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Lorenzo Gasparrini: decostruire per riscrivere il maschile. E tu «Che uomo sei?»

Intervista. Dai ruoli imposti alla libertà di essere: perché mettere in discussione il modello tradizionale di maschilità riguarda tutti

Lettura 5 min.

Si parla spesso di modelli maschili da cambiare, ma cosa c’è davvero da mettere in discussione? Perché sempre più uomini oggi si chiedono se esista un altro modo di essere, amare e vivere le relazioni? La maschilità, così come la femminilità, non è un’essenza naturale e immutabile, ma una costruzione sociale. Ciò che viene inteso come essere un uomo è il risultato di un sistema di aspettative, modelli, ruoli e comportamenti che si sono sedimentati nel tempo e che la società continua a riprodurre.

Negli ultimi anni il dibattito pubblico è attraversato da casi di violenza maschile sulle donne che non possono più essere letti come casi isolati. Femminicidi, stupri, controllo, gelosia trasformata in possesso: sono sintomi di un modello maschile che educa da sempre al dominio, alla repressione emotiva, alla virilità come forza senza debolezza, alla competitività. Seppur molto lentamente, stanno aumentando anche gli spazi di riflessione maschile, è un movimento carsico, reale e silenzioso, che chiede agli uomini di guardarsi dentro senza sentirsi automaticamente “colpevoli”, ma responsabili sì.

Decostruire il maschile non vuol dire annullarsi. Non si tratta di rinnegare l’essere uomini, ma di chiedersi che tipo di uomo si vuole essere. Voglio davvero aderire a un modello che mi impone di performare costantemente, anche quando sto male? Voglio un’identità costruita sul silenzio emotivo, sulla conquista, sul controllo? Oppure voglio esplorare modi nuovi di stare al mondo, nelle relazioni, nella paternità, nel lavoro?

Per molti, la parola patriarcato è scomoda perché percepita come un’accusa personale. In realtà, non indica uomini «cattivi», ma un sistema di potere radicato, che assegna ai corpi maschili ruoli di autorità e centralità in famiglia, politica, lavoro, desiderio. È una struttura che agisce anche nei gesti quotidiani: chi parla, chi viene ascoltato, chi accudisce. Spaventa perché mette in discussione ciò che sembrava naturale, rivelandone l’origine culturale. E il cambiamento fa paura, specie a chi è in una posizione avvantaggiata.

Riconoscere il patriarcato è un primo passo verso il cambiamento, è un atto d’amore verso l’umanità, verso relazioni più libere, più sane, più giuste. È la possibilità di uscire dalla gabbia. Perché il patriarcato non opprime solo le donne e le persone marginalizzate, ma anche gli uomini che non si riconoscono nei modelli dominanti. Così, la decostruzione del maschile è libertà. È la possibilità di non dover interpretare un copione scritto da altri. È un processo lungo, faticoso a volte, ma necessario, che riguarda chiunque.

Ne parliamo con Lorenzo Gasparrini, filosofo e attivista femminista, che conduce seminari, workshop e laboratori in università, enti, aziende e scuole. È autore di diversi saggi dedicati ai femminismi e alle nuove maschilità, pubblicati con vari editori, come «Tlon», «Eris», «Settenove» e «D editore».

CD: Cosa significa essere un alleato femminista? E quali responsabilità comporta questa posizione?

LG: Significa prendere parte a una lotta che non è – o almeno non nello stesso modo – la tua. La vivi, la interpreti e la sostieni, ma da una posizione diversa. Alleato è chi sostiene, ma non pretende di guidare. È presente, partecipa, ma non parla al posto di chi vive in prima persona quella battaglia. Come uomo, essere un alleato femminista significa parlare con altri uomini, far capire ai tuoi pari che sostenere è fondamentale, perché quando sarà il momento della tua battaglia, vorrai anche tu avere delle alleate accanto. Per molti uomini è una postura nuova: esserci senza essere protagonisti, sostenere senza rappresentare.

CD: Qual è il modo migliore per abbattere il pregiudizio e la resistenza di molti uomini verso i femminismi?

LG: Può sembrare banale, ma l’esperienza insegna che si parte sempre da una cosa semplice: far conoscere davvero. Il femminismo è un tema su cui tutti credono di sapere qualcosa, ma le informazioni che circolano sono spesso sbagliate, piene di pregiudizi o superficialità. Quando chiedo ai ragazzi nelle scuole una definizione di femminismo, tutti rispondono, ma spesso in modo impreciso o totalmente errato. Questo perché viviamo in un contesto culturale e mediatico che dà informazioni sbagliate, o riduttive.

CD: Come si converte lo stereotipo in comportamento positivo?

LG: La prima cosa da fare è smontare quelle convinzioni che molti uomini si portano dietro. E farlo non con accuse, ma dialogando. Per esempio: nessuno ce l’ha con te perché sei un uomo. Il femminismo non è una guerra contro il genere maschile. Il problema non sono “gli uomini” in quanto tali, ma il maschile come insieme di valori e poteri sociali che vengono associati a quel genere (e che possono essere esercitati anche da una donna). È quel sistema di potere che il femminismo cerca di decostruire, ovunque si manifesti: nei media, nel linguaggio, nei rapporti interpersonali. Basta poco per capirlo: leggere, ascoltare chi fa attivismo, confrontarsi. Ti accorgi subito che molte delle idee che avevi erano costruzioni sociali. E che il femminismo, alla fine, serve anche a te.

CD: Eppure questa decostruzione del maschile sembra spaventare così tanto, qual è il primo passo?

LG: Bisogna chiedersi «chi ha deciso che dovevo essere così?». Decostruire non vuol dire buttare via, ma prendere pezzo per pezzo ciò che sei, ciò che fai, e chiederti da dove arriva, chi te l’ha insegnato, se l’hai scelto davvero. E poi decidere: questo lo tengo, questo lo cambio. Un primo passo fondamentale è il linguaggio, modificare le parole che usiamo ogni giorno è potentissimo. Alcune espressioni, modi di dire, battute, sono veicoli di potere sessista. Vanno cambiate e va fatto notare anche agli altri: l’amico che fa la battutaccia, quello che crede di fare un complimento, ma è solo molesto. Quando inizi a cambiare linguaggio, ti accorgi di cose che prima non vedevi. Percepisci ingiustizie che prima ti sembravano normali.

CD: E nelle relazioni affettive, quali sono i primi comportamenti su cui lavorare?

LG: Dico spesso che la gelosia può anche essere un sentimento umano, naturale, ma il controllo no. Decostruire significa anche riconoscere questo comportamento e scegliere di fare altro. Soffri di gelosia? Piangi, sfogati, parlane, ma non controllare. Ciò porta a un altro punto chiave: la gestione della sofferenza. Agli uomini viene insegnato che mostrare dolore renda “meno maschi”. Ma chi l’ha deciso? È una costruzione sociale, quindi si può cambiare. Se riesci a riconoscere che certe cose le hai imparate, allora puoi anche disimpararle. Quando lo fai, ti rendi conto che il femminismo può aiutare a liberarti da tutti quei modelli che ti danneggiano senza che tu nemmeno te ne accorga.

CD: Ci sono molti uomini interessati al femminismo, ma gli spazi di discussione sul maschile sono pochi, a cosa è dovuta questa reticenza al confronto?

LG: È uno dei più forti condizionamenti patriarcali che si subiscono, che costruiscono questa identità. Non si fa mai un discorso di genere tra uomini. Guarda come viene utilizzata la parola stessa: le donne sono un genere, le persone trans sono un genere, ma gli uomini no. Non si parla mai di uomini come di un “genere”. Abbiamo tanti problemi individuali, ma non abbiamo mai problemi pubblici. È un grande tabù. Se qualcosa non va, non è mai visto come un problema degli uomini tutti, ma come un problema personale. Poi c’è anche l’idea sbagliata che parlarne significhi assumersi una colpa. Ma non è così. Il colpevole della violenza è chi la commette, chi non partecipa non è colpevole. Ciò che ci viene chiesto in quanto uomini è di assumere una responsabilità collettiva.

CD: Dove inizia il cambiamento reale?

LG: Molti uomini si giustificano dicendo «Io non faccio niente, non sono violento, non faccio male a nessuno, perché dovrei fare qualcosa?», ma anche non fare niente è un problema. Se non fai nulla, la situazione non cambia. Se non vuoi essere visto in un certo modo, devi comportarti diversamente. Mostra comportamenti sociali alternativi, che possano dimostrare che essere maschio non significa aderire agli stereotipi di sempre.

CD: Porti spesso queste tematiche nelle scuole, come reagiscono le nuove generazioni? Percepisci un cambiamento nei comportamenti delle nuove generazioni rispetto alle precedenti?

LG: Oggi i giovani sono più disposti al dialogo. Quando discutono tra di loro, si attivano. È importante che ci sia conflitto e discussione, perché significa che la cosa interessa loro e vogliono capire cosa è giusto e cosa no. Riconoscono certi comportamenti come problematici, mentre in passato si sarebbero visti come parte delle emozioni sentimentali. Ci sono differenze generazionali, certo. Parlando di gelosia, se chiedi ai giovani cosa ne pensano, ti ridono in faccia. Per loro è roba da vecchi. Ma se parli di comportamenti controllanti, allora si accendono. Tra loro, il controllo è un problema serio. Purtroppo, non sempre capiscono dove stia il problema. Ad esempio, usano app per monitorare gli spostamenti degli altri. Lo fanno e lo trovano normale, una normalizzazione pericolosa.

CD: Se un uomo di qualsiasi età volesse avvicinarsi al femminismo per contribuire al cambiamento effettivo, da dove dovrebbe partire?

LD: La cosa fondamentale è informarsi, serve una base di conoscenza. Poi bisogna provare a cambiare il proprio linguaggio, mettere in discussione il modo in cui ci si esprime nelle proprie relazioni, vedere come gli altri reagiscono e trovare altri uomini che vogliano parlarne. Il primo passo è il più difficile, perché implica affrontare tutto il peso dei condizionamenti patriarcali. Ma non ho mai visto un uomo che abbia fatto quel primo passo tornare indietro. Se vuoi cambiare, devi affrontare questa difficoltà, ed è l’unica cosa che davvero può fare la differenza.

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