La Valtaleggio, oltre ad offrire paesaggi naturali di alto interesse, sa coniugare con l’ambiente anche l’aspetto gastronomico di sicura qualità. Ricordo ancora con simpatia una scritta che negli anni Settanta appariva su un muretto lungo la statale della Valle Brembana in corrispondenza del bivio presso San Giovanni Bianco: Valtaleggio bella, non più dimenticata, risorgiente. Tale frase dai toni lirici suonava come un invito turistico ad una deviazione nella vallata, esortazione ulteriormente rafforzata dal refuso linguistico “risorgiente”.
Giunti a San Giovanni Bianco, imbocchiamo la provinciale della Valtaleggio. Percorriamo il suggestivo orrido scavato nei millenni dal torrente Enna fino all’abitato di Sottochiesa. Qui seguiamo le indicazioni stradali per Pizzino, piccolo borgo arroccato su una rupe rocciosa che anticamente ospitava il castrum Picini, castello di Pizzino, roccaforte guelfa nelle infinite dispute con la controparte ghibellina che aveva nella Torre d’Orlando a Vedeseta il proprio fortilizio. Interessante sapere che le diatribe paesane ebbero fine nei primi anni del quattrocento con la Serenissima Repubblica Veneta che sancì confini ben precisi: Peghera, Olda, Pizzino e Sottochiesa con Venezia mentre Vedeseta con il ducato di Milano. In quell’occasione vennero posizionati cippi di confine i termenù, che resistono tutt’oggi in numerosi angoli della valle.
A Pizzino si prende la carrozzabile per Capofoppa (attenzione munirsi di biglietto presso il totem all’inizio della strada!). Si sale attraversando splendidi pascoli che fanno da cornice a baite amorevolmente ristrutturate, alcune delle quali presentano ancora i caratteristici tetti a piode, testimonianza secolare di una tecnica costruttiva esclusiva di questa valle e della vicina valle Imagna.
Posteggiamo l’auto al termine della carrozzabile (1331m) e seguiamo la cementata che rapidamente prende quota con ampi curvoni. Quando la strada spiana, in corrispondenza di una baita più in alto sulla sinistra, imbocchiamo il sentiero CAI n° 153, che, con pendenze sempre dolci attraversa un bel bosco di faggi. È l’habitat ideale per il faggio tanto che le antiche cronache veneziane descrivevano i faggi della Valtaleggio come molto ricercati, soprattutto per le grandi dimensioni. Non è raro, in questo tratto, imbattersi in qualche splendido esemplare di capriolo rifuggire lestissimo al nostro procedere.
Superato il vallone che scende dalla baita di Regadùr si prosegue a mezzacosta fino a raggiungere la baita Baciamorti (1453 m). Ancora pochi minuti e siamo al passo Baciamorti (1541m). Istintiva nasce la curiosità legata all’etimologia di tale toponimo; mio malgrado mi trovo costretto a rimandare ad altri momenti tale approfondimento perché assai complessa e articolata è la disquisizione letteraria che negli anni ha appassionato gli storici studiosi della valle.
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Siamo sullo spartiacque tra la Valtaleggio e la Valle Stabina. Qui incrociamo il sentiero delle Orobie occidentali (CAI n° 101) che sale dal Lago di Cassiglio, e il sentiero che conduce al passo di Grialeggio (CAI n° 102). Ignoriamo entrambi i percorsi e saliamo invece a sinistra seguendo la dorsale. Il tracciato, decisamente più erto ma senza pericoli, consente di raggiungere la cima del pizzo Baciamorti (2006m) seguendo un percorso spettacolare.
Molto opportune le soste a rimirare il paesaggio: man mano che si procede la vista diviene sempre più ampia sulla valle Stabina e sui monti della valle Torta; a sinistra, poco alla volta, la Valtaleggio rivela tutta la sua personalità fatta di orridi e di splendidi pascoli. Alle nostre spalle i severi versanti dei monti Venturosa e Cancervo. Rimaniamo molto sorpresi nel notare che i prati della zona, frutto di secolare lavoro di dissodamento dei terreni ad opera dei pastori, mostrano evidenti segni di devastazione operata dai cinghiali che, indisturbati, osano spingersi nelle loro scorribande fino a 1700m di quota!
Distratti dalla bellezza dei panorami, in poco più di mezz’ora riusciamo a raggiungere la vetta. Ad accoglierci una bella Madonnina in bronzo. Poco più avanti, a richiamare la nostra curiosità, è la cima gemella dell’Aralalta (2003m) che con divertente sentiero non esitiamo a guadagnare. Una piccola croce ne contraddistingue la vetta. L’ambiente è talmente vario e interessante che l’escursionista è costantemente stimolato a procedere nel cammino. Una breve e agevole discesa per i prati ci porta rapidamente alla sottostante conca della baita Cabretondo che dall’alto spicca con la sua bella pozza d’acqua.
Pochi giorni orsono, proprio in questo tratto di discesa, sul versante ovest dell’Aralalta, abbiamo notato uno spettacolare branco di camosci. Ma sono tantissimi! esclama con grande sorpresa Luca. Così proviamo a contarli: uno, due, tre, … là in basso ancora due … vicino alla roccia altri tre … alla fine riusciamo a contare ben ventisette esemplari! Ehi Luca, guarda, con l’emozione di due bimbi alla scoperta del mondo ecco una mamma camoscio che allatta il proprio cucciolo! Rimaniamo zitti e immobili, ammaliati da tanta bellezza. Ma la nostra presenza induce ben presto i camosci a spostarsi verso luoghi più tranquilli.
Con l’emozione ancora nel cuore i nostri passi si fanno ora leggeri e le fatiche magicamente svanite. Dalla baita di Cabretondo (1882m) il percorso si ricongiunge con il sentiero CAI n°101 (che evita le due cime appena descritte) e in pochi minuti di cammino agevole siamo alla bocchetta di Regadùr (1853m) (dal bergamasco regada ovvero fatica) e, poco oltre, raggiungiamo la baita Regina. Presso la baita, seguendo il sentiero CAI n° 120, c’è la possibilità di raggiungere il rifugio Gherardi accorciando l’itinerario.
Il mio invito, tuttavia, è quello di resistere ancora un poco alle lusinghe conviviali e di proseguire. Sempre con percorso pianeggiante in men che non si dica siamo al passo di Sodadura (1854m). Poco sopra il passo, innanzi ai nostri occhi, si presenta la piramide sassosa del monte Sodadura (2011m) (mai nome fu più azzeccato!). Dai, una schioppettata e siamo su…! Lasciamo così il 101 e saliamo per la evidente traccia che conduce alla cima. Le recenti piogge hanno un po’ rovinato il sentiero che comunque risulta percorribile.
Siamo in vetta. Ora il panorama è completo. Tutte le cime della Valtaleggio, della valle Imagna, del lecchese e della valle Brembana fanno bella mostra di sé. Sotto di noi appare la suggestiva conca dei piani di Artavaggio. Scendendo per il sentiero di cresta in direzione nord ovest, rapidamente raggiungiamo una ampia sella. Se si procede sul sentiero n° 101 in cinque minuti si può raggiungere il rifugio Gazzaniga (prima tappa del sentiero delle Orobie occidentali). Noi, invece, deviamo a sinistra e in un batter d’occhio siamo al rifugio Nicola (1870m), con la sua inconfondibile struttura piramidale a richiamare il profilo del soprastante monte Sodadura. Il menù, ben descritto sulle lavagnette vicine all’ingresso, invita ad una sosta ma decidiamo di tenere duro ancora un poco.
Dal rifugio Nicola una comoda carrozzabile scende ai piani di Artavaggio seguendo un percorso molto ampio che tocca numerose baite ma che risulta piuttosto dispersivo. Optiamo invece per il sentiero che, con evidenti tagli, raggiunge i piani in modo più diretto. Siamo in provincia di Lecco e incontriamo numerosi escursionisti saliti da Moggio (c’è anche la possibilità di salire in funivia). Nei pressi della grande chiesa alpestre della Santissima Madre c’è una fontanella d’acqua, l’unica che possiamo trovare lungo il percorso (esiste acqua corrente anche in corrispondenza di alcuni abbeveratoi per il bestiame ma, al di fuori della stagione d’alpeggio, spesso risultano chiusi).
Dalla chiesa, guardando in direzione del monte Sodadura, si nota un sentiero cementato che sale nei prati, con un paio di curve, per scollinare in direzione est, e ci incamminiamo. Con percorso ondulato, mai faticoso e a tratti su fondo cementato, si tagliano a mezza costa i pendii meridionali del monte Sodadura. Lungo il percorso si incontra un tipico termenù (cippo di confine tra il ducato di Milano e la Repubblica veneta) e si attraversano alcuni boschetti spesso prodighi di funghi. Procedendo di buon passo, in poco più di mezz’ora si raggiungono i piani d’Alben in corrispondenza del bel rifugio privato Cesare Battisti (dall’inconfondibile colore rosa) e, poco sotto, del rinomato rifugio Gherardi (1650m). I succulenti piatti che gli ospiti del rifugio stanno gustando sui tavolini all’aperto giungono come un invito a nozze per i nostri palati affamati. Anche se l’ora è decisamente oltre il classico mesdé ci tuffiamo con immenso piacere su un ottimo piatto di pizzoccheri. Ritemprati nel fisico, affrontiamo con il sorriso il rientro verso l’auto seguendo il classico sentiero (CAI n° 120) che, in poche decine di minuti, dal rifugio Gherardi conduce a Capofoppa.
P.S. L’escursione si svolge su sentieri ben tracciati e mai esposti. Rifornirsi bene di acqua prima di giungere a Capofoppa perché, in loco e lungo il percorso (tranne che ai piani di Artavaggio) non esistono sorgenti. L’escursione è lunga complessivamente 19km con 1100m di dislivello e richiede cinque/sei ore di cammino.
P.P.S. Sulla via del ritorno in auto decidiamo di raggiungere Reggetto (frazione di Vedeseta) a pochissimi chilometri da Sottochiesa. La deviazione è vivamente consigliata perché, presso la locale cooperativa Sant’Antonio, si possono acquistare i formaggi DOP tipici della Valle Taleggio, tra cui oltre al celeberrimo Taleggio e al classico Stracchino spicca il nobilissimo Strachitunt!