La bellezza
delle cose fragili

«La bellezza delle cose fragili» (Einaudi) della scrittrice afroamericana Taiye Selasi si apre con una scena forte: un uomo, Kweku, muore da solo, «scalzo, una domenica all'alba, le pantofole sull'uscio della camera, come cani». Kweku è un chirurgo famoso, un ghanese emigrato in America.

Mentre lui muore suo figlio Olu è lontano, separato da «chilometri, oceani, fusi  orari e altre distanze più difficili da coprire, come il cuore spezzato, la rabbia, il dolore calcificato». L'autrice, padre ghanese e madre nigeriana, tessitrice raffinata di parole, intreccia i fili delle relazioni mettendo in scena le famiglie globali, quelle che oggi si ritrovano ai quattro angoli del mondo, con radici allentate dalle distanze, eppure in qualche modo sempre legate.
Famiglie «liquide» si ritrovano anche nell'ultimo lavoro di un'altra scrittrice di razza, cittadina del mondo: Jhumpa Lahiri, di origini bengalesi, cresciuta a Londra, poi trasferita a New York, ora, da due anni, a Roma. Nel suo «La moglie» (Guanda) racconta la storia della famiglia Mitra per quattro generazioni: da Calcutta a Rhode Island fino alla California e ritorno. È un filone ricchissimo quello dei romanzi che affondano nelle migrazioni, nelle storie di famiglie composite dei tempi d'oggi, che fanno affiorare una straordinaria complessità culturale e insieme la frammentazione tipica della società contemporanea.

Un ultimo esempio: «La cucina delle spezie» dell'indiano Mamit Majmudar (scrittore e radiologo, classe 1979, che vive in Ohio) dove una madre anziana e malata tira le fila della vita della sua famiglia: indiani di seconda generazione in America, lontani dalle loro radici, eppure in fondo ancora «stranieri» nel Paese dove sono cresciuti.

Sabrina Penteriani

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