo c’è stato, ma più contenuto: le conseguenze, in termini di crescita della popolazione e di invecchiamento, appaiono decisamente meno drammatiche. Nell’Unione Europea è il 2,4 per cento la quota media di pil destinata alla spesa sociale per le famiglie, mentre in Italia è ferma all’1,6.

Oltre che sempre più vecchi, siamo anche sempre più tristi. In Italia ci siamo accomodati troppo a lungo sui luoghi comuni del Paese del sole, delle bellezze naturalistiche e del patrimonio culturale unico al mondo. In realtà, guardandoci attorno, siamo tra i meno allegri. La nazione più felice è la Finlandia, seguita dalla Norvegia e dalla Danimarca. Significa che la soddisfazione della gente viene più dai servizi pubblici efficienti che dal bel clima. In questa classifica, il <World Happiness Report>, stilato per la Giornata internazionale della felicità, istituita dall’Onu, l’Italia è un gradino sotto la Thailandia e due sotto il Kuwait, superata non solo da Stati Uniti e Svizzera, ma anche da Malta, Brasile e Messico.

Speriamo in una bella sorpresa nell’uovo di Pasqua.

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