Torniamo quest’oggi in Val Brembilla , terra dai forti contrasti: cupa, impervia e industrializzata nel fondovalle, assolata, intrigante e docile appena si risalgono i versanti montuosi. Per entrare in sintonia con questo luogo è opportuno fare un salto nel passato: siamo nel XV secolo, gli anni delle feroci faide tra guelfi e ghibellini. I brembillesi, da decenni legati ai Visconti di Milano, erano di fede ghibellina e al tempo della conquista veneziana della terra bergamasca (1427-1428), si opposero in ogni modo ai dominatori. Seguirono anni di sanguinosi combattimenti con le popolazioni limitrofe finché il governo veneziano nel gennaio del 1443, dopo vari avvertimenti e intimidazioni, decise di adottare una delle più tremende ritorsioni nei loro confronti: l’abbattimento e l’incendio di tutti gli insediamenti della valle.
Furono giorni tragici per gli abitanti della vallata, costretti a fuggire per la maggior parte verso la pianura milanese. Ai brembillesi furono confiscate le terre e preclusa la possibilità far ritorno nella loro valle. I brembillesi accolti e protetti da Filippo Maria Visconti, ebbero molti privilegi, tra cui uno che fino ad oggi ha segnato la storia di queste famiglie: a ricordo delle loro origini, quasi tutti gli esuli presero il cognome Brembilla, poi Brambilla, oggi uno dei cognomi più diffusi nel milanese e divenuto, nel tempo, simbolo di laboriosità e intraprendenza.
Orbene, bisogna sapere che Gerosa, borgo da sempre legato commercialmente ai confinanti paesi di fede guelfa della Valle Imagna e della Val Taleggio (fatta eccezione di Vedeseta), mantenne un atteggiamento neutrale alle dispute fratricide e venne risparmiata dalla rappresaglia veneziana. Ad essa, qualche mese prima del gennaio 1443, si unirono strategicamente anche le contrade di Cadelfoglia, Grumello e Cavaglia, svincolandosi da Brembilla. La valle rimase deserta fino al 1485, quando la Serenissima, per incentivare il ripopolamento del luogo, cedette queste terre a famiglie “fidate”. La famiglia Carminati proveniente dalla bassa Imagna, occupò l’altopiano di Laxolo, la famiglia Locatelli, sempre dalla Valle Imagna, il versante di Blello, mentre la famiglia Pesenti, originaria di Gerosa, si insediò nel fondovalle e sul versante del Cerro e S. Antonio.
È proprio da Gerosa (770m) che prende il via la nostra escursione. Posto in posizione dominante sulla Val Brembilla, nelle vicinanze della forcella di Bura (valico di confine con la Val Taleggio), questo borgo assolato deve il nome al termine dialettale gèra, ghiaia, che indica il terreno ghiaioso tipico della zo na. A tal riguardo, scartabellando sui testi, ho trovato altre due ipotesi toponomastiche che, personalmente, trovo alquanto fantasiose: una si riferisce ai numerosi giri della strada che sale da Brembilla, giustificata dal fatto che nel 1500 nei documenti era indicato come Girosa (!); l’altra, assai più romantica si rifà al latino gerere rosam, portare una rosa, come simbolo di una primavera precoce, qui sempre in anticipo su tutta la valle grazie alla favorevole insolazione.
Imbocchiamo la ripida via S. Maria, strada agrosilvopastorale che, in pochi minuti ci conduce alla ex chiesa S. Maria in Montanis (840m). Di origini tardo-romaniche per lungo tempo fu la parrocchiale del borgo finché, nel 1700, la sua posizione piuttosto discosta dal centro abitato rese necessaria la costruzione di una nuova chiesa e, di conseguenza, la sua sconsacrazione. Oggi, dopo opportuni interventi di recupero, la ex chiesa funziona come centro polivalente al servizio della comunità.
La strada procede senza tergiversare, serpeggiando tra boschi di latifoglie e prati occupati da mirabili cascine di pietra. Si coglie appieno l’operosità dell’uomo che ha saputo trasformare questi terreni boschivi e sassosi in magnifici pascoli. È così che andiamo a conoscere la panoramica Cabusié (910m) e la luminosa Giaperto (1070m). Pare che l’origine del nome Giaperto sia da ricollegare al latino in aversis, nelle avversità, ma un luogo tanto ameno escluderebbe tale ipotesi. Più verosimilmente vale la traduzione «in luoghi posti dall’altra parte» forse chiamato così dagli abitanti della Val Taleggio o della Valle Imagna per i quali questi splendidi pascoli si trovano «dall’altra parte». Rimane tuttavia un dubbio: in dialetto la località si chiama Giaèrt, dove aèrt indica un luogo aperto…lasciamo agli esperti la soluzione del dilemma.
Giaperto è caratterizzata da alcune cascine sparse nei prati, una più bella dell’altra e in posizione dominante sull’intera vallata. Una di queste fino a qualche anno fa ospitava una coltivazione d’eccellenza: lo zafferano di montagna. L’azienda agricola Tre Faggi di Alessandro Cremaschi si era specializzata nella produzione di zafferano bio. L’attività principale avveniva in pianura, a Spirano, ma a Giaperto, si curava un prodotto di altissima qualità. Per problemi di salute il titolare è stato costretto ad interrompere temporaneamente la coltivazione così come l’attività ricettiva della casa vacanze allestita nella baita adiacente al campo di zafferano. Auguriamo ad Alessandro di riprendere presto l’attività.
Continuiamo il cammino fino a intercettare il sentiero (CAI n°570) che proviene dalla sottostante forcella di Bura. La nostra direzione è la Corna Bianca. Senza accorgecene siamo entrati in terra taleggina e ben presto approdiamo alla cascina Piavigin (1185m), un meraviglioso balcone panoramico sulla Val Taleggio. La vista raggiunge le cime imbiancate della valle e arriva fino alla Grigna.
Il sentiero ora rientra nel bosco e sale a guadagnare il crinale della Corna Bianca. La neve inizia ad imbiancare il terreno ma, a lasciarci sbigottiti, è la galaverna che stanotte si è depositata sui rami degli alberi regalando colpi d’occhio spettacolari. In quest’atmosfera magica raggiungiamo la croce della Corna Bianca: non è posizionata in corrispondenza della sommità del monte ma poco più in basso ed è circondata dal bosco che ne occlude la vista. Chiedo lumi all’amico Massimiliano, brembillese doc, che mi racconta di come la croce sia stata realizzata da un privato cittadino nel terreno di sua proprietà e dedicata ai caduti del Corpo Forestale dello Stato. Ben venga questa croce anche perché sulla vera cima c’è solo un cumulo di sassi.
Procedendo sul crinale si transita poco sopra la località Rusticana, una zona piuttosto impervia che fu teatro di un evento bellico poco conosciuto: la sera del 23 dicembre 1944 un bombardiere tedesco partito da Orio al Serio per un volo di ricognizione con a bordo cinque uomini, per cause mai chiarite (si ipotizza un guasto meccanico o un atto di sabotaggio), si schiantò al suolo. Nella zona di Gerosa la quiete della notte venne rotta da un immenso boato. Alcuni abitanti raggiunsero rapidamente il luogo della sciagura. Trovarono resti umani sparsi ovunque tra i rottami del bombardiere. Ciò che rimase delle vittime venne trasportato avvolto in coperte e ricomposto presso un’autorimessa accanto alla chiesa di Gerosa. Le spoglie degli aviatori, benedette dal parroco, vennero recuperate dai tedeschi alcuni giorni dopo.
Molto curioso è ciò che avvenne dopo il tragico schianto: per riportare a valle i rottami del bombardiere gli abitanti della zona fecero ricorso alle loro abilità tecniche di boscaioli provetti e installarono una teleferica. Con le lamiere del velivolo vennero forgiati coperchi per le pentole e contenitori metallici. Da uno pneumatico furono sagomate le suole per le scarpe mentre i fili dei paracadute riutilizzati per cucire e realizzare indumenti. I ragazzi di Peghera e Gerosa fecero incetta di proiettili delle due mitragliatrici e del cannone di bordo facendo nascere un vero e proprio commercio di munizioni. Nacque così l’”arte” del riciclo…
Raggiungiamo i prati della località «La Torre» con la baita imbandierata del tricolore e la soprastante pozza d’acqua ricolma di neve (1425m). Da quassù la vista sui monti della val Brembilla è suggestiva. Un manto bianco nasconde il sentiero ma il percorso è facilmente intuibile grazie ai bolli biancorossi sugli alberi e alle orme di altri escursionisti. Comunque occorre oltrepassare la pozza addentrandosi nel bosco in direzione Nordovest.
Siamo in un tratto in ombra ma la neve è sufficientemente morbida da agevolare il cammino evitandoci l’utilizzo dei ramponcini. Un traverso sotto la cima dello Zucco di Pralongone e una breve salita ci portano sul crinale di confine con la Valle Imagna dove intercettiamo il sentiero CAI n° 571 (1470m): a destra si sale ai Canti mentre a sinistra si scende ai Tre Faggi (1390m). Questa è la nostra prossima tappa, che desideriamo raggiungere anche per vedere da vicino i danni recati a queste piante secolari dal fortunale dell’estate scorsa: il luogo ha mantenuto il suo fascino paesaggistico ma il faggio centrale è stato letteralmente spezzato in due mentre quello più a monte che aveva subito un’amputazione qualche mese prima mostra evidenti segnali di sofferenza. Un’altra storia dei nostri monti da raccontare.
Dopo aver gustato il meraviglioso panorama sul Resegone e sulla Valle Imagna, iniziamo il rientro verso Gerosa: proseguiamo sul sentiero 571 fino alla sottostante strada sterrata. La seguiamo a sinistra e pochi metri dopo prendiamo la strada che scende a destra, abbandonando così la Valle Imagna per rituffarci in val Brembilla. In breve siamo nei pressi della baita Foppa Merosa (1330m), altro gioiello di architettura rurale montana. Pochi metri prima della baita a destra si diparte il sentiero CAI n° 592D (bivio non ben segnalato) che scende nel bosco fino ad immettersi su un’altra strada forestale che si ricongiunge, all’altezza della prima cascina di Giaperto, con la strada agrosilvopastorale seguita all’andata. Il sentiero 592D raggiungerebbe Gerosa con un altro percorso ma preferiamo affidarci alla comodità della strada.
Giunti a Cabusié, noto la casa aperta e un signore che si aggira tra stalla e pollaio. L’occasione per scambiare due parole con un gerosino doc è ghiotta. Mi avvicino per salutarlo e colgo immediatamente una schietta cordialità. Si chiama Emilio e alleva bestiame. Nella piccola stalla accudisce alcune mucche e un vitellino. All’apparenza sembra più ghibellino che guelfo e mi trovo subito in sintonia con lui. Gli chiedo se vive lì: «Ho la casa a Gerosa, mia mamma tanti anni fa aveva la trattoria in paese ma io faccio da sempre il mestiere dell’allevatore e salgo qui ogni giorno per dar da mangiare alle bestie». Domando: «quindi produce formaggio?». Perentoria la replica: «Taleggio!». Lo incalzo: «avrà sicuramente una buona cantina…». Ammicca un sorriso: «è sotto terra, nella roccia…pensi che, in piena estate, all’ingresso della cantina capita di avere 2 gradi di temperatura». Prima di salutarci Emilio mi offre un piccolo taleggio che, tornato a casa, ho gustato con immenso piacere. L’escursione si conclude con una visita al centro storico di Gerosa, abilmente recuperato, che lascia assaporare le origini medievali del borgo.
P.S. l’escursione qui descritta è lunga 12km con 800m di dislivello positivo. Calcolare quattro orette di cammino. In questo periodo è facile incontrare neve sui sentieri, consiglio un paio di ramponcini.
Tutte le foto sono di Camillo Fumagalli