Da Elvira Notari a Lois Weber, da Mary Blair a Daisy Sylvan: qualche settimana fa abbiamo ricordato alcune delle tante donne che hanno contribuito, nei primi anni del Novecento, a scrivere le prime pagine della storia del cinema. Sceneggiatrici, produttrici, animatrici o registe dimenticate dai libri, ignorate dalla critica oppure oscurate da colleghi e mariti, come è accaduto per esempio ad Alice Guy-Blaché.
Dall’epoca del cinema muto è passato oltre un secolo e in questo secolo le donne dietro la macchina da presa hanno conquistato una visibilità prima impensabile. I nomi di Sofia Coppola, Agnès Varda, Emerald Fennell o Greta Gerwig sono noti a livello internazionale. In Italia, registe come Paola Cortellesi e Maura Delpero – «Leone d’Argento» all’ultima Mostra del Cinema di Venezia – hanno raccolto riconoscimenti importanti. Ma è sufficiente? A quanto pare no.
Tra il 2008 e il 2018, i film a regia femminile usciti nel nostro paese sono stati solo il 15%: 463 contro 2724 film diretti da uomini. Queste cifre sono leggermente cambiate, ma la strada, per le donne, è ancora in salita. In Italia, si stima che di questo passo la parità di genere alla regia possa venire raggiunta solo nel 2054.
A spiegarlo è Domizia De Rosa, presidente della Women in Film, Television & Media Italia (WIFTMI) , un’associazione (aperta a tutti, uomini compresi!) che lavora per promuovere la parità di genere, combattere i pregiudizi nell’industria dell’audiovisivo e dei media e incoraggiare un cambiamento culturale che porti a una più adeguata e positiva rappresentazione della donna sugli schermi. Ogni anno, la WIFTMI è presente alla Mostra del Cinema di Venezia con un seminario dedicato alla parità di genere e all’inclusività nell’industria cinematografica: un momento di riflessione per capire dove siamo arrivati. E quanto resta ancora da fare.
MM: Partiamo dall’inizio. Com’è nata Women in Film, Television & Media Italia?
DD: Women in Film, Television & Media Italia viene concepita nel 2017 in risposta alle molteplici istanze di pari opportunità di accesso, retribuzione e carriera nel settore audiovisivo e di manifeste situazioni di sessismo e di molestie finalmente esposte dal #MeToo come endemiche e strutturali. In Italia c’erano stati altri momenti in cui le professioniste del settore avevano cercato di rispondere a queste istanze, esperienze delle quali siamo grate, ma il 2017 è stato l’anno nel quale in molte abbiamo sentito la necessità di prendere posizione, far sentire la nostra voce e costruire proposte.
MM: Nel 2018 a Venezia avete presentato una «Carta per la parità e l’inclusione nei festival di cinema e animazione». Di che documento si tratta?
DD: Questo documento nasce in Francia con l’associazione 50/50 in risposta alla scarsa presenza di registe nei festival e nei premi in generale, e più precisamente nel festival di Cannes. La Carta proponeva delle azioni concrete ma anche ovvie, e quindi ancor più necessarie: per prima cosa misurare e fornire statistiche in relazione ai film candidati e selezionati, ovvero raccogliere dati utili al poter definire le scelte necessarie per colmare gli eventuali gap; rendere trasparente l’elenco dei membri dei comitati di selezione e dei programmatori, ovvero rendere visibile l’eventuale mancanza di diversità di genere e non solo in questi spazi cruciali per le scelte; impegnarsi per la parità di genere e il rispetto. WIFTMI ha portato la Carta a Venezia, in quella che possiamo chiamare la sua prima vera uscita pubblica. Questo certamente ha dato visibilità all’associazione ma, molto più importante, è stata questa l’occasione per la Biennale di impegnarsi ad organizzare – a partire dall’anno successivo con le associazioni firmatarie – un seminario annuale dedicato proprio all’inclusione e alla parità di genere.
MM: I dati emersi dalla ricerca «Women directors 2008-2018 in Italy» parlano da soli: 463 film diretti da donne, tra il 2008 e il 2018, contro 2724 film diretti da uomini.
DD: La ricerca «Women directors 2008-2018 in Italy» è stata svolta e presentata da WIFTMI durante il primo seminario veneziano, ovvero nel 2019. I dati, ci è stato chiaro fin da subito, sono un punto di partenza inderogabile e concreto per qualsiasi conversazione e questo era lo scopo della ricerca: mostrare i numeri di disequilibrio di genere nella regia, ruolo apicale e di prestigio. I numeri non sono stati per noi una sorpresa, grazie alle ricerche svolte da DEA – Donne e Audiovisivo e al benchmark dei dati europei e internazionali. Pensiamo che il numero di 15% di film a regia femminile (inclusi i cortometraggi) nell’arco del decennio 2008 – 2018 parli da solo. Possiamo poi dire che i numeri sono migliori nel documentario (21%), ma anche questa non è una sorpresa essendo legato, per dirlo in poche parole, al minor investimento finanziario e la limitata circolazione nelle sale, ovvero la minore resa economica. C’è un assioma valido a livello internazionale: scende il budget, aumentano le donne.
MM: Cos’è cambiato, dal 2018 a oggi? Sembra che i numeri delle professioniste nel settore siano cresciuti…
DD: I numeri crescono, ma lentamente, come ci indicano i valori presenti nelle varie valutazioni di impatto della Legge Cinema e in altre pubblicazioni della Direzione Generale Cinema e Audiovisivo del Ministero della Cultura. Ad esempio, nell’ultimo seminario veneziano, quello del 2024, nell’elaborazione dei numeri del Ministero da parte dell’Università Cattolica del Sacro Cuore abbiamo visto che le registe sono passate dal 18% del 2017 al 22% del 2023, quindi 4 punti percentuali. Pochino da qualsiasi punto di vista. In quella ricerca è stato calcolato che a questo ritmo si raggiungerà il 50/50 nella regia nel 2054. Le cause di questa lentezza sono molteplici e non univoche; tuttavia questi numeri indicano che le misure adottate dalla Legge Cinema per favorire un miglior bilanciamento di genere hanno prodotto risultati limitati e che sarebbe necessario rivedere le misure e l’approccio scelto, se si volesse realmente intervenire a riguardo.
MM: È vero che i budget a disposizione dei progetti a guida femminile sono spesso inferiori rispetto a quelli maschili? Ci sono differenze anche nella partecipazione ai festival?
DD: È corretto, in media lo sono. La stessa ricerca del 2024 di cui abbiamo parlato qui sopra ci dice che il 25% di progetti a guida femminile è realizzato con budget inferiori a 200.000€. Si segnala, tuttavia, un miglioramento significativo per i progetti con budget inferiore al 1.500.000€ tra il 2017 e il 2023. Quindi anche qui qualcosa si muove, ma non parliamo ancora di grandi investimenti. La differenza di budget produttivi determina differenze nella distribuzione e nella promozione dei titoli stessi. Le due cose sono inevitabilmente collegate. Per quanto riguarda i festival la circolazione è migliore, ma è da confrontare con il limitato numero di film prodotti. Nomi come quello di Alice Rohrwacher e il Leone d’argento di «Vermiglio» di Maura Delpero ci dicono che nei festival ci sono spazi di visibilità e di successo, che si può attivare un passaparola positivo per le sale e una circolazione internazionale.
MM: Da cosa può dipendere il successo di un film a regia femminile? Penso al trionfo di «C’è ancora domani» di Paola Cortellesi…
DD: Circolazione e promozione, se assenti, è evidente che non pongono le condizioni per un successo. Nel determinare il successo, oggi che l’accesso ai contenuti audiovisivi è estremamente facile, direi che entrano la riconoscibilità della regista, quanto la riteniamo affidabile rispetto alla storia che propone (ovvero quanta fiducia abbiamo nel suo saperci gestire la materia del racconto) e il saper cogliere (ma questo vale in ogni ambito) lo spirito dei tempi e la necessità del pubblico di veder rappresentati in maniera soddisfacente, catartica, i temi che sono più urgenti. In questo, «C’è ancora domani» è un esempio eccellente di risposta ad una domanda dolorosa: da dove scaturisce la violenza di genere e come ne usciamo vive.
MM: Quali sono le prospettive?
DD: La parità di genere non si raggiunge da sola. Non è una questione di merito, specie se disgiunto dal contesto culturale e socioeconomico. Questo momento storico infatti ci torna a dimostrare che non esiste un’unica traiettoria e che la storia si può riavvolgere. Per raggiungere la parità, e ancor meglio l’equità (che tiene in conto le differenze che fanno parte di ciascuna persona e del suo background), c’è bisogno di una consapevolezza e di un impegno comune, che si concretizzino in investimenti, misure positive e fiducia nelle nostre autrici. In questo anche la stampa può svolgere il suo ruolo, investigando certo, ma soprattutto supportando la ricerca artistica delle autrici, rendendone il racconto entusiasmante tanto quanto quello dei colleghi.
MM: Ci consiglia cinque film diretti da donne che affrontano in modo originale le questioni di genere? Oppure film che guardano al femminile in modo non stereotipato.
DD: Qualsiasi lista dimentica qualcosa, per cui come lista per nulla definitiva:
- Per una storia nazionale da condividere, «Vogliamo anche le rose» di Alina Marrazzi;
- Per ritrovare gli Stati Uniti che volevano superare i pregiudizi, «Una giusta causa» di Mimi Leder;
- Per come si può guardare con occhi nuovi storie consunte, «Piccole donne» di Greta Gerwig;
- Perché l’orrore è sempre dentro casa, «Women Talking - Il diritto di scegliere» di Sarah Polley;
- Perché c’è sempre una donna invisibile che abbiamo perso e che dobbiamo ritrovare «Miss Marx» di Susanna Nicchiarelli.