Torno sempre volentieri in Val Taleggio, terra in cui uomo e natura hanno saputo fondersi a meraviglia regalando ai paesaggi una sensazione di integrità e armonia sorprendenti.
La prima neve stagionale è l’occasione per godere della suggestione di boschi e pascoli spruzzati di bianco. La soavità della terra taleggina pare in contrasto con le severe forre scavate dal torrente Enna all’ingresso della valle che incutono un senso di isolamento e inaccessibilità. Eppure questa terra, prima dell’apertura della strada che attraversa l’orrido, non è mai stata isolata dal mondo, anzi, la sua gente ha sempre calpestato i selciati delle mulattiere per connettersi ai territori limitrofi: con la Val Brembilla attraverso la forcella di Bura, con la Valle Imagna passando per la bocca del Grassello e il passo di Valmana, con la Valsassina per la Culmine di San Pietro e con la Valle Stabina attraverso il passo di Baciamorti.
Per recarsi a San Giovanni Bianco si passava in alto, sopra l’orrido, per la contrada di Cantiglio. La miriade di casolari e baite presenti sul territorio era collegata da mulattiere così abilmente costruite da resistere ancor oggi a distanza di secoli. Un gruppo di volontari locali, riuniti nell’associazione Gruppo Sentieri Valtaleggio, da qualche anno si è impegnato nel ripristino e nella segnalazione di tutti gli antichi tracciati vallivi. Il risultato è molto apprezzabile: sentieri rimessi a nuovo, cartelli posizionati nei punti chiave, bolli segnavia di nuova marcatura e, non da ultimo, la preziosissima «carta dei sentieri» ricca di dettagli e informazioni sul territorio (è acquistabile presso le strutture ricettive della valle).
Riguardo all’orrido della Val Taleggio mi piace riportare quanto affermava il Maironi da Ponte in un azzardo geologico datato 1819: «Grandi rovesciamenti presentano alla vista queste montagne, segnatamente lungo il corso della Lenna (errore di stampa per Enna, ndr), ed alla sua foce, dove si veggono pezzi sterminati di monte caduti sul fondo del suo letto. Certamente che chiuso questo passo le acque rigurgiterebbero, e della Valtaleggio formerebbero un lago. E chi sa che prima, che la natura nell’anzidetta struttura aprisse il varco all’acque non esistesse un lago! I non frequenti tratti di concrezioni conchigliacee, che vi si trovano, pare che anch’essi possano avvalorare sempre più la conghiettura»…effettivamente manca nella mia collezione di laghi orobici quello di Taleggio!
Meta di oggi è lo Zucco di Maesimo che raggiungeremo con un itinerario ad anello sullo spartiacque tra Val Taleggio e Valsassina. Ci rechiamo ad Avolasio (1047m), contrada di Vedeseta, ultimo avamposto bergamasco prima della Culmine di San Pietro. Forse taluni si chiedono perché chiamo questo valico al femminile: ebbene, storicamente questa località è sempre stata chiamata « la Culmine», nome che deriva dal sostantivo neutro latino culmen, il punto più alto di una salita, e poi traslato al femminile (colma). Colma è un termine spesso utilizzato in territorio lecchese (Colma di Sormano, Colma di Ravella, Volma del Piano).
Parlando di toponomastica bisogna dire che numerosi toponimi locali hanno un’origine incerta. Così per Avolasio: si potrebbe ipotizzare la radice dialettale aola (olla) suffragata dall’esistenza di una antica fornace nella contrada. C’è anche chi ipotizza il collegamento con il brembano agòla (aquila, con un passaggio dalla lettera g alla v) e chi la riconduce al latino avis, uccello. Forse l’ipotesi più accreditata è da ricondurre all’antica voce reto-ladina avio o abio, che indica una sorgente di montagna (come per le località Aviatico e Aviasco)…l’incertezza regna sovrana!
Abbiamo l’onore di essere accompagnati dall’amico Massimo, vedesetese doc, grande conoscitore della sua terra nonché ottimo camminatore. Insieme ci avviamo sulla strada agrosilvopastorale diretta ai piani di Artavaggio (segnavia CAI n° 151). Si transita dalla fontana di Giambello, ultima testimonianza della omonima contrada, abbandonata da tempo, i cui ruderi sono stati abbattuti per evitare pericolosi crolli. Fino ai primi decenni del secolo scorso Giambello era un borgo vivace e popoloso. Anche questo simpatico toponimo è di dubbia origine e potrebbe ricollegarsi ad una persona di soprannome Giovanni Bello.
Poco oltre ci stacchiamo dalla strada per ripercorrere l’antica mulattiera diretta a prato Giugno (1271m): magnifici pascoli punteggiati di casolari sparsi qua e là, alcuni perfettamente ristrutturati, altri caduti in rovina. È l’inesorabile destino di quello che è stato uno dei primi insediamenti umani in valle, già segnalato in una mappa del 1440. Questo panoramico pascolo garantiva foraggio fresco e di ottima qualità già nel mese di giugno (da qui il nome), al punto che tra il 1600 e il 1800, era abitato quasi stabilmente da alcune famiglie di mandriani (fatto alquanto insolito per dei pascoli a oltre 1200m di quota).
Procediamo sulla strada (segnavia 151), tra pascoli ameni e splendidi boschi di faggio, mentre Massimo ci indica i nomi di ogni località con dovizia di particolari e relative curiosità: Piazzo, Cornèl del Cà, prato del Tona, malga Sella (dove in estate si può acquistare ottimo formaggio), passo Sella con l’omonimo roccolo di pregevole fattura. Sui versanti in ombra iniziamo a calpestare la neve. La vista inizia ad aprirsi sul monte Sodadura e sui piani di Artavaggio. Tocchiamo la località Pianchella, il Cantèl òlt spingendoci fino a lambire la baita Crocetta. Qui, in corrispondenza di una pozza d’abbeverata, abbandoniamo la strada per imboccare il sentiero diretto a malga Maesimo (1577m), una casera d’alpeggio sullo spartiacque tra Valsassina e Val Taleggio.
Lungo il sentiero passiamo per la sorgente «acqua del Còp», una delle rare risorgive perenni del territorio. La fonte viene così chiamata perché un tempo l’acqua fuoriusciva dalle rocce attraverso un coppo. Raggiunta malga Maesimo, avanziamo fino alla vicina sella, crocevia di sentieri, con un’area di sosta attrezzata con un tavolino posizionato tra alcuni pietroni. Ci accorgiamo di essere sconfinati in provincia di Lecco perché la numerazione dei sentieri è cambiata. Lo Zucco di Maesimo (1680m) è dinnanzi a noi. Seguiamo le indicazioni del sentiero CAI n° 730 DOL (dorsale orobico lariana) diretto alla Culmine di San Pietro. Pur essendo prossimi all’inverno, la poca neve caduta non rende pericoloso il cammino. In caso diverso consiglio di seguire la variante invernale (sentiero n° 730-A), meno panoramica ma più sicura.
Si risale il versante nordorientale dello Zucco di Maesimo addentrandosi nel bosco. Al culmine della salita, quando il sentiero si ammorbidisce, si devia a destra (non ci sono segnalazioni) seguendo una traccia ben intuibile che percorre il crinale. In breve, serpeggiando tra giovani faggi e arbusti bassi, si giunge in vetta allo Zucco, identificata da una palina metallica del CAI. È una cima senza una croce, contraddistinta da roccette sparse e in parte ricoperta di vegetazione. Rimane spoglio il suggestivo affaccio verso le Grigne, la Valsassina e i piani di Artavaggio.
Torniamo sui nostri passi fino a riprendere il sentiero 730. Ci si addentra in un diverte susseguirsi di boschetti di faggio, piccole radure erbose e doline circondate di pinnacoli rocciosi: sembra il luogo ideale per giocare a nascondino!
Improvvisamente odiamo un fruscio provenire dal bosco…ci blocchiamo mentre gli occhi vanno alla ricerca di chissà quale animale selvatico. Ecco invece comparire un giovine che, con passo baldanzoso, si muove tra gli alberi fuori dal sentiero. Non è un cacciatore, al collo porta una reflex con un teleobiettivo gigante. Chiedo lumi a riguardo: «Sono qui per scattare qualche foto ai camosci. In questo periodo (fine novembre) sono in amore ed è più facile avvicinarli. Lì sotto c’è una coppia che ho appena fotografato». Naturalmente do una sbirciata lì sotto…ma i camosci si dimostrano più scaltri di me.
Tra guglie rocciose, ripidi prati (prestare attenzione in caso di neve) e incantevoli boschi di faggio, raggiungiamo la bocchetta di Penscei (1429m), posta in prossimità del baitello del Loz. Si prosegue calcando il versante orientale dello Zucco della Mersa per poi abbassarsi di quota fino alla sella pascoliva (1285m) posta sopra le baite della località Roncaiola. La Culmine si trova appena oltre la sella, in direzione Ovest ma non rappresenta un nostro obiettivo odierno. Cerchiamo invece il sentiero che dovrebbe ricondurci ad Avolasio. Dalla sella occorre scendere poche decine di metri in direzione Est, lungo la strada sterrata. Alla biforcazione della strada, ignoriamo entrambe le direzioni (dritti si andrebbe alle stalle Boldes e a sinistra alle case di Roncaiola). Il nostro sentiero si diparte proprio all’intersezione delle due strade ma non è segnalato e, inizialmente, pare più uno scolo d’acqua che un sentiero. Basta abbassarsi un poco che subito diviene una splendida mulattiera immersa nel bosco. Con il fruscio delle foglie a fare da sottofondo, scendiamo in breve al tornante della strada provinciale 64, diretta alla Culmine, in prossimità del ponte sul torrente Bordesiglio (1036m).
Massimo non finisce di sorprenderci: «Negli anni trenta mia nonna e sua sorella, con l’intento di racimolare qualche soldo per farsi la dote, solevano riempire le gerle di uova fresche e incamminarsi verso la Valsassina lungo la mulattiera che abbiamo appena percorso. Partivano la sera e camminavano tutta la notte per essere a Moggio di primo mattino per vendere le uova passando di casa in casa. Non tornavano indietro finché non le avevano vendute tutte. Qualche volta capitava di arrivare fino a Lecco. Naturalmente occorreva procedere molto lentamente perché una caduta avrebbe fatto una frittata». Rimaniamo sbigottiti! È un vero peccato che gli amici lecchesi non abbiano segnalato in alcun modo quella storica mulattiera.
Dal ponte sul Bordesiglio, in poco più di un chilometro, raggiungiamo Avolasio percorrendo la strada provinciale, totalmente priva di auto in questa stagione. Una sbirciatina alla contrada è d’obbligo. Siamo in perfetto orario per recarci in piazzetta a Vedeseta al ristorante «Dell’Angelo», dove cordialità e buona cucina sono di casa. Oltre ai gustosi piatti della tradizione, ci siamo dilettati nell’assaggio del Taleggio e dello Strachítunt di produzione locale. Nel mentre mi sovvien quanto il Maironi da Ponte andava decantando due secoli orsono: «E sia effetto dell’erbe saporite, sia per qualsivoglia altra causa, quivi certamente le robbe di caccio sono squisitissime, e le lumache terrestri di una grandezza oltre l’ordinario».
P.S. l’escursione qui descritta è lunga 12 chilometri con un dislivello positivo di 800 metri, calcolare circa quattro ore di cammino. Il sentiero n°730 DOL (variante estiva), oltre lo Zucco di Maesimo, muovendosi in direzione della Culmine presenta alcuni tratti insidiosi in caso di neve. Se non si è attrezzati consiglio di tornare alla sella vicino alla baita di Maesimo e imboccare il sentiero n°730-A DOL (variante invernale), meno pericoloso, che si ricollega al precedente presso la località Roncaiola.
Tutte le fotografie sono di Camillo Fumagalli