«L’ultima battaglia»
Anche allora come oggi

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Ringraziamo Annalisa Di Piazza per il bel racconto che ci ha inviato. Si parla del passato, ma i riferimenti sono tutti all’emergenza che stiamo vivendo.

n memoria di chi è morto

Bene dottore, sto bene. Tutto a posto. Solo un po’ di pesantezza nel respiro. Ma che vuole che sia. Io me lo ricordo l’affanno. Quello vero. Le gambe pesanti mentre mi arrampicavo per i sentieri. Il fiato che mancava per la fatica, la paura e l’eccitazione.

Avevo 16 anni quando entrai in brigata. Mia mamma ne aveva appena 40 e mio padre 45. Era in carcere, mio padre. Aveva organizzato uno sciopero e lo avevano arrestato e deportato. Direttamente dalla fabbrica. Semplicemente non tornò a casa una sera. Mia madre fu avvisata dai suoi compagni. Neanche pianse, poverina. Forse non ne ebbe la forza.

Io avevo sentito i discorsi sotto la Torre dei Caduti. La notizia dell’armistizio si era sparsa da poco che già si era usciti tutti dalle case e si era andati in centro a sentire. Dalla Torre parlarono in tanti. Non ci furono espressi inviti alla resistenza. Erano discorsi attoniti, di chi sa di trovarsi di fronte ad un’incognita che non sa come gestire.

Discorsi che invitavano alla responsabilità. Come adesso. Come quelli che oggi sento in televisione, che neanche oggi sanno cosa fare e cosa li aspetta. Non lo sa nemmeno lei, vero dottore? Lo vedo dai suoi occhi. Che io li so leggere gli occhi. Sono vecchia. Gli occhi per me non hanno più segreti.

Poi arrestarono Turani. Poveraccio. Che adesso gli hanno dedicato una strada qui a Bergamo. Ha presente, dottore, il semaforo di via Baioni? Quello, per intenderci, dopo la Sace e il campo Utili? Via Turani è quella via lì, sulla sinistra.

Fu fucilato, Turani, poi. A Novembre. Nella caserma di Seriate. Che adesso penso... Ma se per celebrare una vita giovane, forte e vigorosa che si è spenta gli hanno dedicato una viuzza stretta così, da niente, che mai dedicheranno a noi che ci stiamo spegnendo non più giovani e vigorosi? Niente, vero? Non ci dedicheranno niente. Come se non ci fosse niente da celebrare nelle nostre vite.

Ma io so che non è così. E lo sa anche lei, dottore, vero? Altrimenti perché si accanisce tanto per tenermi in vita? Mi accudisce come una cosa preziosa, anche se non sa niente di me. E per me queste sue cure sono un conforto in questa solitudine.

Perché mi sento sola, sa? Tanto sola. Come quando percorrevo la notte con la bisaccia piena di viveri da portare ai partigiani nascosti in valle, sotto il mio bel cappotto rosso. Come quella volta che mi dovetti buttare in un canale sotto il bombardamento tedesco.

Comunque fu allora che decisi. E mi unii alla brigata. Non scelsi un buon momento. Quello di scegliere i momenti non è mai stato il mio forte. Come adesso. Che brutto momento per entrare in casa di riposo. L’inverno di quell’anno fu durissimo e già dall’autunno i rastrellamenti furono continui e tremendi. Staffetta. Io ero una staffetta. Avevo il compito di garantire i collegamenti tra le varie brigate e di mantenere i contatti fra i partigiani e le loro famiglie. Portavo lettere a mogli, fidanzate e mamme.

Me li ricordo ancora quegli occhi sgranati e muti, che imploravano notizie. Saranno così, adesso, i miei occhi? Anch’io ho occhi sgranati e muti dietro questo respiro affannoso?

Tenevo anche i contatti con il medico e il farmacista per curare le ferite e chiedere rimedi dai pidocchi. Mi aiutavano sempre, senza sottrarsi, pur sapendo che rischiavano ad aiutarci.

Eroi allora come ora, che neanche adesso vi siete sottratti dall’aiutarci, anche sapendo di rischiare. Quando raggiungevo la loro base uscivano tutti fuori come lumache. Fulmine, Volpe, D’Artagnan, Tigre. E Tarzan. Che bel figliolo era Tarzan. Ne ero pazzamente innamorata. Ma lui stava con la Gina. Era innamoratissimo e fedelissimo. La lasciò solo per morire, povero Tarzan. E ci lasciò ambedue disperate e affrante.

Poi c’era Tirem indrè. Lingua svelta. E anche le mani. Anche lui morì ammazzato. Ma ad ammazzarlo non furono i tedeschi. E nemmeno i fascisti . Fu il marito della Carla, che li sorprese a letto una mattina che era tornato prima dalla fabbrica perché c’era sciopero. A lei se la tenne e la perdonò. Ma a lui l’ammazzò. Povero Tirem Indrè.

Giovani. Belli. Risoluti. Qualcuno mio coetaneo, la maggioranza che mi potevano essere fratelli maggiori. O fidanzati. Perché non si è sempre vecchi nella vita, sa? E vedevo che gli occhi andavano subito al mio petto che si sollevava ansimante. E il fiato mi mancava . Me li ricordo i loro sguardi febbrili. E mi ricordo il mio affanno di fatica e di eccitazione. Il fiato rotto dall’emozione. Il respiro ansimante.

Gliel’ho detto. Solo che adesso non ho sedici anni. E sono stanca. E l’ossigeno che respiro non è quello dell’aria frizzante dei monti, umida di pioggia e profumata di foglie. È ossigeno pompato . Dovrebbe tenermi in vita. Ma io sono stanca, dottore. Vorrei dormire... Per questa volta la staffetta la faccia lei e faccia sapere ai miei figli e ai nipoti che questa battaglia la perdo, ma che gli voglio tanto bene.
Annalisa Di Piazza

La fotografia:

Albino Previtali, l’ultimo partigiano di Dalmine, morto nell’ottobre scorso. Il ritratto, opera di Luigi Oldani, doveva comparire sulla locandina della mostra organizzata dall’Anpi Dalmine sul 25 Aprile

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