Predore, assolato borgo sulla sponda bergamasca del lago d’Iseo, è il protagonista di oggi. Percorrendo la strada che da Sarnico segue la costa, si rimane colpiti dal suggestivo contrasto tra le placide acque del lago e le severe rocce calcaree che sovrastano il borgo. Quelle rocce, oltre che proteggere il villaggio dai venti di tramontana, nelle giornate di sole funzionano come un termosifone naturale, regalando a Predore un clima invidiabile.
Il nome Predore deriva dal latino praetorium, palazzo del pretore, e lascia intendere le antiche origini del borgo: nel 2003 un grosso intervento di recupero dell’area occupata dalla ex fabbrica Lanza Gomme portò alla luce i resti di una grande villa romana, abitata tra il I e il IV secolo d.C. Costruita in posizione privilegiata sul lago, tra ulivi e fichi, la villa era decorata con pregevoli mosaici e affreschi ed era dotata di un impianto termale (visitabile nei weekend estivi o su prenotazione sul questo sito sito).
La dimora è attribuita al senatore romano Marco Nonio Arrio Muciano che doveva essere innamorato dei paesaggi lacustri perché a lui si deve anche un’altra villa meravigliosa a Toscolano Maderno, sul Garda bresciano. Prima ancora dei romani l’amenità del luogo aveva favorito l’insediamento dell’uomo già nel Neolitico, come testimoniano importanti ritrovamenti archeologici nelle vicinanze del Corno di Predore.
Osservando il paese da lontano si rileva un’urbanizzazione divisa in due settori: la parte rivierasca, pianeggiante, è costruita sui depositi detritici della foce del torrente Rino, mentre la parte collinare, erta e rocciosa, è stata plasmata e addomesticata dall’uomo con la realizzazione di solidi terrazzamenti. Anticamente esisteva una suddivisione sancita dal corso del torrente Rino: una a Est, protesa verso il Corno di Predore, l’altra a Ovest, in direzione di Sarnico. La prima era coltivata a olivi, mentre la seconda a vite. Negli ultimi cinquant’anni i vigneti sono quasi completamente spariti, soppiantati dalla più redditizia coltivazione degli olivi.
L’idea odierna è di coniugare le suggestioni paesaggistiche con le prelibatezze gastronomiche del territorio. Ci incamminiamo di buon mattino da piazza Vittorio Veneto (190m) verso via Foresti che si addentra nel borgo, a destra del torrente. Da subito si avverte il gradevole tepore del lago che ci invoglia ad alleggerire l’abbigliamento. Dopo pochi passi appare la cascata del Rino che, copiosa, precipita dalle case alte del paese.
La radice rin (ren o run) è voce indoeuropea col significato di fluire, scorrere. È interessante sapere che si tratta della medesima radice dell’inglese to run, correre.
Raggiunto un piccolo posteggio sulla sinistra, decidiamo di dare una sbirciatina alla cascata e imbocchiamo un viottolo che si diparte dal posteggio e conduce a un ponticello con vista privilegiata sul salto d’acqua. Gli scatti si sprecano. Passiamo sull’altra sponda e risaliamo la via intercettando alcune dimore dal sapore antico. Per un’erta scaletta si giunge all’acquedotto di Predore dove una fontanella consente di riempire le borracce. Teniamo la destra percorrendo una strada che s’inerpica, con pendenze da fuoristrada, fino alla scalinata di accesso al santuario di San Gregorio. I 288 gradini si innalzano ripidi come le scalette di una condotta forzata. Ogni respiro è prezioso e siamo costretti a interrompere qualsivoglia discorso! In pochi minuti siamo sul sagrato del santuario (375m): la vista sul lago e le torbiere di Provaglio è superlativa. Il santuario, dedicato alla Madonna della Neve, fu eretto nel 1740 sui resti di un’antica cappella di cui si fa menzione nei verbali della visita pastorale di San Carlo Borromeo del 1575.
Da quassù spicca la singolare torre dimezzata, simbolo di Predore. L’abbattimento parziale della torre risale al periodo delle lotte medioevali tra guelfi e ghibellini. Curiosa è la leggenda che narra della lite tra i proprietari della torre, due fratelli di fede opposta: uno dei due avrebbe smantellato la parte di propria pertinenza per fare un dispetto all’altro!
Rimontiamo i gradini alle spalle del santuario per riconnetterci alla strada. Saliamo ancora fino a quota 483m, dove un cartello sentieristico indica, a sinistra, la via per Punta Alta (sentiero CAI n° 734). Tra terrazzamenti e prati a pascolo il sentiero si alza a lambire la località Verasca (550m). Con percorso meno faticoso si oltrepassa un ruscello e, spingendosi in direzione Est, si guadagna il crinale meridionale di punta Alta, in corrispondenza dei resti di un capanno di caccia (località Sucol, 685m). L’affaccio sul lago è a dir poco sorprendente. Si risale integralmente l’erto crinale addentrandosi in un bosco di roverelle e carpini dove sono evidenti i segni del passaggio di cinghiali. Ancora un piccolo sforzo ed ecco la cima (953m). Punta Alta regala un panorama completo del Sebino: da Lovere a Iseo si coglie ogni dettaglio del paesaggio, con Montisola, lì sotto, a strizzarci l’occhio. Una meraviglia!
Mentre siamo in contemplazione le parole di Carlo colpiscono la nostra attenzione: «Le estati della mia fanciullezza le ho vissute a Montisola, dove i miei genitori affittavano casa. Ricordo che il lago era tutto un brulicare di barchette. Lì ho imparato a pescare, a veleggiare, a conoscere i segreti del lago ed apprezzare la dura vita delle donne operaie e dei pescatori. Fin dal primo mattino era tutto un viavai di naecc (le barche a remi dei pescatori), di barche dei traghettatori di Montisola e di chiatte sul tragitto Lovere-Sarnico che all’alba e al tramonto transitavano sotto il Corno di Predore. Oggi si vede solo qualche imbarcazione di turisti e nulla più, non c’è più la vitalità di un tempo».
Da punta Alta ci dirigiamo verso Nordovest lungo il sentiero CAI n° 707 che, con percorso facile e divertente, danza lungo il crinale. Ricordo che, trent’anni fa, questo sentiero regalava una suggestione unica: si camminava con vista lago sia a destra che a sinistra. Oggi tutto ciò si riesce solo a intuire, guardando tra i rami spogli della fitta vegetazione che è arrivata a coprire interamente il crinale.
Una breve discesa conduce all’ampia sella prativa del Colle del Gioco (809m). Pochi metri oltre il valico, sulle pendici del dosso di Brugo, si nota una chiesetta circondata da un muro di cinta. La posizione strategica e quell’insolito muro solleticano immediatamente la mia curiosità. Tornato a casa cerco di raccogliere notizie, ma fatico a trovarne. L’unica informazione che trovo è su una mappa satellitare in cui è indicata come “Chiesa dei lebbrosi”.
Trovandosi in territorio di Vigolo provo a mettermi in contatto con il parroco, monsignor Giovanni Battista Bettoni, nativo del luogo, che molto cordialmente mi ragguaglia: «Quando ho sentito che lei cercava informazioni relative alla chiesa dei lebbrosi subito mi sono incuriosito ed ho iniziato a chiedere in paese perché noi la conosciamo come chiesa del colle del Gioco e non come chiesa dei lebbrosi». I dubbi si moltiplicano… «La chiesa si trova sulla antica via di collegamento tra Predore, Vigolo e Parzanica, quando non esisteva la strada rivierasca perché gli strapiombi rocciosi del Corno di Predore impedivano il transito. Fino a vent’anni fa la casetta adiacente alla chiesa era abitata da un contadino che portava le bestie al pascolo sui prati del colle. In seguito è stata abbandonata rischiando di cadere in rovina. Si ha notizia che nel 1750 la chiesa fosse di proprietà dei conti di Castelli Calepio, poi passata nelle mani di una nobile famiglia di Tavernola. Il contadino ricorda ancora quando, più di cinquant’anni fa, accompagnava a cavallo la nobildonna di Tavernola a passeggio tra le terre di sua proprietà salendo fino al colle. Oggi a prendersi cura della chiesa sono i nuovi proprietari, due fratelli di Vigolo, che hanno iniziato a ripulire dai rovi tutta l’area circostante la chiesa, ridonando dignità e lustro alla chiesa».
Ci confrontiamo sul fatto che potesse realmente essere un luogo appartato in cui relegare i malati di lebbra perché, un tempo, i lebbrosi venivano isolati e lasciati morire lontano da tutto e dimenticati da tutti. Quel muro di cinta è molto significativo, come pure il fatto che la gente non conservi memoria storica del luogo. Ringrazio monsignor Bettoni e ci lasciamo con la reciproca promessa di cercare ulteriori testimonianze della chiesetta dei lebbrosi al colle del Gioco.
Al colle seguiamo il sentiero CAI n° 701 che, in pochi minuti, raggiunge la località la Rolla (940m) attraverso un bosco pieno di castagni sradicati dai recenti fortunali. Da qui ci si abbassa al Col d’Oregia (919m), importante crocevia di sentieri, riconoscibile dalla caratteristica pozza d’acqua e dal bel capanno di caccia.
Al Col d’Oregia seguiamo la strada di sinistra per poche decine di metri. Appena è possibile consiglio di staccarsi e di guadagnare il crinale. La strada testé abbandonata conduce alla cascina dell’azienda agricola Morina (e alla croce di Predore) ma la variante suggerita è paesaggisticamente più interessante ed è percorribile in questa stagione priva di animali al pascolo. Rimontiamo i panoramici prati del Corno Buco fino alla sommità, un dolcissimo panettone erboso affacciato sul lago (966m). È inevitabile spingersi fino alla vicina Croce di Predore per ammirare la vista mozzafiato sul paese e il basso Sebino.
Dalla croce un sentierino che corre sul versante meridionale del Corno Buco, al margine tra prato e bosco, ci conduce alle località prato Chierico, con le sue belle cascine protese sulla valle di Viadanica. Da qui seguiamo le indicazioni del sentiero CAI TPC (Transpadana Centrale) fino al sottostante colle di Cambline (776m), altra località dalla posizione invidiabile. Da Cambline, intrufolandoci tra i casolari, imbocchiamo il sentiero CAI n° 709 che, dopo aver attraversato il bosco della valle del Duago, si immette su una ripida strada cementata che, tra terrazzamenti di olivi e case con vista panoramica, riconduce a Predore.
Siamo in perfetto orario per il pranzo! Raggiungiamo così il ristorante il Gabbiano, dirimpetto al lago, dove ad accoglierci è Rolando, estroso proprietario e grande conoscitore del territorio. In sala ci sono bellissime fotografie che raccontano la storia di Predore degli ultimi cent’anni. Chiedo lumi riguardo all’olio locale: «L’olio di Predore è molto apprezzato per le sue qualità organolettiche e per il tasso di acidità estremamente basso. Solo negli ultimi decenni ha conosciuto l’utilizzo alimentare, in precedenza veniva utilizzato soprattutto come combustibile per le lampade». Ci abbandoniamo alla degustazione dei ravioli al salmerino, dei tortiglioni al coregone e del pesce persico in carpione…il tutto illuminato da un filo d’olio di Predore e colorato dai racconti di Rolando…e il naufragar m’è dolce in questo lago!
Un’ultima chicca: scendendo su Predore, tra i tantissimi ulivi, ho notato alcuni piccoli vigneti. Chiedo a Rolando se è possibile assaggiare quel vino: «Purtroppo sono vini di produzione famigliare. Una volta esisteva un vino locale, molto apprezzato, la cui fama giunse fino a Roma dove sulle tavole di alcuni ristoranti veniva servito il vino predorino!». Confidando nel ripristino di tale eccellenza enologica ci congediamo da Rolando non prima di un affaccio dalla terrazza del ristorante. Il lago oggi è liscio come l’olio…di Predore.
P.S. l’itinerario qui descritto è lungo 11,5 km con 1000m di dislivello positivo. Calcolare quattro ore di cammino. Non presenta difficoltà tecniche ma richiede un buon grado di allenamento per affrontare le erte salite della parte iniziale. La stagione migliore è il tardo autunno/inverno, quando i panorami godono di grande luminosità (alle volte capita di trovarsi al di sopra delle nuvole che ricoprono il lago e la pianura).