«Quando mi prendi lo sguardo
cara Bergamo, sei sorprendente»

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IL VIDEO: La Bergamo che non avete mai visto: una città che lotta in silenzio
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Diario della scoperta
Trascorse un anno in provincia per il servizio militare e ne rimase conquistato. «Serbo da decenni la mia accesa ammirazione per te. Ora non posso più tacere»

Napoli-Piacenza: il treno sale correndo, fischiando speranze dal ventre del Sud; i miei passi giovani, invece, strisciano lenti, insicuri, come l’andamento incerto degli anziani che hanno assottigliato i muscoli di cuoio. Il cuore del treno schioda le pesanti corazze delle carrozze e le lancia su levigate lame d’argento, parallele e freddamente distaccate; il mio cuore, invece, è fermo sulla soglia della nostalgia di casa. Il treno sferraglia senza sosta sugli scambi azionati dall’impassibile destino; la mia anima, invece, è un convoglio di aspre lacrime deragliate nelle valigie dei ricordi mentre lascio i miei affetti.

Piacenza - Lodi: salgo sul treno locale che mi porta a Lodi, i pensieri sono rivolti alle stazioni che lentamente si fermano davanti ai miei occhi. Temo di sbagliare, di andare oltre la meta. Lo sguardo è vigile su qualsiasi cosa: sui campi, sugli alberi, sui piccoli punti di umanità curva sulla vasta campagna infinita. Ora i paesaggi della memoria familiare sono meno presenti, un po’ più lontani, li vedo solo con la coda degli occhi, sospinti dai nuovi che mi vengono incontro e mi calamitano con la forza misteriosa di una predestinazione. Lodi, arrivo.

Chiamo un taxi perché i miei bagagli sono zeppi del mio insopportabile dolore. Finalmente sto per conoscere il posto che mi è stato assegnato come contabile militare. Arrivo, scendo davanti al portone, suono, il responsabile del corpo di guardia mi annuncia al capitano R., comandante del distaccamento militare.

Mi riceve. Saluto con un marziale “attenti”, il braccio destro sollevato ad angolo acuto col gomito all’altezza della spalla. In cambio ricevo solo un floscio benvenuto formale, più il riflesso superstite di un antico addestramento del guerriero che il rituale scambio del benvenuto sincero.

Gli consegno il dispaccio ministeriale che mi riguarda, mi squadra da capo a piedi, fa scendere e salire lo sguardo interrogativo sul foglio più volte. Capisco che è sorpreso dalla mia venuta e dagli occhi perplessi lascia cadere sulla bocca infastidita un radente rimprovero per essermi recato al suo Comando. Sono nel posto sbagliato, con una specializzazione inutile e la mia presenza è un ingombro sulle sue prestabilite incombenze mattutine? Sì, sono un peso per lui, come le mie valigie lo sono per me.

Balbetto una innocente difesa nella rigida foggia ossequiante, e sotto il suo sguardo attonito mi sento perfino colpevole per non aver capito, da indovino qual devo essere, che la mia destinazione è un’altra.

Ma quale altra? E rimugino con l’ansia di scoprirla. Mi intima con la mano di aspettare. Solleva la cornetta del telefono, fa girare più volte il disco. Sento che risponde il Comando del Battaglione Logistico di Presezzo, provincia di Bergamo. Ascolto. Lì, hanno bisogno di un contabile. Mi aspettano.

Bergamo… Presezzo. Cerco di collocarle sulla cartina geografica della mia mente. Non le trovo, sono disorientato. Ecco un limite del mio addestramento: so solo riconoscere il territorio campale irreggimentato nel reticolato topografico. Ma sono fortunato. Tra un’ora, il tenente M. mi dà un passaggio. Parte con un camion, un Fiat CM52, proprio per Presezzo. Mi metto in contatto con lui.

Lodi - Presezzo: viaggiamo sull’asfalto srotolato come serpe in fuga tra le campagne del lodigiano e del bergamasco, e i campi sconfinati, sdraiati nella pianura dei frumenti e del verde smeraldo, cuciti insieme dagli alti filari di alberi in riga, mi prendono per il bavero dell’emozione: mi sento terra e respiro di questa cromatica creazione bucolica.

Ultima svolta a destra. Imbocchiamo col camion uno stretto budello prima di accedere alla piccola caserma al centro di Presezzo. Il tratto è breve e il conducente mi sgrava sul cortile di cemento.

Bergamo, la scoperta: dopo qualche giorno di familiarità col severo perimetro militare, decido di “incontrare” la gente, le persone del territorio nel libero fraseggio quotidiano della prosa locale. Stabilisco i miei primi contatti “civili” nei locali pubblici, dove posso deporre la corazza del guerriero e somigliare da umano agli umani. Mi sposto a piedi tra silenziosi pedoni, li incrocio, vedo i loro occhi ma essi non vedono i miei, guardano tutti dritti avanti, perché, penso, non vogliono rischiare l’incidente dell’incontro. I marciapiedi fiancheggiano processioni ininterrotte di automobili disciplinatamente silenziose: sembra che i clacson non facciano parte della dotazione di serie: è un ambiente urbano popolato da sciami di sbuffi ronzanti.

Ai crocicchi non ci sono crocchi vocianti, le persone vanno da sole e parlano con i propri pensieri, solo sul sagrato delle chiese convengono i fedeli per frugali commiati domenicali. Guardo, osservo, cerco qualcosa in chi mi passa accanto che mi faccia andare oltre il guscio schivo per trovare lo spirito motore di così tanta dimessa vocazione relazionale.

Mi sento invisibile, mi sento inquieto, ma nel contempo sono attratto da un’indefinibile fascinazione. È una domenica del 1980. La città mette a letto la sua economia, la parcheggia nei garage, nelle autorimesse a pagamento, lungo le strade o nei cortili condominiali, perché oggi è domenica e l’interesse del cuore e della mente è per la Parola del Signore: mi srotolo nei viali risorgimentali, mi infilo nell’anatomia patriottica della città e salgo sui colli di Città Alta.

Varco le crune delle porte veneziane sulle pudiche alture dove il tempo si allarga e il presente comprende anche il passato. Cammino sulle mura muscolose che ascendono al cielo; salgo e scendo dalle scalette panoramiche strozza e mozzafiato; passeggio sulle piazze, dove i palazzi si affacciano tra turrite altezze e costumati campanili e sul selciato delle minute vie, sento i miei passi che incontrano l’eco dei suoni di altri passi millenari.

Ora capisco bene l’origine dell’inspiegabile fascinazione: sono attratto dall’impegno concreto senza esibizione; dal contegno sobrio di una città che non si compiace allo specchio, ma cura, aggiunge ingegno e dona fogge eterne alla sua bellissima anima urbana.

Cara Bergamo: serbo da decenni la mia accesa ammirazione per te facendo mia la riservatezza che ti appartiene.

Ma ora non posso più tacere e, col garbo che mi hai insegnato tu, dichiaro quello che da sempre sento per te: sì, perché quando mi prendi lo sguardo… sei irresistibile, e un’emozione schizza felice nell’addome e nel torace proprio come l’artificio pirotecnico irradia con le sue braccia di fuoco la cupola del cielo.

Sì, perché quando mi prendi lo sguardo… sei sorprendente, ed è impossibile trattenere la meraviglia che dal profondo sale e bagna i miei occhi rapiti dalla tua amorevole scienza creativa. 
Emilio D’Avico

La fotografia:

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