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Diplomazia di genere: perché le donne devono sedersi ai tavoli degli accordi

Intervista. Nei contesti di guerra è prezioso il lavoro quotidiano di mediazione comunitaria svolto dalle donne. Ce lo spiega Loredana Teodorescu, Responsabile del Network delle Donne Mediatrici del Mediterraneo

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Ambasciatrice donna a un summit sulla politica climatica internazionale (Shutterstock)

Nell’ultimo mese, sulle pagine di Eppen abbiamo dedicato ampio spazio alla parità di genere, cercando di estendere il dibattito sul tema oltre l’8 marzo, per dedicargli lo spazio e l’approfondimento che merita. Il nostro viaggio, che trovate racchiuso nella sezione dedicata del sito web di Eppen, ci ha portati in territori di confine dove ancora è difficile parlare di parità di genere (nella medicina, nella tecnologia e persino nelle pieghe della neonata Intelligenza Artificiale).

Oggi entriamo nel mondo della diplomazia, dove troviamo le donne come decisori politici (“deciditrici” si direbbe), policymakers e attrici delle relazioni internazionali. Quante (e quali) sono le figure femminili ai tavoli diplomatici? Chi sono le donne che stanno costruendo il futuro delle aree “calde” del mondo, dall’Ucraina al Medio Oriente? Lo abbiamo chiesto a Loredana Teodorescu, Referente per le questioni di genere dell’Istituto Affari Internazionali (IAI) e Responsabile del Network delle Donne Mediatrici del Mediterraneo, nonché Presidente dell’antenna italiana del network Women In International Security (WIIS).

BA: Quante sono le donne che lavorano nelle relazioni internazionali e nella diplomazia?

LT: L’ultimo rapporto annuale del Segretario Generale delle Nazioni Unite nell’ambito dell’agenda «Donne, Pace e Sicurezza» ci dice che nel 2023 le donne erano il 9,6% dei negoziatori, il 13,7% dei mediatori e il 26,1% dei firmatari degli accordi di pace. Però se escludiamo il caso eccezionale degli accordi di pace tra la Colombia e il gruppo armato delle FARC - che hanno visto una partecipazione femminile estremamente ampia - l’ultima cifra scende all’1,5%. Non ci sono stati progressi sostanziali rispetto al passato: i Ministri della difesa donne sono il 13% del totale, i Ministri degli esteri il 12,5%, le ambasciatrici e le rappresentanti permanenti il 21%.

BA: E in Italia? È vero che fino a poco tempo fa parlare di “ambasciatrice” significava indicare “la moglie dell’ambasciatore”?

LT: Il 24% dei lavoratori nel campo della diplomazia è di sesso femminile. Tra le Ministre degli esteri contiamo Federica Mogherini nel 2014, Emma Bonino tra il 2013 e il 2014 e Susanna Agnelli tra il 1995 e il 1996. Nel campo della Difesa abbiamo dovuto aspettare il 2018, con Roberta Pinotti nei Governi Renzi e Gentiloni. E sì, nell’ambito diplomatico, fino a qualche tempo fa l’ambasciatrice era considerata la moglie dell’ambasciatore e la possibilità che una donna potesse intraprendere questo tipo di carriera non era nemmeno contemplata. C’è un cambiamento in corso, ma ci vorrà ancora parecchio tempo.

BA: A cosa dobbiamo questo divario?

LT: In Italia scontiamo un ritardo nelle tempistiche: le donne sono entrate in diplomazia solo nel 1967, a seguito di una sentenza del 1960 della Corte Costituzionale che apriva le carriere pubbliche al genere femminile. La prima ambasciatrice italiana all’estero è stata nominata solo nel 1985. In alcuni contesti sono le modalità di accesso alla carriera diplomatica a prediligere gli uomini, magari con test d’ingresso che sono pensati ancora in modalità non inclusive. In generale, la Banca Mondiale ci dice che ci vorranno 130 anni per colmare il divario di genere in politica internazionale. Per ora siamo orgogliose di constatare che le giovani donne non si precludono più alcuna carriera e hanno dei modelli da cui trarre ispirazione: la testimonianza delle diplomatiche e delle ambasciatrici favorisce l’emulazione delle nuove generazioni.

BA: Dove si collocano le resistenze alla conquista della parità di genere in diplomazia?

LT: In Italia e non solo, esiste ancora la convinzione che alcuni settori siano prettamente maschili. Le carriere internazionali e le professioni in ambito di sicurezza sono associate più frequentemente agli uomini per le difficoltà nel conciliare vita lavorativa e famigliare e per i rischi per la sicurezza personale. Talvolta a fermarsi davanti a questi stereotipi sono le stesse giovani donne. Ci sono però anche degli ambienti apertamente ostili all’accesso femminile e alla progressione di carriera. Ed è proprio per creare uno spazio sicuro tra le donne che lavorano nella politica internazionale e per creare una rete è nato «Women in International Security» (WIIS), la rete di cui WIIS Italy fa parte: il nostro obiettivo è quello di costruire un network di sostegno e sensibilizzazione, ma anche di facilitare l’accesso femminile alle professioni internazionali.

BA: Riconosce un diverso approccio alle relazioni diplomatiche tra donne e uomini?

LT: Non voglio generalizzare troppo, ma le donne sono note per alcune caratteristiche specifiche di leadership, come la capacità di ascolto, l’empatia e la visione di lungo periodo. L’approccio femminile guarda più attentamente al bene collettivo e alle future generazioni. Uno dei tratti caratteristici delle donne nelle relazioni internazionali è la minore propensione al rischio, che le rende fondamentali nei processi diplomatici di mediazione e di dialogo. Non dobbiamo poi dimenticare il ruolo specifico che le donne hanno nelle loro comunità: nei contesti di conflitto, per esempio, le donne portano al tavolo una conoscenza molto specifica delle popolazioni, soprattutto di quelle femminili, con idee, proposte e posizioni che possono rivelarsi risolutive nei negoziati. Nel settore dei processi di pace, invece, ci sono studi che provano che il coinvolgimento femminile aumenta la possibilità di raggiungere accordi e, soprattutto, li rende più sostenibili e duraturi nel tempo.

BA: Nei contesti di guerra del mondo contemporaneo, come l’Ucraina, qual è il ruolo svolto dalle donne?

LT: In Ucraina, l’impegno femminile è enorme. Ci sono donne coinvolte in prima linea nel conflitto, ma anche giornaliste, infermiere e persino persone che vivono all’estero e che sono diventate loro malgrado delle “ambasciatrici informali” del loro Paese, battendosi per sensibilizzare le opinioni pubbliche alla causa di Kiev. Dentro i confini ucraini, ci sono casi di politiche che hanno preso in mano la gestione delle loro comunità, rafforzandone la resilienza a partire dalle famiglie. Vista la loro importanza, credo che sia fondamentale includerle anche nei processi negoziali che stabiliranno il futuro del Paese e la sua ricostruzione.

BA: Un altro fronte “caldo” è quello del Medio Oriente, a quale livello giocano le diplomatiche?

LT: Sono entrata a contatto con tante donne con cui lavoro quotidianamente per il raggiungimento della pace e della stabilità in Medio Oriente. Ci sono tante libanesi: il Libano è un Paese che ha bisogno di riconciliarsi con il suo passato e di lavorare per una pace positiva, che riesca a oltrepassare le divisioni tra i gruppi all’interno della società. Questo lavoro di mediazione comunitaria viene eseguito dalle donne: una di queste è Lea Baroudi, che ha ricevuto numerosi riconoscimenti per il lavoro che ha svolto nel nord del Libano, al confine con la Siria, con la sua ONG March.

BA: Nel vostro network ci sono anche donne originarie di Israele e della Palestina?

LT: Sì, ci sono sia le une che le altre. La situazione, al momento, è molto delicata perché il conflitto ha portato a una forte polarizzazione. Eppure, le nostre rappresentanti lavorano per tenere vivo il dialogo. Abbiamo anche donne cipriote: a Cipro il processo di pace è congelato, ma il Network delle Donne Mediatrici del Mediterraneo mantiene il dialogo tra le due parti dell’isola per far ripartire i tavoli. Infine, WIIS lavora da anni in Afghanistan. È un contesto in cui i diritti femminili sono stati completamente cancellati. Ma è anche un Paese in cui ci sono tantissime donne che desiderano posizionarsi in prima linea per decidere come sarà il futuro. Le donne leader afgane con cui lavoriamo sono state costrette ad abbandonare il loro Paese dopo il rientro dei talebani a causa della loro esperienza pubblica e politica. Sono ambasciatrici, che hanno negoziato gli Accordi di Doha, con un’expertise impareggiabile. Il loro sapere è fondamentale per permettere alla comunità internazionale di capire il Medio Oriente.

BA: Il caso dell’Afghanistan fa riflettere sui rischi personali a cui ambasciatori e diplomatici si espongono con il loro lavoro. Nel caso delle donne, questi rischi sono maggiori?

LT: Sì, e sono più numerosi anche i contesti a rischio. In generale, le donne sono più esposte ai rischi per la loro sicurezza, specie nei contesti di conflitto, dove le disuguaglianze si amplificano e la violenza è più diffusa. In questi luoghi, lo stupro può diventare un’arma [ve ne avevamo parlato anche noi di Eppen qualche mese fa, nella nostra intervista a Godeliève Mukasarasi, ndr]. Questa differenza è riconosciuta dall’agenda «Donne, Pace e Sicurezza» dell’ONU, che riconosce il diverso impatto delle guerre e delle crisi sulla base del genere. Proprio per questo, perché sono le prime vittime dei conflitti, le donne andrebbero coinvolte nei processi di pace.

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