L’ultimo aggiornamento del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria segnala 2.729 donne recluse, su 62.165 detenuti. Dati alla mano, circa il 4% del totale (a Bergamo, su un totale di 600 detenuti, la sezione femminile conta una quarantina di posti). «Se si devono creare attività o stringere partnership con aziende, si tendono a privilegiare i reparti maschili, anche solo per questioni puramente organizzative» ci spiega Oriana Binik, ricercatrice in Criminologia all’Università Bicocca di Milano. Ne consegue uno svantaggio concreto, che colpisce anche la dimensione relazionale delle donne in carcere. Di questo parliamo direttamente con la dottoressa Binik.
MF: Come qualificherebbe la natura delle relazioni tra le detenute?
OB: È un tema complesso e ricco di sfumature, andrebbe avvicinato con la massima delicatezza e attenzione. C’è una difficoltà relazionale ma non sento di voler contribuire al ritratto cupo della detenzione femminile. Sono nati piccoli gruppi composti da due o tre donne che coltivano relazioni intime molte profonde, diventando così una risorsa preziosa l’una per l’altra. Nonostante ciò le donne sono oggetto di narrazioni che sviliscono la loro capacità di creare connessioni e alleanze.
MF: Come vengono raccontate le donne in carcere?
OB: Molti operatori e operatrici descrivono le donne come capricciose o infantili. I detenuti uomini a volte temono l’impulsività della componente femminile, la descrivono come iperaggressiva e si sentono spaventati. Spesso sono le donne stesse a portare avanti questa narrazione. Non possiamo negare l’esistenza di episodi in cui è evidente una conflittualità accesa, ma allo stesso tempo non vorrei raccontare la detenzione femminile a partire da ciò che manca, dai deficit. Anche perché alcune donne ne sono consapevoli, cercano di indagare a loro volta le differenze, senza però trovare una risposta: «Siamo pazze o ci rendono pazze» è una frase che una detenuta ci ha ripetuto diverse volte.
MF: Da cosa potrebbe derivare questa conclusione?
OB: I fattori sono diversi, per la maggior parte ambientali e di contesto. In carcere si perdono i riferimenti fondamentali: gli spazi, la routine, gli oggetti di uso quotidiano, il senso di autoefficacia. Ma questi sono temi generali, che valgono sia per il maschile che per il femminile. A livello di opportunità però il contesto del carcere maschile offre di più rispetto a quello femminile. La percentuale di donne in carcere negli anni è rimasta stabile ed è molto inferiore rispetto alla porzione maschile. Quindi, nel concreto, se si devono creare attività o stringere partnership con aziende si tendono a privilegiare i reparti maschili, anche solo per questioni puramente organizzative.
MF: Come si può creare un contesto favorevole alla relazione femminile in carcere?
OB: È importante fare uno sforzo cognitivo e interrogarsi sul contesto: è questa la chiave di lettura. Frequentemente partiamo dall’esperienza maschile pensando che sia l’universale neutro, ma non è così. Ci sono delle differenze che bisogna essere in grado di ascoltare. C’è un bisogno di sorellanza, ma c’è anche la necessità di costruire interventi per rafforzarla. È un processo che va fatto con le donne, non per le donne, partendo dai loro bisogni e desideri ed evitando di aspettarsi che uomini e donne reagiscano allo stesso modo.
MF: È una tipologia di lavoro e di ricerca che qualcuno sta portando avanti?
OB: Credo siano fondamentali i lavori di Susanna Ronconi e Grazia Zuffa che, oltre ad aver arricchito la letteratura sul tema, hanno condotto dei laboratori in carcere, con il fine di far riscoprire alle detenute le tante identità che le animano. Le donne stesse spesso si riconoscono solo nei fallimenti o nelle esperienze traumatiche vissute. Non nego di certo l’importanza di questi eventi nella vita del singolo: è però rischioso far corrispondere l’identità femminile solamente all’identità della vittima. È importante riscoprire anche il desiderio e riattivare le energie desideranti.
MF: Nel quotidiano invece ci sono figure specializzate nel supporto alle donne all’interno del carcere?
OB: Il carcere fortunatamente è un’istituzione sempre più porosa. Ci sono volontari, realtà del terzo settore, agenti di polizia penitenziaria sempre più vicine al ruolo di cura, funzionari degli uffici pedagogici, esperti ex art. 80 e SerD. Il lavoro enorme di accompagnamento delle persone verso il cambiamento di sé, svolto in carcere e negli uffici di esecuzione penale esterna, non viene sempre raccontato. Ma esiste e coinvolge molte persone, soprattutto donne che quotidianamente sono impegnate nell’affiancare i percorsi di altrettante donne.
MF: Dunque, seguendo il ragionamento portato avanti fino ad ora, risulta complicato definire anche la relazione tra le detenute e le operatrici?
OB: Esattamente, non si può generalizzare. A volte alcune donne scoprono in carcere per la prima volta l’occasione di seguire un percorso piscologico o di dedicarsi ad attività artistiche. In molti casi si tratta di persone che hanno condotto vite talmente ai margini che l’incontro con queste opportunità è un cambiamento in positivo incredibile. Soprattutto per chi ha la disponibilità di coglierle e valorizzarle. Ovviamente le situazioni sono molteplici, c’è anche chi si lamenta di non avere abbastanza.
MF: In conclusione, possiamo dire che serve un punto di vista inedito per affrontare la tematica e la situazione femminile in carcere?
OB: Assolutamente. È giusto denunciare ciò che manca, ma al contempo è controproducente imputare le mancanze di cui abbiamo parlato a un deficit strutturale femminile. Nelle relazioni tra detenute ci sono aspetti positivi, è importanti concentrarsi su quelli e potenziarli, espanderli con attenzione al contesto. Bisogna concentrarsi sugli ambienti femminili, in modo tale che queste risorse possano fiorire.