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Storie di maratona #2: Carlo Airoldi, che nel 1896 arrivò a piedi ad Atene per disputare la 40km ma venne (ingiustamente) squalificato

Racconto. Precursore dell’ultramaratona, convinto dei suoi mezzi, non si poneva alcun limite. Tanto da voler sfidare anche un cavallo montato da Buffalo Bill. Poi la beffa delle prime Olimpiadi dell’era moderna e quella volta a Porto Alegre, in una gara di corsa contro gli scaricatori di porto, portando sulle spalle un sacco da 150 chili

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Carlo Airoldi

Carlo Airoldi, nacque nel 1869 ad Origgio, vicino a Saronno in provincia di Varese, da una famiglia contadina. Faceva l’operaio in una fabbrica di cioccolato ma le sue energie maggiori le impegnava nello sport. Ginnasta, ciclista e runner, visse in un periodo in cui la pratica dello sport prendeva piede non solo come passatempo dei ricchi e degli aristocratici, ma anche come occasione di affrancamento dei lavoratori e dei proletari. Airoldi visse in un periodo in cui il ciclismo e il podismo, in quanto sport “popolari”, avevano ancora eguali chance di sviluppo, anzi con qualche punto di vantaggio a favore del podismo che veniva interpretato come impresa sulle lunghissime distanze (oggi le ultramaratone).

Fu un personaggio “al bivio”, combattuto (come del resto lo fu anche Dorando Pietri all’inizio della sua carriera di maratoneta) tra la seduzione del ciclismo e quella del podismo. Nel suo lungo curriculum podistico, Carlo Airoldi annovera la partecipazione a numerose gare su distanze dai 50 km in su: la Milano-Cernobbio, tra il 25 e il 26 giugno 1894; la Lecco-Milano tra il 22 e il 23 luglio 1894 di cui fu vincitore; la Torino-Nizza Mare, sulla distanza di 210 km, tra l’8 e il 9 settembre 1894; e, infine, la Milano-Barcellona, di 1020 km, di cui venne dato lo start l’8 settembre 1895 e si concluse il 22 settembre.

Durante quella corsa Airoldi incontrò qualche difficoltà: il decimo giorno di corsa infatti gli si gonfiarono i piedi, ma riuscì comunque a tener vivo un appassionante testa a testa con il marsigliese Ortègue. Nell’ultima tappa della gara, quando era a un chilometro circa dal traguardo, riuscì a superare un Ortègue ormai stremato, ma a pochi metri dal traguardo, voltandosi indietro per vedere quanti metri di vantaggio avesse sul francese, vide il marsigliese a terra; non esitò a tornare indietro, caricò sulle sue spalle l’avversario e tagliò il traguardo urlando alla giuria “Io sono primo: l’avversario è con me, ed è secondo!”.

Airoldi non si pone alcun limite, convinto dei suoi mezzi, non trascura alcuna occasione per confrontarsi con gli altri: dalle gare in bicicletta alle scommesse a braccio di ferro fino a sfidare a piedi per centinaia di chilometri al Trotter di Milano, nel 1894, un cavallo montato dal leggendario Buffalo Bill (ma il cowboy rifiutò la sfida perché pretendeva di avere a disposizione due cavalli!).

Carlo Airoldi, avuta notizia che, in occasione della prima (ancora oscura e poco nota) manifestazione dei Giochi Olimpici nel 1896, si sarebbe corsa una gara internazionale sulla distanza di 40 km, decide di partecipare. Considerando la sua ottima preparazione, sicuramente avrebbe avuto grandi possibilità di vittoria. Inoltre, ad Atene, sarebbe stato l’unico atleta a rappresentare l’Italia.

In mancanza di mezzi economici, e con l’unica sponsorizzazione (in questo fu moderno ed anticipò sicuramente di molto i tempi) da parte di un piccolo giornale locale “La Bicicletta” alla quale invia strampalate e colorite corrispondenze, Airoldi, all’età di 26 anni, parte a piedi da Milano il 28 febbraio 1896 e, a grandi tappe, raggiunge Atene via terra nel pomeriggio del 1° aprile, pochi giorni prima dell’inaugurazione dei Giochi (fissata il 6 aprile). Parte correndo i primi giorni nella neve, indossando pantaloncini corti. A tracolla ha una piccola borsetta dove entrano il passaporto, un paio di calze di ricambio e due fazzoletti. Lungo il tragitto in Italia trova sempre accoglienza e tanto sostegno. Molti però gli insulti che riceve dalla gente che, vedendolo correre lungo la strada, inveisce contro di lui invitandolo ad andare a lavorare o al fronte a combattere.

Così, il suo racconto, dopo il passaggio del confine: “Vedendo il tempo migliorare e la pioggia darmi una tregua nella sua stressante insistenza, pensai ingenuamente che il peggio fosse passato e che nei giorni a venire mi sarebbe stato tutto più semplice. Avevo percorso in otto giorni 520 km, una media di 60 km al giorno. Considerando che ero stato costretto a fermarmi un giorno a Trieste per il passaporto, i numeri mi consolavano”. Il percorso da lì in poi è un continuo alternarsi di insidie: dagli uragani alle fiacche ai piedi, dai cani randagi ai briganti e, non ultimo, la compagnia minacciosa di un branco di lupi.

Giunto sulle coste slave, viene vivamente sconsigliato dal console italiano di intraprendere il percorso in Albania per la presenza di numerosi briganti. Si imbarca allora su un piroscafo a Ragusa (l’attuale Dubrovnik) ed arriva a Patrasso il 27 marzo. Da lì fino ad Atene, non essendoci alcuna strada di collegamento, prosegue il suo percorso lungo i binari della ferrovia e raggiunge la capitale greca in tempo utile per disputare la maratona.

Il grande favorito della gara che, per il suo significato simbolico sarebbe stata la gara più prestigiosa dei Giochi, era il greco Spiridon Louis: anzi, segretamente, nella mente degli organizzatori, per il rispetto della retorica che si stava costruendo attorno alla distanza di maratona, avrebbe dovuto essere proprio un greco a ottenere la vittoria.

Forse è proprio per motivi legati a questa necessità che Carlo Airoldi, alla vigilia della gara, viene squalificato. Ironia della sorte vuole che il promotore della severa decisione è proprio un componente italiano dell’allora neo-nato Comitato Olimpico Internazionale. Emblematiche le parole di Airoldi a riguardo: “…L’unica ragione, a quanto parve a molti, è che era desiderio di tutti che il primo fosse un greco e per questo basandosi sul regolamento venni escluso, perché io presi del denaro a Barcellona. Dunque non potevo darmi pace. Il premio d’altra parte era rispettabile: una coppa, una corona e 25.000 lire…”.

E ancora: “È necessario che io parta al più presto, giacché ieri ed oggi durai fatica a reprimermi. Mi sentivo il prurito nelle mani e non posso tollerare più a lungo i sorrisi ironici di certi villani, ai quali avrei voluto far vedere, se non m’avessero trattenuto il timore di passare per un farabutto, che altre alle gambe possiedo anche due buone braccia. Dopo tutto mi consolo perché a piedi vidi l’Austria, l’Ungheria, la Croazia, l’Erzegovina, la Dalmazia e la Grecia, la bella Grecia che lasciò in me un ricordo indelebile”. In seguito, Airoldi commentò: “Vedere arrivare il primo in mezzo a tanta festa ed io non poter correre per delle ragioni assurde, fu il più grande dolore della mia vita.

Tornato in Italia riparte ben presto per affrontare nuove sfide in Europa e nel Sud America. Tra le sue imprese c’è anche una vittoria a Porto Alegre, in Brasile, in una gara di corsa contro gli scaricatori di porto, portando sulle spalle un sacco da 150 chili. Quando l’età non gli consente di continuare la sua attività sportiva entra nella fabbrica di biciclette Legnano, di cui diventa capofabbrica, passando poi a ricoprire il ruolo di massaggiatore-allenatore della squadra ciclistica della stessa ditta. Muore nel 1929, a sessant’anni, sostenendo fino all’ultimo dei suoi giorni di essere stato vittima di una grande ingiustizia.

In questo senso, Airoldi, autentico precursore ed interprete dell’ultramaratona italiana, fu una vittima della retorica dei Giochi Olimpici e della forzata interpretazione del dilettantismo “puro” imposta da quel manipolo di aristocratici che, guidati da de Coubertin, avevano varato i Giochi Olimpici dell’era moderna.
Carlo Airoldi venne considerato un vero eroe popolare e a lungo ricordato, forse più per la clamorosa esclusione dalla maratona olimpica che per i risultati ottenuti in carriera: a lui il più grande giornalista sportivo italiano, Gianni Brera, dedicò uno dei suoi magistrali articoli (il Giorno, 4 novembre 1956).

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