Tempestività e farmaci fanno la differenza
Ecco cosa sapere per curare il Parkinson

Per tradurre la malattia di Parkinson in inglese si possono usare addirittura tre diverse parole: «disease» per indicare la patologia; «illness», le conseguenze sulla salute del malato; «sickness», la percezione della malattia a livello sociale. Sono tre sinonimi, ma mettono in evidenza tre diversi punti di vista: del medico curante, del paziente e della comunità. Le tre parole rappresentano l’evoluzione del processo di cura: da biologico a bio-psico-sociale.

Lo sguardo del medico non deve più focalizzarsi sulla malattia, ma deve comprendere l’individuo nella sua complessità e unicità, al di là dell’organismo che non funziona. Nel caso di una malattia cronica, lentamente progressiva che colpisce in prevalenza persone anziane come la malattia di Parkinson l’approccio bio-psico-sociale sembra l’unico possibile. Basti pensare che i semplici atteggiamenti del medico sono in grado di influenzare in maniera positiva la salute o la risposta alla terapia, possono avere cioè un effetto placebo. Per placebo si intende la somministrazione di una sostanza inerte accompagnata dai comportamenti e dagli stimoli di natura psicologica del medico e perfino dal colore e dalla forma del farmaco. È scientificamente dimostrato che le parole e i comportamenti facciano aumentare la dopamina nel cervello dei pazienti parkinsoniani quando questi si aspettano di ricevere una cura che funziona. L’assunzione di un placebo può essere quindi altrettanto efficace di un farmaco a condizione che il paziente conosca gli effetti terapeutici del farmaco sostituito dal placebo e riponga fiducia nel medico e nella terapia. In altre parole la fiducia è parte della cura.

La malattia di Parkinson è una malattia neurodegenerativa che in Italia colpisce circa 230.000 persone, ma è probabile che ignoranza e stigma nascondano anche una quota di Parkinson «sommerso». L’1-2% degli ultrasessantenni ne è affetto. Raramente la malattia può esordire prima dei 50 anni. È utile ricordare che non tutte le persone che tremano hanno il Parkinson e non tutti i pazienti parkinsoniani tremano; il tremore è sicuramente il sintomo più evidente, si manifesta in un solo segmento corporeo durante il riposo e scompare con il movimento.

Ancora oggi, dopo molti anni dalla sua prima descrizione, la diagnosi rimane fondamentalmente una diagnosi clinica, basata cioè su una semplice visita medica. La diagnosi si fonda sulla presenza combinata di alcuni sintomi, diversi da caso a caso, di cui spesso il paziente non è consapevole e che invece vengono notati dalle altre persone: il volto diviene meno espressivo; le palpebre sbattono meno frequentemente (ipomimia), il movimento di un braccio o di una gamba diviene difficile in assenza di dolore; i movimenti fini di una mano diventano impacciati (bradicinesia), i movimenti automatici che accompagnano alcune azioni come oscillare il braccio durante il cammino o gesticolare durante una conversazione si riducono o spariscono; la voce diventa flebile e monotona (ipofonia) e compaiono difficoltà nell’articolare le parole (disartria). Sono alcuni dei sintomi motori che permettono di fare la diagnosi, ma è il peso dei sintomi non motori a gravare maggiormente sulla qualità della vita del paziente. Alcuni di questi possono precedere di anni l’esordio dei disturbi motori e quindi non essere messi in relazione con la malattia (riduzione dell’olfatto, disturbi del sonno, depressione, stipsi). Altri disturbi insorgono nel corso della malattia in fase più o meno precoce: dolore, fatica, depressione, ansia, attacchi di panico, deficit cognitivo, alterazione della pressione sanguigna, disturbi genitourinari, gastrointestinali, demenza, psicosi.

È vero che i farmaci non guariscono dal Parkinson, ne curano solo i sintomi, ma l’assunzione della terapia farmacologica in fase precoce garantisce una buona qualità della vita per un numero di anni che può corrispondere all’aspettativa di vita di una persona sana. Da ciò l’importanza di una diagnosi precoce.

La dotazione di farmaci attualmente a disposizione è ampia e permette di personalizzare la terapia in relazione al quadro clinico, all’età e alle caratteristiche sociali del paziente. Ciò consente di trattare con successo i primi anni di malattia. La vera sfida terapeutica rimane la gestione della fase avanzata, quando compaiono le complicanze motorie e importanti sintomi non motori; quando i farmaci non risultano più efficaci. In questa fase il paziente diviene dipendente nelle attività della vita quotidiana.

Come nella diagnosi, anche la terapia si basa principalmente sull’esperienza. Il medico è l’artigiano della cura del Parkinson e la tecnologia non ha sostituito questo ruolo. Nel Presidio ospedaliero territoriale di Calcinate (POT) è attivo un ambulatorio specializzato nella diagnosi e cura della malattia di Parkinson e degli altri disturbi del movimento diretto dal dott. Luca Barbato che è anche il responsabile dell’unità operativa Assistenza Subacuta e Cronica. Malgrado sia un piccolo ospedale - o proprio perché è un piccolo ospedale - offre un servizio molto apprezzato dai pazienti parkinsoniani: la continuità nel processo di cura. Il paziente viene preso in carico dallo stesso medico che lo seguirà durante l’evolversi delle varie fasi di malattia. Il Parkinson è una malattia cronica, lentamente progressiva, in cui il rapporto paziente-terapeuta è il nodo centrale del processo di cura. Da qui parte la nuova consapevolezza.

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