Inverno. Gennaio. Domenica mattina.
Suona la sveglia, sono le 6.30, fuori è ancora buio e imperversa un temporale. Mi alzo, mi preparo, prendo la macchina, guido fino al casello di Capriate e – mentre aspetto infreddolita nell’abitacolo i miei compagni di corsa con i quali devo raggiungere un anonimo campo di un anonimo paese della provincia milanese in cui mi cimenterò in una corsa campestre sotto l’acqua e in mezzo al fango – mi faccio questa semplice, necessaria domanda… ma chi me lo fa fare?
Esatto, chi ce lo fa fare? Me lo sono sentita chiedere mille volte, da una vita intera. A maggior ragione in questo momento, in cui i runner (più o meno improvvisati) non godono di grande fama, mi sembra importante cercare di spiegare ai profani perché.
Perché correre può diventare una ragione di vita, un momento fondamentale della giornata? E perché amiamo sobbarcarci tutti quei chilometri d’estate e d’inverno, con il sole o con la pioggia? Chi corre (usando la testa) sa bene cosa vuol dire avere dei limiti e rispettarli. Dunque è in grado benissimo di stare fermo per un po’. O di trovare valide alternative casalinghe in attesa di tornare a sudare per le strade trafficate della nostra provincia.
Cominciamo dall’inizio. Io me lo ricordo quando all’asilo sfidavo i miei compagnetti a fare il giro del parco giochi. Nessuno mi stava dietro. O quando alle elementari tutti gli anni a maggio si svolgevano i Giochi della gioventù: vinti per cinque anni di fila. E quando alle medie si correva la campestre? Sempre prima.
Beh, adesso non immaginatevi una campionessa d’atletica, ero solo una bambina alta, avvantaggiata dall’essere nata a gennaio e sicuramente portata per lo sport. Un talento come quello di chi sa disegnare bene o ha una memoria di ferro. Io ero coordinata, veloce e resistente più dei miei coetanei.
A pensarci adesso deve aver influito la mia infanzia da figlia unica: ore, giorni, estati intere passate ad arrampicarmi sugli alberi in giardino, giocare con il pallone facendolo rimbalzare al muro, correre di qua e di là. In quello sfortunato isolamento in cui sono cresciuta: senza fratelli, senza cugini, senza vicini di casa della mia età.
Insomma, capite che ad un certo punto è stato naturale iniziare a correre sul serio, a praticare atletica leggera. Gli allenamenti quattro volte la settimana, alternati allo studio al liceo classico, le gare di domenica. I primi campionati provinciali, poi i regionali, poi le gare nazionali con la squadra del Bergamo59. La difficoltà di misurarsi con persone più forti. Addio vittorie facili. Anzi, addio vittorie del tutto. Piano piano quella passione nata da bambina è diventata fatica quotidiana, puntigliose tabelle di allenamento, rinunce. E poi basta. Quale diciottenne sarebbe disposta a vivere una vita così? Nessuna o quasi (nel “quasi” probabilmente mettiamo quelle che ce l’hanno fatta). Se non hai la testa e qualcuno vicino che fa il tifo per te, rinunci. Sogni di gloria? No, una debacle.
Eppure è proprio vero che le passioni nate in gioventù ce le portiamo dietro tutta la vita. Perché qualche anno fa, dopo un matrimonio, due figli e anni di corsette sporadiche “giusto per stare in forma”, un’amica conosciuta da poco mi invita a partecipare ad un gruppo di allenamento. E non un gruppo qualsiasi. Il ritrovo è la pista di atletica di Brembate Sopra. E lì – ad allenare tutti, dai ragazzetti di vent’anni alle signore sessantenni, c’è Franco Togni, uomo e atleta fuori dal comune. Ex primatista italiano di maratona e campione indiscusso di umanità. Non scorderò mai il sorriso con cui mi ha accolto la prima volta che mi ha visto e la sua domanda: “E tu chi sei?”
Già, chi ero? In quegli allenamenti con lui e con gli altri ragazzi del gruppo finalmente correre per me diventa(va) un momento di socialità. Un modo per condividere con gli altri una cosa bella e trasformare una passione individuale in una gioia condivisa. Dunque mi rimetto a seguire le tabelle di allenamento e a fare le ripetute ma con uno spirito completamente diverso. Da piccola correre mi piaceva perché mi sentivo la più forte, mi sembrava di fare la differenza. Oggi invece correre mi fa stare bene in mezzo agli altri e mi fa stare bene con me stessa. Ogni fatica, ogni goccia di sudore, ogni piccolo sacrificio è un passo per migliorare, anche di poco.
La corsa in questo è uno sport sincero, non puoi barare. Non ci sono tante strategie, contano più di tutto la costanza e la tenacia. E con questi due elementi i risultati arrivano sempre. Franco (che oggi purtroppo non c’è più) quando ci seguiva in gara o durante l’allenamento e ci vedeva con il volto tirato dalla fatica iniziava a gridare: “Sorridi, sorridi!”. Voleva dire che le motivazioni per stare bene si trovano sempre dentro di noi, inutile cercarle fuori. Ma poi la gioia che ne scaturisce deve diventare una testimonianza per gli altri, è inutile tenerla dentro.
Mentre sto correndo di buon ritmo durante una gara, mentre tengo sotto controllo il respiro e ascolto il battito del cuore per capire se va tutto bene, non è raro che alzi gli occhi mi guardi attorno e pensi: “Non vorrei essere da nessun’altra parte al mondo!”. Sento che il mio corpo sta dando il massimo in questo sforzo, sto bene, ho energie nei muscoli. Insomma sono sintonizzata con il mio corpo e mi sento viva.
Anche i pensieri corrono con te. Durante le gare più lunghe, come le maratone ad esempio, si mettono in fila, chilometro dopo chilometro, e piano piano scivolano fuori dalla mente come attraverso un setaccio. In quello sforzo immane che stai compiendo, rimangono i sassi grossi, i pensieri essenziali.
Le persone a cui tieni – stai sempre correndo per loro. Le cose della tua vita – vuoi continuare a farle anche domani. I chilometri lì sotto le tue scarpe. Quanti ne mancano? A che punto sono del percorso? Se arrivo a quel punto e sto bene è fatta. Non ce la faccio più. Ancora un piccolo sforzo. Mi sto avvicinando al traguardo. Ecco è finita! Tagliare il traguardo di una gara, dalla più anonima delle campestri alla Maratona di New York, è sempre un momento di emozione pura, buona.
Luca, il coordinatore di Eppen, mi ha chiesto se per me in qualche modo la corsa vale come una forma di meditazione o contemplazione. Io penso sia il modo migliore per riportarci completamente al presente. Mentre stringi i denti e concentri mesi di preparazione per togliere pochi secondi al tuo personal best, entri in contatto con il tuo io, qui e ora. “Senti” il tuo corpo e impari a conoscerlo. Ascolti la tua mente e capisci cosa può o non può fare. È sempre una questione di sincerità.
Certo poi il running è anche un mondo. Bergamo è una realtà feconda per chi ama correre. Ci sono innumerevoli società sportive ben organizzate e molto attive. Ci sono gruppi d’allenamento di ogni tipo e per tutti i gusti. Dai “podisti insonni” che si trovano in pista alle 5 del mattino (per chi vuole sgranchirsi le gambe prima di andare al lavoro!) a quelli di “We Run” che girano in città il mercoledì sera armati di musica e colori per 10 km di corsa ed esercizi – che si concludono quasi sempre con una bella birra in compagnia. Per non parlare dei corsi per principianti organizzati dai Runners Bergamo alla Trucca o degli irriducibili del Lazzaretto in pausa pranzo. Ma ce ne sono molti altri, citarli tutti è impossibile.
Eschilo diceva che “la saggezza si conquista attraverso la sofferenza”. Allora in qualche modo la corsa è forse una sofferenza “buona”, che insegna molto su noi stessi. Oddio, non è che in questi anni di corse sia diventata molto saggia. Ma qualcosa mi dice che senza correre starei decisamente peggio. Forse non avrei imparato a conoscermi meglio. Forse mi ritroverei ad essere ferma. Senza quell’insopprimibile desiderio di andare avanti.