Ecco l’idea di un itinerario mattutino di tipo “telescopico”, cioè allungabile o accorciabile in funzione dei tempi di percorrenza per riuscire a pranzare con agio e recarsi nel pomeriggio alla fucina. Meta principale dell’escursione è il passo della Manina, con partenza da Teveno, poi si vedrà…
L’idea riscuote successo, siamo in otto. Partiamo da Teveno (1120m), frazione di Vilminore di Scalve. Per la precisione siamo nell’Oltrepovo, cioè l’insieme dei territori che si trovano oltre il torrente Povo, come viene chiamato il torrente Gleno nel suo corso a valle della diga. Il Maironi da Ponte chiama Teveno “villetta di val di Scalve” lasciando cogliere l’intima amenità del luogo. Il borgo è adagiato in una piana prativa, baciato dai raggi del sole mattutino e protetto ad Ovest dal pizzo di Petto e dal monte Barbarossa.
È molto controversa l’origine del nome: in una cartina del 1580 compare come Timeno, sedici anni più tardi Giovanni da Lezze la chiama Teneno. C’è chi pensa che possa derivare dall’aggettivo latino di tede (tedenus), una varietà di pino molto resinoso e facilmente combustibile (da cui tede, ovvero fiaccola) e l’antica vocazione mineraria della zona potrebbe suggellare questa ipotesi. Alcuni studiosi propongono invece un legame con tovéno, da toff, tufo. Non sono un esperto ma posso confermare che in zona gli affioramenti di tufo sono evidenti. Il dubbio rimane irrisolto.
Dal posteggio del campo da calcio ci incamminiamo, attraverso il paese, lungo la vecchia via centrale che, insolitamente ampia, rivela scorci assai interessanti. Raggiunta la parrocchiale dedicata a San Michele, percorriamo la strada provinciale in direzione di Vilminore fino all’imbocco della mulattiera diretta a Pezzolo. Siamo su un tratto della via Decia, un cammino di recente tracciatura che in cinque tappe percorre tutta la val di Scalve (Decio è l’antico nome latino del fiume Dezzo). Il selciato è in ottime condizioni e il percorso serpeggia tra prati e boschetti fino al borgo di Pezzolo (1205m), frazione di Vilminore, posta su un assolato pianoro.
Attraversiamo la contrada alla ricerca dei segni del passato che riusciamo ad intravedere solo in poche abitazioni e in alcuni portali. Oltrepassato Pezzolo, la via Decia prosegue ampia ad incrociare la strada provinciale per poi impennarsi alla volta di Nona (1341m), il nucleo abitato più alto di tutta la vallata. Percorrere la via centrale di Nona equivale a fare un tuffo nel passato: rustiche dimore di pietra con stretti balconi di legno e angusti passaggi di comunicazione con le stalle e gli orti. La caratteristica più interessante della contrada sono gli archi di ingresso delle abitazioni, di tufo, che creano un meraviglioso contrasto con il color rossastro dei sassi di verrucano. Il tufo nelle Orobie è una roccia piuttosto rara, ma risalendo la valle del Nembo ci si accorge della sua presenza nell’alveo. La medesima cosa viene attestata dal Maironi da Ponte che due secoli fa, riferendosi a questo territorio, diceva: «…è bagnato dal fiumicello Nembo, nel cui letto trovansi de’ pezzi di marmo capaci di una bella levigatura».
Chiacchierando con un anziano del luogo vengo a scoprire che sulla collina boscosa a sud-est del borgo, il monte Gromo, esisteva una cava di tufo, attiva fino agli anni sessanta. Nella parte alta di via Piccini spicca una bellissima abitazione con incisa sulla testata dell’arco la data del 1668.
Da non perdere la brevissima deviazione alla vecchia fontana della Nona, recentemente restaurata, molto apprezzata per la sua acqua temperata.
Nona vanta una varietà di formaggio davvero unica: il formaggio nero di Nona 1753. È un formaggio stagionato ricoperto da una crosta nera. L’antica ricetta (risalente al 1753) è stata rinvenuta in una baita di Nona a 1600m: latte intero di mucca di razza Bruna Alpina, pepe in grani e una segreta miscela esterna di spezie. Una vera delizia! Oggi il formaggio è prodotto e commercializzato dalla Latteria Sociale Montana di Scalve, a Vilmaggiore.
Sempre il Maironi da Ponte rammenta: «Nona è soggetta a frequenti nevate straordinarie, le quali qualche volta arrivarono all’altezza di undici e più piedi parigini. E queste non di rado aumentate nel volume dalle grandi valanche che dalle vicine erte pendici piombano sul suo fabbricato, giungono ad otturare le vie in guisa da dover le persone sortire dalle abitazioni per la parte dei tetti». Immediatamente mi tuffo in Internet alla ricerca del “piede parigino”: è un’unità di misura utilizzata nell’impero austro-ungarico che corrisponde a 32,5 centimetri. Un rapido calcolo ed ecco determinata la ragguardevole altezza della neve a Nona: tre metri e mezzo!
Abbandoniamo la via Decia e puntiamo al passo della Manina seguendo la segnaletica CAI n°408. Una strada forestale guida agevolmente il cammino. Potremmo mantenerci su questo tracciato, che era l’antica via di comunicazione con la valle di Bondione, ma un cartello indica la deviazione per ol sintér de olt (sentiero alto). Questo tracciato che corre quasi parallelo alla strada forestale, fu realizzato per il trasporto a valle del minerale di ferro estratto nelle miniere della Manina e del fieno dei pracc de olt soprastanti. Il trasporto veniva effettuato dagli strusì (trascinatori) con slitte fatte scivolare lungo questo sentiero. L’attività degli strusì cessò all’inizio del secolo scorso con la realizzazione di una teleferica.
Naturalmente deviamo per il sintér de olt che sale immerso nel bosco di conifere dove spiccano numerosi formicai di formica rufa. L’influenza di questi insetti sull’ecosistema del bosco è notevole: migliorano la qualità del terreno e si nutrono dei parassiti delle piante. Il sentiero sbuca dal bosco poco sopra le Case Rosse (1637m), il centro operativo delle miniere di ferro della Manina. Durante la seconda guerra mondiale il complesso fu requisito dai nazisti, che ne fecero un presidio militare atto a gestire i lavori di fortificazione a difesa del confine meridionale del Terzo Reich. All’alba del 27 settembre 1944 un gruppo di partigiani, percorrendo i cunicoli delle miniere, colse di sorpresa il presidio tedesco costringendo i nazisti alla resa.
Proseguendo sul sentiero in direzione del passo della Manina si transita da alcuni cunicoli di accesso delle vecchie miniere. Provo ad intrufolarmi ma dopo pochi metri sono costretto a fermarmi perché il cunicolo è ostruito da una frana. L’estrazione del ferro in questa area, risalente all’epoca romana, divenne per molti secoli l’economia trainante dell’intera vallata. Le miniere hanno continuato a funzionare fino agli anni settanta del secolo scorso.
Sbuchiamo al passo della Manina (1799m), poco sopra la panoramica cappelletta degli alpini. La raggiungiamo per scattare qualche foto anche se le cime più alte sono coperte dalle nubi.
Scendiamo ora al piccolo valico sotto la cappelletta, importante crocevia di sentieri, per seguire le indicazioni per Teveno (CAI n°407). Inizialmente si sale lungo il crinale settentrionale del monte Pizzul, fino a quota 1900m, per poi compiere un lungo traverso a mezza costa tra innumerevoli cespugli di ontano nero. Poco prima di affacciarsi sulla malga alta di Barbarossa si giunge a un bivio non segnalato (1860m).
«Ehi, siamo in anticipo sulla tabella di marcia! Che ne dite se facciamo una deviazione alla Punta delle Oche? Venti minuti e siamo in cima». Il consenso giunge unanime e cosi svoltiamo a destra. Una breve impennata ci porta al colle delle Oche (2080m), una sella posta sul crinale tra il monte Barbarossa e la Punta delle Oche, riconoscibile dalla luccicante croce metallica. Tenendo la destra seguiamo l’aereo filo di cresta, che ci conduce fino alla croce (2119m). Su molte cartine e app escursionistiche questa cima non è menzionata mentre in altre viene indicata come cima Pizzul. La croce di vetta è stata collocata nel 2019 e da allora “quota 2119” viene unanimamente riconosciuta come punta delle Oche. Il Pizzul (2068m) è invece l’elevazione che si incontra proseguendo lungo la cresta in direzione Nord.
Torniamo sui nostri passi fino a ricongiungerci al sentiero n° 407. In breve siamo alla malga alta di Barbarossa (1832m), adagiata in un pianoro solivo con i contrafforti del pizzo di Petto a fare da scenografico fondale.
Una strada forestale conduce, per pascoli, alla malga bassa di Barbarossa (1704m) e, successivamente, addentrandosi nel bosco, scende ripida fino a Teveno. Siamo in perfetto orario per il pranzo all’Osteria Bastioli. Ad accoglierci Cristina, cordiale ed affabile giovane scalvina che ci accompagna nell’assaggio delle prelibatezze del menù. Meriterebbe il viaggio anche solo l’Osteria Bastioli!
Il momento conviviale si trasforma spesso in occasione per progettare nuove scorribande. È così che iniziamo a pensare ad una gita scialpinistica in zona per finire con i piedi sotto il tavolo, ma il dubbio che il locale d’inverno possa essere chiuso ci lascia perplessi. Ecco giungere Cristina a rassicurarci: «lavoriamo quasi più d’inverno con gli scialpinisti che d’estate con i turisti». Poi si lascia sfuggire una frase che illumina i nostri occhi: «quest’anno poche noci…tanta neve!». Torneremo a trovarti Cristina.
A conclusione della splendida giornata ci rechiamo a piedi alla fucina di Teveno, dove ad attenderci è Fabio Morzenti, proprietario nonché vulcanico promotore di iniziative di recupero e valorizzazione dell’opificio. Fabio ci accompagna nella visita illustrandoci, con piglio istrionico, ogni dettaglio dei meccanismi di azione del maglio e di alimentazione della fucina. È come se avesse lavorato lui stesso in fucina.
La fucina di Teveno era strategicamente posizionata lungo la strada Valbona, l’antica via di collegamento tra le miniere della Manina e il grande forno fusorio del Dezzo, nel fondovalle. Era una fucina di finitura, realizzata verso la fine del settecento e funzionante fino al 1964. Gli antenati di Fabio lavoravano utensili, chiodi, serrature e altre minuterie metalliche. Molto suggestiva la sua ubicazione: vicino al torrente Nembo, tra due enormi massi erratici con cui crea un elemento architettonico unico.
Nella maggior parte delle fucine, per alimentare la fiamma, si utilizzavano mantici azionati da garzoni di bottega. La fucina di Teveno invece sfruttava un sistema a dir poco geniale: la tina de l’ora (tecnicamente chiamata tromba eolica). Grazie alla caduta d’acqua all’interno di una camera ermetica, si generava uno spostamento d’aria che veniva convogliato direttamente alla fiamma attraverso un tubo. Taluni attribuiscono tale invenzione a Leonardo da Vinci, in realtà trombe e sifoni simili erano in uso già nell’antichità: un esempio famoso è la macchina di Erone risalente al III secolo a.C. che utilizzava un sifone alimentato dall’aria di un fuoco per aprire e chiudere le porte di un tempio. Nel XV secolo tali dispositivi venivano utilizzati per prosciugare aree allagate, in particolare miniere. Alcuni disegni di Leonardo da Vinci rappresentano proprio questo tipo di macchina. Dobbiamo attendere il 1589 per trovare una descrizione della tromba eolica applicata alle fucine, ad opera di Gianbattista della Porta nella sua “Magiae Naturalis”.
Chicca finale è la dimostrazione dal vivo di un mastro ferraio all’opera mentre forgia il ferro all’interno della fucina.
P.S. l’itinerario qui descritto, compresa la salita alla punta delle Oche, è lungo 14km con 1100m di dislivello positivo. Calcolare cinque ore di cammino. Rinunciando alla vetta si risparmiano due km e 250m di dislivello, un’oretta circa.
P.P.S. l’escursione è coincisa con gli ultimi scampoli della intensa fase perturbata che ha caratterizzato il mese di ottobre. I panorami di novembre sono senz’altro più spettacolari.